La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water (2017)


Siamo negli Stati Uniti, in piena guerra fredda. Elisa, una donna di mezza età affetta da mutismo, vive in un angusto appartamento che ha arredato come una piccolo regno magico: ha un amico nel vicino di casa, un pittore gay con il quale condivide la passione per il Cinema muto. Elisa, inoltre, lavora come addetta alle pulizie all’interno di un centro di ricerca governativo: un giorno, nel laboratorio, fa la sua comparsa un essere incredibile, metà uomo e metà pesce, che attira subito l’attenzione della donna…

Guillermo Del Toro (soprannominato affettuosamente “CiccioMessico” dal sottoscritto) è sempre stato un favorito, qui in casa Cinemalato: nonostante lo sciatto Crimson Peak di qualche Stagione fa, mi è impossibile non volere bene (artisticamente parlando) all’ideatore de Il Labirinto Del Fauno, nonché colui che stava dietro alla maggior parte del primo Lo Hobbit (e che, se fosse stato libero di procedere, avrebbe reso la saga un altro cult del genere).

Quando, dunque, ho saputo che il suo ultimo lavoro aveva vinto il Leone D’Oro a Venezia, ho subito pensato che CiccioMessico avesse nuovamente tirato fuori il coniglio dal polveroso cilindro: quando, invece, il ragazzo si è portato a casa il Golden Globe per la Miglior Regia e ha ricevuto tredici nomination agli Oscar, ho iniziato a temere di trovarmi di fronte ad un prodotto corretto, ma “americano”.

Fortunatamente non è questo il caso, perlomeno non con la temuta gravità. La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è una favola dall’impianto narrativo classico, dai tocchi registici talvolta lievemente derivativi da certo Cinema fantastico-surreale (Il Favoloso Mondo Di Amélie su tutti), ma con una sua forte identità DelToriana che mette in secondo piano gli echi stilistico-strutturali.

La realtà insudiciata e l’evasione monda si intrecciano costantemente, come in un valzer: alla polvere e alla vetustà dell’appartamento di Elisa, si contrappongono le surreali forme curvilinee del suo arredamento; alla leggerezza romantica della donna nel suo sognare un musicale tip-tap si contrappongono le sue deprimenti e meccaniche masturbazioni; alla delicatezza della storia d’amore, si contrappongono la violenza dell’omofobia e del razzismo, nonché il rosso carminio del sangue (che inonda lo schermo più volte). L’antinomia più forte, però, è quella tra parola e gesto: all’interno del film, le parole sono costantemente menzognere, deboli o violente, e creano ostacoli che complicano la vicenda; i gesti, al contrario, sono sinceri e risolutivi, capaci di generare amore o di salvare vite.

Il silenzioso sentimento che si instaura tra i due muti protagonisti della pellicola è costantemente segnato dalla presenza dell’acqua, fin da quella nella quale bollono le uova sode, primo motore dell’intera vicenda. Ed è un progressivo detergersi dell’acqua e nell’acqua: dallo squallore iniziale di una vasca sporca (di sangue e di solitudine), si passa all’inondazione di un’intera stanza che diventa pioggia d’amore per le persone circostanti, fino alla metamorfosi acquatica del lieto fine (dove le ferite dell’esclusione terrestre diventano branchia e lasciapassare per una nuova inclusione nell’acqua).

Al netto di alcuni momenti meno felici (la scena pre-finale del ballo in bianco e nero, un po’ leziosa e telefonata – anche se, rispetto ad un La La Land, molto meno tirata per le lunghe e dunque più facilmente digeribile; il finale, in generale un po’ affrettato nella sua rocambolesca risoluzione), la coerenza stilistico-tematica di La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water, nonché il suo cast eccellente (oltre ai soliti ottimi Shannon e Doug, si segnalano il delicato pittore di Richard Jenkins e la strepitosa Elisa di Sally Hawkins – di una delicatezza e risolutezza commoventi), ne fanno un titolo imperdibile per la Stagione in corso, un gioiellino di fiaba che riesce a far sognare ed emozionare senza zuccheri aggiunti né forzature: e riuscire, oggi, a concepire una favola (uno dei più antichi generi narrativi) che non sia piatta o scontata, non è impresa affatto facile.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Quando mi guarda, lui non vede quello che mi manca o quanto io sia incompleta.

