L’Ora Più Buia (2017)

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1940. La Germania nazista sta invadendo l’Europa ad una velocità sovrumana, le potenze del continente si arrendono una dietro l’altra. Il primo ministro inglese, Neville Chamberlain, è costretto a dimettersi da pressioni interne al parlamento: come suo successore viene indicato Winston Churchill, un uomo che accontenta sia la maggioranza che l’opposizione, ma anche uno strambo e poco abile stratega fissato con la guerra. Ma quando i tedeschi accerchiano le truppe britanniche in terra francese, il nuovo primo ministro si trova a dover affrontare un’onerosissima scelta.

L’Ora Più Buia è il film biopic della Stagione, l’acchiappa-Oscar con cui ci troviamo a che fare quest’anno: storia realmente accaduta, personaggio realmente accaduto, personaggio britannico, personaggio pieno di tic e difetti, guerra, un pizzico di razzismo/anti-semitismo e il gioco è fatto. Solitamente film del genere mi annoiano da pazzi, anche qualora li trovi ben realizzati (un esempio su tutti è Il Discorso Del Re dal lontano 2011, peraltro incentrato sullo stesso momento storico).

In questo specifico caso, tuttavia, nutrivo ben più di una speranza di assistere ad una pellicola diversa: in primis, perché l’attore protagonista è quel talento sottovalutatissimo di Gary Oldman, che a quanto pare riuscirà finalmente a portarsi a casa l’ambita statuetta (alla sua seconda nomination, pazzesco per quanti ruoli sia stato ignorato dall’Accademy); in secondo luogo, perché il regista del film è nientepopodimeno che Joe Wright, un signore che mi aveva già mostrato un controllo formale di eleganza molto aristocratica (Espiazione, con un meraviglioso piano-sequenza centrale proprio legato allo sfollamento di Dunkerque), ma anche impennate surreal-grottesche con la fiaba orrifica di Hanna (gioiellino sottovalutatissimo nella Stagione 2011/2012).

Alla fine, il risultato mi soddisfa a metà, esattamente come mi ha soddisfatto la prima metà di questo film, quando cioè assistiamo all’investitura di Churchill ed ai suoi primi, faticosi passi nel mondo della politica estera: è lì, infatti, che si concede spazio ad un po’ di sano humor britannico, che si mostrano le stramberie e le sfumature più grette della personalità di Churchill, che si costruisce la rete di rapporti fondamentale per la risoluzione finale. C’è ritmo, c’è una strana vitalità polemica, c’è una bella regia che crea ambienti ingobbiti e torvi come il suo protagonista.

Poi, purtroppo, subentrano le dinamiche “hollywoodiane” a cui la pellicola non può, per sua natura, sottrarsi, e il finale sbrodola un po’: se le scene con la segretaria e con il re sono molto convincenti anche nella loro retorica ovvietà (grazie alla rete di rapporti di cui parlavo sopra), la sequenza sulla metro è abbastanza agghiacciante, soprattutto per una certa enfasi da stadio nelle risposte dei cittadini terrorizzati dal conflitto. In generale, poi, laddove nella prima metà c’era un bell’alternarsi di dialogo e silenzio, il finale si imposta come un quadruplice monologo consecutivo (salvo la suddetta sequenza della metro, che presenta comunque un’evidente impostazione teatrale del dialogo a più voci) che rende il tutto molto teatrale e poco empatico, nonostante la vibrante performance dell’attore protagonista.

Nonostante questo, però, L’Ora Più Buia si fa forte di quella prima metà per innalzarsi (a mio avviso) al di sopra del biopic acchiappa-Oscar medio: nonostante un eccesso di retorica (per quanto previsto) sul finale e una cattiva gestione di certi personaggi (la moglie di Churchill, addirittura interpretata da Kristin Scott Thomas, risulta avere la stessa importanza della moglie di Lincoln nell’omonimo film di Spielberg, ovvero nessuna), la sua iniziale eccentricità, condita da solide performance attoriali (segnalo anche Lily James nei panni della segretaria e Ben Mendelsohn nei panni di Re Giorgio VI), non può che rimanere impressa e colpire – “Up your bum”, come recita la mia bizzarra MOVIEQUOTE.

