Dogman (2018)

Marcello, trentenne padre di famiglia, gestisce un negozio per la pulizia dei cani nel quartiere romano della Magliana: la sua placida esistenza (così come quella dell’intera borgata) è tormentata dalla presenza di un violento e possente bullo, Simone, che ruba soldi e droga senza mai pagare i conti. Ma quando Simone costringe Marcello ad essergli complice in un furto ai danni di un suo amico orefice, la storia prenderà una piega diversa ed inaspettata…

Dopo aver parlato dell’inusuale triangolo del “Nano della stazione Termini” nel suo L’Imbalsamatore e dopo averci raccontato l’ossessione del “Cacciatore di anoressiche” nel successivo Primo Amore, Garrone torna a basare il proprio Cinema sulla cronaca nera italiana, prendendo come spunto l’omicidio di Giancarlo Ricci da parte di Pietro De Negri, “Er Canaro della Magliana”.

L’impostazione che il regista romano dà alla sua opera (con l’aiuto degli esperti Ugo Chiti e Massimo Gaudioso in sede di sceneggiatura) è quella che chi conosce il delitto si aspetta: come per le due vicende precedentemente trattate, anche qui l’omicidio nasce a partire da un rapporto ambiguo e (per certi versi) malato tra due personaggi, e Garrone non trascura di concentrarsi soprattutto su tale relazione. Marcello è un uomo tanto premuroso e gentile da risultare debole psicologicamente, prima che fisicamente, qualcuno pronto a dare tutto senza ricevere niente in cambio: Simone, al contrario, è una forza della natura, un uomo privo di emozione e carico di violenza fisica, che scarica imperturbabile sul prossimo per ottenere ciò che vuole.

È, in fondo, una storia di addestramento, quella che Dogman racconta. Marcello è un cane di stazza minuta e dal cuore grande, quello stesso tipo di cane che salva dal congelamento correndo il rischio di essere incriminato di un furto non commesso: l’unico motivo che spinge Marcello a delinquere è l’amore incommensurabile per la figlia, quella figlia che ha il sogno di fare immersioni alle Maldive – un sogno costoso, almeno da 10000 euro. Ma c’è anche un’altra ragione per cui il povero “canaro” si convince a compiere il furto: la forza di Simone, che addestra il suo debole cagnolino con forza e ferocia – simile, in questo, al cane di inizio pellicola, possente e rabbioso, al quale Marcello si approccia da distanza con timore quasi reverenziale.

Qui sta la grande contraddizione nel rapporto tra i due “cani”: se è vero che il piccolo è oppresso dal grande (e per questo gli serba rancore), altrettanto evidente è una certa ammirazione per la capacità del grande di farsi valere, di non farsi mettere i piedi in testa da nessuno. Il punto clou dell’addestramento coincide, infatti, con l’avvertimento di Marcello affinché Simone possa difendersi da un uomo armato che gli stava sopraggiungendo alle spalle: per ringraziare il suo piccolo alleato del gesto, il pitbull lo porta con sé in discoteca, servendogli cocaina e concedendogli un fugace momento erotico con una bellissima ragazza. Carota e bastone.

Eppure il bastone, alla fine, colpisce troppo duramente: privato del rispetto di tutti i suoi colleghi negozianti, quasi allontanato dalla figlia (alla quale non può regalare quella vacanza da sogno), Marcello esplode in un improvviso moto di ribellione, che sarà fatale per entrambi. È qui che Garrone mi ha spiazzato: perché non far vedere la crudeltà della tortura (effettiva o inventata che sia, comunque presente nel fatto di cronaca) e rendere il tutto quasi accidentale (lasciando, quindi, una sfumatura di umanità al canaro)? La metamorfosi di Marcello in cane (con urla bavose gridate al vento e fiatone da lingua penzoloni) è dovuta ed eccellente, ma sarebbe stata perfetta se guarnita di quella rabbia livida che solo un animale maltrattato è in grado di generare.

Ma al netto di questa piccola sbavatura, Dogman è una finissima lettura psicologica di due persone, di un rapporto tanto assurdo quanto necessario ad entrambe, di una ricerca di genuina approvazione che finisce in una piazzola abbandonata nel cigolio solitario del vento – tutto perfettamente impeciato di nuvole dalla fotografia del danese Nicolaj Brüel, nonché magnificamente incarnato dalle prove attoriali di Marcello Fonte (meritatamente premiato al Festival di Cannes con il “Prix de interpretation masculine”) ed Edoardo Pesce (che si merita altrettanti encomi ed elogi). Un piccolo, terrificante spaccato di desolazione umana ed animalesca, nonché uno degli apici (forse l’apice?) del Cinema di Matteo Garrone.

 “LOCANDIMETRO”