Revenant – Redivivo (2015)

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La leggenda di Hugh Glass – trapper realmente esistito tra fine ‘700 e inizio ‘800 – che sarebbe sopravvissuto per diversi giorni dopo essere stato abbandonato in condizioni critiche dai suoi compagni di spedizione: molla dell’impresa, il sentimento di vendetta covato nei confronti dell’arrivista Fitzgerald per avergli ucciso il figlio avuto da una squaw pellerossa.

Alejandro Gonzalez Inarritu: il ragazzo non mi è mai stato troppo simpatico. Amores Perros era un ottimo drammatico con una trovata interessante di fondo (l’incrocio dell’incidente, crocevia fisico e narrativo allo stesso tempo); Babel una versione aggiornata di Perros secondo ritmi e canoni più hollywoodiani; Birdman una notevole novità in termini di genere e tematiche, decisamente convincente nonostante un finale un po’ pesante. Eppure nessuno di questi film mi ha davvero mai convinto fino in fondo: c’è sempre stato un certo incedere “fighetto” (che fosse l’eccessiva pesantezza dei primi due, o l’inutilissimo piano-sequenza del terzo) che mi ha disturbato durante la visione.

Revenant-Redivivo è la terribile conferma dei miei sensi di ragno. Revenant-Redivivo è il film dove Inarritu si scorda completamente della vicenda, dei personaggi, delle tematiche, delle emozioni, e si concentra esclusivamente sul suo essere/sentirsi incredibilmente figo. E il risultato è una pellicola tanto povera quanto tronfia nell’esserlo.

Il film si apre su una sorta di prologo “onirico” dall’incedere lento, sulle parole di un monologo in dialetto pellerossa, su immagini che sembrano inserire l’uomo in un contesto naturale quasi panico. Ad esso fa seguito un’apertura nel segno dell’iperrealismo, con gli attori che entrano in scena da angolazioni poco ortodosse, di nuovo l’incedere lento e quasi “magico” della telecamera (in perfetta sincronia con l’avanzare incerto dei personaggi nell’acqua stagnante), e una schermaglia tra pionieri e pellerossa tanto sanguinolenta quanto poco epica (una demitizzazione totale, insomma). Allora uno pensa di trovarsi davanti a qualcosa che ci possa ricordare il Malick di The Tree Of LifeLa Sottile Linea Rossa; un film, insomma, che voglia farci riflettere su tematiche profonde ed universali tramite un uso potente delle immagini – invece di affidarsi alle parole.

Eppure il film va avanti, e le cose si fanno molto diverse. Allo spietato iperrealismo di apertura seguono una serie di scene che la mettono decisamente di più sulla “fantascienza-realistica”: non solo DiCaprio/Glass sopravvive ad uno scontro con un enorme grizzly che lo aggredisce 3 volte (quando i suoi amici sono morti per una semplice freccia indiana nella schiena), ma riesce pure a non morire nonostante le ferite riportate e l’assenza di medicinali/condizioni igieniche ed atmosferiche adeguate. Non avrei problemi con questo, se il film adottasse altre vie per spiegarmelo: se il tutto assumesse il peso leggendario di un Siegfried wagneriano – un eroe totalmente distaccato nello spazio e nel tempo del mito, nonostante la sua natura umana – allora la resistenza di Glass sarebbe ben accetta; ma vedere che il motivo per cui tale impresa epica si realizza è la morte di un figlio (verso il quale, peraltro, Glass non sembra avere un legame poi così forte – non basta qualche scenetta “onirica” con frasi fatte in dialetto pellerossa per creare un legame tra due personaggi) mi fa cadere la mandibola.

E andiamo ancora oltre, perchè gli orrori non sono finiti. L’epopea diviene – esagerando i difetti di un film come Amour di Haneke – puro compiacimento nell’osservare un’eccessiva sofferenza umana. Mi dispiace, ma personalmente non ci sto a considerare “vicenda” il trascinarsi arrancante di un semi-cadavere umano per più di mezz’ora (dove tutto ciò che ci è concesso è vederlo sbuffare, sbavare, rantolare, mentre il suo corpo resiste a quella che naturalmente sarebbe stata una disintegrazione totale): è inutile, è ridondante, e non è nè epico nè credibile. Non ho neppure apprezzato il trucco, perchè non mi ha regalato l’emozione di sentirmi un corpo debole in lotta con la natura: piuttosto mi ha lasciato con l’idea di una persona che avesse delle pustole virulente sulla faccia, e una qualche forma acuta di bronchite.