“LOCANDIMETRO”

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Room (2015)

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Jack, cinque anni, vive con la madre Joy, ventiquattrenne, all’interno di una piccolissima stanza – che per lui rappresenta l’intero mondo: ma la donna è in realtà stata rapita sette anni prima, e tenuta rinchiusa dentro il capanno sul retro della casa del suo rapitore (che abusa di lei regolarmente). Jack aiuterà Joy a scappare da quell’incubo, ma il rientro  nel mondo reale sarà più complesso del previsto…

Room di Lenny Abrahamson (su soggetto e sceneggiatura della scrittrice Emma Donoghue) è un po’ il film “originale” dell’incombente serata degli Oscar 2016: questo per merito di ciò che tutti conoscono della vicenda, ovverosia la particolare situazione iniziale dei due protagonisti – che, indubbiamente, incuriosisce e non poco. Aggiungiamoci che Brie Larson è – al pari di DiCaprio – sicura di lasciarsi alle spalle la serata del 28 Febbraio con la statuetta da miglior attrice protagonista stretta in mano, e abbiamo sicuramente ottenuto una notevole pubblicità per il film.

Ma Room è molto altro, e non è tutto rose e fiori come l’immagine trionfal-indie di superficie lascerebbe intendere. Anzitutto la pellicola di Abrahamson e Donoghue non è una sola pellicola, ma sono letteralmente due al prezzo di una, ognuna delle quali occupa precisamente metà del minutaggio totale: la prima metà è quella più thiller/fantastico, incentrata sulla vita di Jack e Joy nella stanza e sui loro tentativi di fuga da essa; la seconda metà è quella più drammatica, che ci parla del ritorno ed ingresso nel mondo reale da parte di madre e figlio (rispettivamente).

Ora, sulla prima metà ho ben poco da obiettare: la premessa accattivante vale da sola metà del risultato, e un sapiente crescendo emozionale della vicenda (con la conquista – da parte di Jack – della consapevolezza del mondo esterno, e con i vari tentativi di fuga dei due – tra incertezza e fallimento) fa il resto. Unico piccolo neo, le riflessioni “poetiche” di Jack, che spesso stroppiano per lunghezza e astrusità concettuale: alla fin dei conti questo Room non è una fiaba, ma un film profondamente realistico, e certe uscite “indie” con tanto di voice over rarefatta non gli si addicono (a differenza di quanto succedeva, ad esempio, con Re Della Terra Selvaggia).

Sulla seconda metà, al contrario, qualcosa mi inizia a puzzare. L’ingresso nel mondo del piccolo Jack è ben strutturato, in un aprirsi lento al nuovo e alle altre persone (con la commovente conquista finale del “ti voglio bene” alla nonna). Ciò che succede a Joy, tuttavia, non mi ha entusiasmato: la ragazza praticamente dà di matto, e in un crescendo di depressione tenta il suicidio. Il problema è che le motivazioni sono taciute, sembra che ogni azione o emozione di Joy sia giustificata sulla base del senso comune (“una persona che ha subito un tale trauma avrà problemi al suo rientro nel mondo”), e l’ho trovata una scelta loffia (specialmente quando si fa forzatura nell’intervista con un’invadente giornalista, che per 5 o 6 volte ripete alla ragazza “forse era meglio se tu avessi affidato Jack a qualcun’altro”). Più in generale, ad essere sinceri, non ho proprio apprezzato la scelta “tematica” di questa seconda parte: me ne fregava ben poco di vedere come i due si adeguassero a rientrare nel mondo esterno, mi sono sentito annoiato rispetto all’accattivante prima parte.

