Nebraska (2013) – Cinemalato #2 (22/01/2014)

Perdonatemi se oggi non inizio con la trama del film in esame, ma oggi non è un giorno qualsiasi, bensì il secondo anniversario dalla nascita di questo mio piccolo blog. Dunque concedetemi un brevissimo ringraziamento per tutto il supporto che mi avete indirettamente dato con i vostri commenti e visualizzazioni, che mi ha ampiamente ripagato della fatica fatta per combattere la pigrizia e portare avanti questa piccola avventura internettiana. E nonostante abbia decisamente ridotto il ritmo serrato di pubblicazione del primo anno, voi cari lettori non avete cessato di visitare il Cinemalato, regalandomi soddisfazioni notevoli: basterà che guardiate i numeri che, solo per oggi, andranno a occupare il posto della ordinaria MOVIEQUOTE, e capirete quanto avete fatto per me. Ancora grazie, dunque, ed eccovi il mio personale regalo sotto forma di recensione – ma state sintonizzati, che a breve ci sarà una novità!

La pellicola di oggi, Nebraska, è l’ultima opera del regista Alexander Payne, già recensito due anni fa su queste pagine per il film Paradiso AmaroEd è a questo, e insieme ad A Proposito Di Schmidt (2002), che il regista e il suo sceneggiatore di turno, Bob Nelson, si rifanno:  là dove nella pellicola del 2002 il vecchio Jack Nicholson compiva un viaggio in solitaria per cercare di combinare qualcosa di buono nella sua vita prima della fine, e contemporaneamente fare i conti con quanto compiuto fino a quel momento, qua in Nebraska (rifacendosi a Paradiso Amaro) il vecchio Bruce Dern è accompagnato da tutta la famiglia (e, in particolare, dal figlio più giovane), con la quale riesce a condividere alcuni degli ultimi momenti importanti della sua esistenza.

E ancora una volta è straordinario il tocco registico di Payne: non tanto per la solita, incredibile delicatezza con cui le vicende e i personaggi sono modellati; non tanto per il bianco e nero, funzionale a rendere “sbiadita” l’intera storia; quanto per quel continuo e umanissimo miscelarsi di stati d’animo (letizia e malinconia, in primis), che alleggerisce tematiche altrimenti molto deprimenti, rendendo determinate scelte di soggetto decisamente poco paracule e molto genuine. Quei continui e insistiti primi piani dell’anziano Woody Grant sono estremamente commoventi, ma mai patetici: solo Payne ci riesce, portandoti davvero nel mondo dei suoi personaggi in punta di piedi, senza brutalità, senza fare troppo rumore.

Probabilmente c’è anche una certa lezione “morale” stavolta: l’amore e l’affetto vero sono prerogativa di pochi. Il paesino di origine di Woody, che lo accoglie a braccia aperte – compresa quella parte di famiglia che era rimasta là, invece di trasferirsi in città come Woody e sua moglie – in realtà lo fa solo perchè crede davvero che il vecchio abbia vinto quel milione di dollari, e lo aspetta al varco per cercare di ottenerne una parte. Ma anche qui Payne e Nelson hanno una humana pietas per i “cattivi” della situazione: ci sono un paio di scene, molto divertenti ma anche in qualche modo tristi, dove i vari uomini della famiglia sono seduti di fronte alla TV e parlano di cose assolutamente futili (vecchie macchie rottamate, la durata del viaggio…). Allora, forse, il duo regista-sceneggiatore ci sta dicendo che, in fin dei conti, non sono poi così cattivi: erano solo annoiati – in un paese che è rimasto come fermo nel tempo – e l’arrivo del vecchio Woody ne ha paradossalmente riscattato la vitalità e l’energia.

Ma infine l’amore e l’affetto per Woody ci sono eccome: quello della moglie, simpatica ed energia vecchietta, che però (grazie al lavoro di Payne, Nelson e della stessa June Squibb che la incarna) non scade assolutamente nell’ovvia macchietta. E poi l’affetto dei figli, che in un’altra divertente scena arrivano a rubare un vecchio compressore – appartenuto al padre, ma rubatogli dal suo collega d’officina. Ma soprattutto il figlio minore, David (Will Forte). Il padre, ovviamente, non vince il milione di dollari (il suo biglietto sarebbe dovuto essere il fortunato estratto per la vittoria), ma il figlio capisce quanto il padre tenga a quelle piccole gioie che voleva concedersi con la vincita (un compressore nuovo ed un furgone): e gliele compra, di sua tasca, concedendo poi al vecchio un breve momento di guida all’uscita dalla sua città natale. E tutto il significato della vicenda è lì, in quella lenta uscita di scena di Woody, che saluta tutti i suoi vecchi “fantasmi” (sia coloro che non gli hanno voluto poi così bene, sia quelli che l’hanno addirittura amato senza però riuscire poi a tenerselo stretto), in sella a quel veicolo che rappresenta l’ultima prova d’amore del figlio per lui. Forse c’è un po’ di Big Fish in questo finale, ma niente che sia così toccante e potente potrà mai essere criticato dal sottoscritto.

E con questo vi ringrazio dell’affetto vero che mi avete dimostrato in questi 2 lunghi anni, augurandomi che non mi venga a mancare in quelli futuri. Buon anno e buona stagione, grazie di tutto!

“LOCANDIMETRO”

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5 commenti

  1. Ma sai che non mi ha convinto affatto ?

    Ho trovato il bianco e nero un po’ stucchevole e senza una funzione; lo svilupparsi della trama non mi ha convinto; la volgarità della madre fuori luogo, per destare facili risate; il rapporto padre-figlio non approfondito; la vita del figlio solo abbozzata ma senza che si capisce molto… delusione !

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