Quello che rimane di Room è soprattutto un magnifico duetto attoriale tra Brie Larson (che comunque non è da Oscar, a mio avviso) e Jacob Tremblay (che, come la Wallis a suo tempo, avrebbe meritato nomination e statuetta), un inedito rapporto madre-figlio molto intenso (sia nei suoi momenti più dolci, che nei suoi contrasti più duri – sia nelle forzature che la madre è costretta ad operare sulla natura del figlio, per rendergli dapprima più dolce la pillola e poi per usarlo come chiave per la fuga), e alcune riflessioni sulla visione umana del mondo – la stanza, secondo Jack, era enorme, “andava in tutte le direzioni e non finiva mai”. Ma è anche un film imperfetto, che tende a dare per scontate alcune cose e a compiere alcune piccole ingenuità con una leggerezza che quasi le nasconde, e che decide di affrontare una questione davvero minore (a mio avviso) tra tutte quelle che l’interessante situazione iniziale portava sul piatto.

“LOCANDIMETRO”

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Ci sono così tante cose qui fuori. E qualche volta fa paura. Ma va bene, perché siamo ancora solo io e te…

Revenant – Redivivo (2015)

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La leggenda di Hugh Glass – trapper realmente esistito tra fine ‘700 e inizio ‘800 – che sarebbe sopravvissuto per diversi giorni dopo essere stato abbandonato in condizioni critiche dai suoi compagni di spedizione: molla dell’impresa, il sentimento di vendetta covato nei confronti dell’arrivista Fitzgerald per avergli ucciso il figlio avuto da una squaw pellerossa.

Alejandro Gonzalez Inarritu: il ragazzo non mi è mai stato troppo simpatico. Amores Perros era un ottimo drammatico con una trovata interessante di fondo (l’incrocio dell’incidente, crocevia fisico e narrativo allo stesso tempo); Babel una versione aggiornata di Perros secondo ritmi e canoni più hollywoodiani; Birdman una notevole novità in termini di genere e tematiche, decisamente convincente nonostante un finale un po’ pesante. Eppure nessuno di questi film mi ha davvero mai convinto fino in fondo: c’è sempre stato un certo incedere “fighetto” (che fosse l’eccessiva pesantezza dei primi due, o l’inutilissimo piano-sequenza del terzo) che mi ha disturbato durante la visione.

Revenant-Redivivo è la terribile conferma dei miei sensi di ragno. Revenant-Redivivo è il film dove Inarritu si scorda completamente della vicenda, dei personaggi, delle tematiche, delle emozioni, e si concentra esclusivamente sul suo essere/sentirsi incredibilmente figo. E il risultato è una pellicola tanto povera quanto tronfia nell’esserlo.

Il film si apre su una sorta di prologo “onirico” dall’incedere lento, sulle parole di un monologo in dialetto pellerossa, su immagini che sembrano inserire l’uomo in un contesto naturale quasi panico. Ad esso fa seguito un’apertura nel segno dell’iperrealismo, con gli attori che entrano in scena da angolazioni poco ortodosse, di nuovo l’incedere lento e quasi “magico” della telecamera (in perfetta sincronia con l’avanzare incerto dei personaggi nell’acqua stagnante), e una schermaglia tra pionieri e pellerossa tanto sanguinolenta quanto poco epica (una demitizzazione totale, insomma). Allora uno pensa di trovarsi davanti a qualcosa che ci possa ricordare il Malick di The Tree Of LifeLa Sottile Linea Rossa; un film, insomma, che voglia farci riflettere su tematiche profonde ed universali tramite un uso potente delle immagini – invece di affidarsi alle parole.

Eppure il film va avanti, e le cose si fanno molto diverse. Allo spietato iperrealismo di apertura seguono una serie di scene che la mettono decisamente di più sulla “fantascienza-realistica”: non solo DiCaprio/Glass sopravvive ad uno scontro con un enorme grizzly che lo aggredisce 3 volte (quando i suoi amici sono morti per una semplice freccia indiana nella schiena), ma riesce pure a non morire nonostante le ferite riportate e l’assenza di medicinali/condizioni igieniche ed atmosferiche adeguate. Non avrei problemi con questo, se il film adottasse altre vie per spiegarmelo: se il tutto assumesse il peso leggendario di un Siegfried wagneriano – un eroe totalmente distaccato nello spazio e nel tempo del mito, nonostante la sua natura umana – allora la resistenza di Glass sarebbe ben accetta; ma vedere che il motivo per cui tale impresa epica si realizza è la morte di un figlio (verso il quale, peraltro, Glass non sembra avere un legame poi così forte – non basta qualche scenetta “onirica” con frasi fatte in dialetto pellerossa per creare un legame tra due personaggi) mi fa cadere la mandibola.

E andiamo ancora oltre, perchè gli orrori non sono finiti. L’epopea diviene – esagerando i difetti di un film come Amour di Haneke – puro compiacimento nell’osservare un’eccessiva sofferenza umana. Mi dispiace, ma personalmente non ci sto a considerare “vicenda” il trascinarsi arrancante di un semi-cadavere umano per più di mezz’ora (dove tutto ciò che ci è concesso è vederlo sbuffare, sbavare, rantolare, mentre il suo corpo resiste a quella che naturalmente sarebbe stata una disintegrazione totale): è inutile, è ridondante, e non è nè epico nè credibile. Non ho neppure apprezzato il trucco, perchè non mi ha regalato l’emozione di sentirmi un corpo debole in lotta con la natura: piuttosto mi ha lasciato con l’idea di una persona che avesse delle pustole virulente sulla faccia, e una qualche forma acuta di bronchite.

In tutto questo, Inarritu e Mark L. Smith ci regalano una serie di inutili scenette intermedie. Fitzegerald/Tom Hardy parla con il suo zerbino di come un pazzo avesse trovato Dio in uno scoiattolo (dialogo completamente inutile per approfondire i due personaggi, e completamente inutile anche per quanto riguarda il resto del film); DiCaprio fa l’ennesimo sogno in cui trova il figlio morto all’interno di una chiesa diroccata (simbolo di Fede forte/ritrovata? personalmente mi è più che altro sembrato un simbolo di radical-chiccaggine); Fitzgerald e il capitano Henry festeggiano il capodanno e si scambiano inutili frasi ad effetto dalle quali dovremmo capire che il buon Tom Hardy interpreta un profittatore senza scrupoli (come se non l’avessimo già capito dalla prima scena in cui è apparso).

Ciliegina sulla torta dell’operazione è la spicciolissima morale a favore dei poveri pellerossa nativi, che sono stati uccisi ed espropriati dalle loro terre dai cattivoni bianchi. Tralasciando che sequenze come quella in cui l’indiano cura Glass e poi viene ritrovato impiccato dai bianchi con la scritta “siamo tutti selvaggi” sono di un retorico che sfiora il vomitino, qual è il motivo per cui vuoi parlarmi di questo problema all’interno di quello che doveva essere il viaggio titanico-epico di un singolo contro la Natura e la cattiveria dell’Umanità? Non lo capisci che stai sottraendo tempo prezioso a rendere più viva e forte la caratterizzazione di Glass e Fitzgerald, solo per introdurre una tematica di stampo razzial-ecologica che risulterà a sua volta poco significativa (sempre per la mancanza di tempo)?

Ma chiaramente no, Inarritu tutto questo non lo sente e non lo percepisce. Evidentemente per essere un grande regista basta fare inquadrature lunghissime e casuali di montagne innevate, foreste incontaminate, larghe mandrie di bisonti, folkloristiche cavallerie pellerossa, in perfetto stile National Geographic (stesso difetto della parte “macrocosmica” di The Tree Of Life, ad esempio). Ed evidentemente fissare per ore la faccia paonazza di un DiCaprio rantolante e sputazzante saliva condensata è ciò che fa di un film un’epopea epica. Altrettanto chiaramente, questo non impedisce comunque un finalone all’americana in perfetto stile Io Vi Troverò: si parte con la frase ad effetto di DiCaprio (che posto in MOVIEQUOTE), si prosegue con il capitano Henry che si fa sorprendere  da Fitzgerald come un babbaleo (con i due che si scambiano un dialogone di quelli proprio alla Buono, Brutto E Cattivo) e il duello finale con imboscata+corpo a corpo sanguinolento tra Glass e l’obiettivo della sua vendetta. Tutto questo secondo un ritmo improvvisamente fattosi fulmineo -perchè va bene essere Malick ma fino ad un certo punto.

Ah, e chiaramente non è Glass ad uccidere Fitzgerald, no. Perchè “la vendetta è nelle mani di Dio”, e “Dio” a quanto pare sono i pellerossa che passavano alla cazzo di cane proprio da quelle parti – gli stessi indiani che risparmiano Glass perchè, tra le sue tante peripezie (visto che tanto a sopravvivere in condizioni critiche gli ci voleva lo stesso sforzo che fa mia madre a fare la spesa all’esselunga), ha salvato la figlia del capo catturata dai cattivoni francesi. Come a dire, insomma, che Glass sarebbe pure “maturato”, e invece di fare come nel passato (quando aveva ucciso l’ufficiale che gli aveva ucciso la moglie) avrebbe affidato Fitzgerald alla giustizia divina. Wow, che riflessione potente, che grande evoluzione del personaggio, che romanzo di formazione moderno!

In conclusione, Revenant – Redivivo è una ciofeca travestita da filmone, dove tutto ciò che si può salvare sono i paesaggi (che certo non sono un merito del regista, dello sceneggiatore, del cast o della troupe) e la sequenza di scontro con i pellerossa che però rimane completamente fine a sè stessa. Per il resto abbiamo il vuoto cosmico, coperto dal roboante annuncio di aver girato tutto con “luce naturale” – che a quanto pare fa figo e rende un film automaticamente un capolavoro (a cui si aggiunga che DiCaprio – vegeteriano – ha dovuto mangiare fegato crudo di bisonte: che prova attoriale, signora mia! Altro che The Wolf Of Wall Street, altro che The Departed, altro che Django Unchained!). Però, almeno su queste pagine, mi voglio prendere una personale “vendetta” contro “questo” Inarritu, e negargli anche solo lontanamente l’immeritata sufficienza.

“LOCANDIMETRO”

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Non ho paura della morte… sono già morto.

 

Birdman (2014)

Riggan Thompson è stato una celebrità, nel passato: il suo ruolo di protagonista nel blockbuster “Birdman” gli ha fruttato notorietà e soldi. Tuttavia Riggan ha sempre pensato di essere qualcosa di più, un vero attore, e sta per dimostrarlo tramite uno spettacolo teatrale da lui adattato, diretto ed interpretato. Ma la sua caotica vita privata, un nuovo attore nel cast, una severa ed importante critica teatrale e il suo passato “supereroico” saranno gli ostacoli che dovrà affrontare per portare in scena il suo agognato progetto artistico.

Birdman, opus #5 di Aleandro Gonzalez Inarritu, è il film del momento. Non è difficile vederne il perchè: la pellicola ha una regia complessa ma non “cervellotica” o intellettuale (che può quindi soddisfare sia il cinefilo voglioso di novità o di tecnica, sia lo spettatore “medio” che non vuole perdersi dietro ad operazioni artistiche troppo ambiziose); ha un cast di attori eccellenti ed estremamente mirati (Keaton e Norton mancavano da parecchio sulle scene “importanti”, il loro è un ritorno a la Mickey Rourke di The Wrestler – soprattutto per Keaton), ma che recitano spesso sui toni della commedia (apprezzabili quindi da una gran parte di pubblico); ha una storia “fantastica”, ma non irreale o complessa (non è un Memento, per intendersi); ha un finale aperto (Nolan con Inception ha fatto scuola: i finali irrisolti piacciono, eccome se piacciono!).

In passato, tali film mi creavano un hype tale che spesso si accompagnava a forti delusioni nel momento della visione. L’esempio più calzante è della Stagione appena passata, Lei di Spike Jonze (un grande assunto di partenza, tante sequenze memorabili, ma anche tanta bellezza buttata via in momenti mal strutturati/radical-chic). Francamente, pensavo che anche Birdman mi avrebbe regalato le stesse, amare sensazioni. Fortunatamente non è stato così (non del tutto, perlomeno), ma non per i motivi che mi aspettavo.

Partendo infatti dalla regia – l’elemento forse più incensato del film – sicuramente ci troviamo di fronte ad un lavoro certosino, interessante e valido: i vari piani-sequenza del film, mirabilmente montati da Douglas Crise e Stephen Mirrione per far sì che sembrassero un unico lunghissimo piano-sequenza, rendono tutto più “dinamico” e interessante. Ma non so quanto aggiungano al film in sè: non ci trovo un valore aggiunto come nei primi 30 minuti di Gravity, ci trovo un lavoro sicuramente valido e “diverso”, ma un po’ fine a sè stesso.

E, come in Lei, anche qui il finale mi ha lievemente irritato. Non capisco perchè ci sia bisogno di ammorbare la parte conclusiva del film con un’improvvisa virata di toni dal comico (o comunque dal “leggero”) al drammatico-pesante: si stava già perfettamente intuendo che il protagonista (e anche gli altri personaggi) avesse tanti, tanti problemi dietro e dentro di sè, che bisogno c’era di rendere tutto improvvisamente cupo e desolante? E non ho neanche apprezzato la scelta – che pur capisco – di isolare Keaton/Birdman nel finale del film, sostanzialmente dimenticandosi degli altri personaggi come Norton, la Watts e la Riseborough.

Perchè qui stanno i due principali motivi per cui ho apprezzato, e non poco, il film #5 di Inarritu. Il cast è stratosferico, e non solo per prove attoriali: gli stessi personaggi sono fantastici, ognuno strumento più o meno “principale” ma pur sempre presente di un’orchestrazione magnifica di dialoghi ed inquadrature (i piani-sequenza erano davvero funzionali, fino a che l’andamento del film era “corale” – nel puro senso del termine). Grandi e sottovalutati attori (tutti tranne la Stone sono star un po’ decadute o poco considerate nello Stardom Hollywoodiano) che interpretano fragili e imperfetti personaggi, all’interno di un perfetto vortice di umanità differenti ed emozionanti.

E – secondo aspetto che mi ha conquistato della pellicola – tali pensieri, riflessioni, azioni vengono fatte con i toni del più difficile e bistrattato tra i generi: la commedia. Che non è comico demenziale, non è risata stupida e buttata lì, ma è sorriso e leggerezza nell’affrontare ciò che di più serio ed importante la vita ci riserva. Come fanno i nostri attori/personaggi, persi nei loro sogni di prestigio (ben espressi dalla MOVIEQUOTE), nelle loro passioni carnali che spesso non hanno senso o lieto fine, nelle loro dipendenze (non solo da droghe), nelle loro frustrazioni e nei loro istinti, nei casini di tutti i giorni che talvolta ci fanno scordare i veri obiettivi, la vera felicità che vogliamo e magari equivochiamo con altro (come se confondessimo l’oro con l’ottone o la pirite: stesso bagliore, diverso valore).

Per cui, ben venga Birdman. Al di là di una regia davvero intrigante e di un finale aperto di cui si faceva volentieri a meno (tanto è piacione e poco “razionale”, diversamente dal resto del film che sapeva trovare la bellezza nella realtà di tutti i giorni, non nella fantasia – quindi “incongruente” con la precedente parte), Inarritu ha saputo costruire una commedia di straordinaria umanità, come non vedevo dai tempi di un Sideways (e parliamo di uno dei miei top20 dello scorso decennio, non so se rendo l’idea). E per sapersi ancora una volta sorprendere di quanto complicata e affascinante sia la persona Umana, niente è meglio di un film del genere.

“LOCANDIMETRO”

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La popolarità è la piccola cuginetta del prestigio!

La Teoria Del Tutto (2014)

La vera storia dello scienziato Stephen Hawking: dagli studi di Cosmologia all’università di Cambridge alla scoperta e degenerazione della malattia che ne ha segnato l’esistenza, passando per le sue teorie su origine e fine dell’universo e soprattutto per l’intensa e complicata storia d’amore con la prima moglie, Jane Wilde.

James Marsh, regista premio Oscar per il Miglior Documentario (Man On Wire, del 2008), si trova a dirigere il suo secondo lungometraggio in questa Stagione 2014/2015, avendo tra le mani un discreto pezzo da novanta: la biografia di Stephen Hawking. Dico pezzo da novanta per un semplice motivo: Hawking è un personaggio perfetto per un biopic con i controfiocchi. Perchè siamo onesti: chi di noi conosce davvero gli studi e la grandezza scientifica di costui? Io, personalmente, lo conosco più che altro per le ripetute comparsate in serie americane come I Simpson I Griffin, che principalmente si limitano a sfotterlo per le sue condizioni fisiche, minate dalla malattia.

Ma se Hawking è considerato un pezzo da novanta nel campo della Scienza, evidentemente questo non ha a che fare solo con l’indubbiamente buffa “voce” robotica con cui si esprime. Ecco quindi che, oltre a farci conoscere meglio l’uomo-Hawking, Marsh e lo sceneggiatore Anthony McCarten avevano anche a disposizione una storia “professionale” inedita per i più, capace di incuriosire e far scoprire nuove “idee” agli spettatori più curiosi e desiderosi di ampliare la propria cultura generale.

Quello che invece il duo ha realizzato è – sorprendentemente –  qualcosa di molto diverso, quasi una versione antitetica del già recensito The Imitation Game (con cui il parallelo entra, per forza di “genere”, in gioco). Là dove nel film di Tyldum il professor Turing veniva ben analizzato a livello di importanza storica, rimanendo però molto più in superficie per quanto concerne la sfera privata, qua l’aspetto pubblico del personaggio narrato è completamente oscurato dalla sua vita personale e dalle relazioni affettive. Là dove in The Imitation Game il personaggio di Keira Knightley rimane nell’ombra, qua Felicity Jones emerge in tutta la sua complessità e femminilità – forse risultando la vera protagonista, addirittura più dello stesso Hawking!

È una scelta che da un lato apprezzo: farci vedere la “passione” di Jane (in tutti i sensi: passione amorosa e passione quasi Cristologica nel sopportare fisicamente e moralmente un tale marito) è una mossa che riesce a coinvolgere sentimentalmente lo spettatore – anche perchè la storia è davvero ben narrata, mai noiosa per quanto “classica”. Da un altro punto di vista, tuttavia, sono uscito dal cinema pensando a Stephen Hawking come un buffo scienziato con la voce robotica: la mia sete di “cultura” sulla sua opera non è stata minimamente soddisfatta.

Alla fin dei conti, dunque, La Teoria Del Tutto è un buon biopic molto standard, perfettamente congegnato per cercare di arraffare più Oscar possibili (è imminente la premiazione, dove Redmanye/Hawking è favoritissimo per la statuetta come Miglior Attore Protagonista – dopo aver già ottenuto il Globe Drammatico): rispetto al suo diretto concorrente dell’anno, il film di Marsh è più incentrato sulla vita privata che non sull’importanza storico-scientifica del suo personaggio principale. Non trovo superiore nessuna delle due scelte, ritengo che un mix sapiente delle due componenti sarebbe stato l’ideale: per questo assegno ad entrambi lo stesso voto, buono ma non certo entusiasmante.

“LOCANDIMETRO”

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Finché c’è vita, c’è speranza.