In tutto questo, Inarritu e Mark L. Smith ci regalano una serie di inutili scenette intermedie. Fitzegerald/Tom Hardy parla con il suo zerbino di come un pazzo avesse trovato Dio in uno scoiattolo (dialogo completamente inutile per approfondire i due personaggi, e completamente inutile anche per quanto riguarda il resto del film); DiCaprio fa l’ennesimo sogno in cui trova il figlio morto all’interno di una chiesa diroccata (simbolo di Fede forte/ritrovata? personalmente mi è più che altro sembrato un simbolo di radical-chiccaggine); Fitzgerald e il capitano Henry festeggiano il capodanno e si scambiano inutili frasi ad effetto dalle quali dovremmo capire che il buon Tom Hardy interpreta un profittatore senza scrupoli (come se non l’avessimo già capito dalla prima scena in cui è apparso).

Ciliegina sulla torta dell’operazione è la spicciolissima morale a favore dei poveri pellerossa nativi, che sono stati uccisi ed espropriati dalle loro terre dai cattivoni bianchi. Tralasciando che sequenze come quella in cui l’indiano cura Glass e poi viene ritrovato impiccato dai bianchi con la scritta “siamo tutti selvaggi” sono di un retorico che sfiora il vomitino, qual è il motivo per cui vuoi parlarmi di questo problema all’interno di quello che doveva essere il viaggio titanico-epico di un singolo contro la Natura e la cattiveria dell’Umanità? Non lo capisci che stai sottraendo tempo prezioso a rendere più viva e forte la caratterizzazione di Glass e Fitzgerald, solo per introdurre una tematica di stampo razzial-ecologica che risulterà a sua volta poco significativa (sempre per la mancanza di tempo)?

Ma chiaramente no, Inarritu tutto questo non lo sente e non lo percepisce. Evidentemente per essere un grande regista basta fare inquadrature lunghissime e casuali di montagne innevate, foreste incontaminate, larghe mandrie di bisonti, folkloristiche cavallerie pellerossa, in perfetto stile National Geographic (stesso difetto della parte “macrocosmica” di The Tree Of Life, ad esempio). Ed evidentemente fissare per ore la faccia paonazza di un DiCaprio rantolante e sputazzante saliva condensata è ciò che fa di un film un’epopea epica. Altrettanto chiaramente, questo non impedisce comunque un finalone all’americana in perfetto stile Io Vi Troverò: si parte con la frase ad effetto di DiCaprio (che posto in MOVIEQUOTE), si prosegue con il capitano Henry che si fa sorprendere  da Fitzgerald come un babbaleo (con i due che si scambiano un dialogone di quelli proprio alla Buono, Brutto E Cattivo) e il duello finale con imboscata+corpo a corpo sanguinolento tra Glass e l’obiettivo della sua vendetta. Tutto questo secondo un ritmo improvvisamente fattosi fulmineo -perchè va bene essere Malick ma fino ad un certo punto.

Ah, e chiaramente non è Glass ad uccidere Fitzgerald, no. Perchè “la vendetta è nelle mani di Dio”, e “Dio” a quanto pare sono i pellerossa che passavano alla cazzo di cane proprio da quelle parti – gli stessi indiani che risparmiano Glass perchè, tra le sue tante peripezie (visto che tanto a sopravvivere in condizioni critiche gli ci voleva lo stesso sforzo che fa mia madre a fare la spesa all’esselunga), ha salvato la figlia del capo catturata dai cattivoni francesi. Come a dire, insomma, che Glass sarebbe pure “maturato”, e invece di fare come nel passato (quando aveva ucciso l’ufficiale che gli aveva ucciso la moglie) avrebbe affidato Fitzgerald alla giustizia divina. Wow, che riflessione potente, che grande evoluzione del personaggio, che romanzo di formazione moderno!

In conclusione, Revenant – Redivivo è una ciofeca travestita da filmone, dove tutto ciò che si può salvare sono i paesaggi (che certo non sono un merito del regista, dello sceneggiatore, del cast o della troupe) e la sequenza di scontro con i pellerossa che però rimane completamente fine a sè stessa. Per il resto abbiamo il vuoto cosmico, coperto dal roboante annuncio di aver girato tutto con “luce naturale” – che a quanto pare fa figo e rende un film automaticamente un capolavoro (a cui si aggiunga che DiCaprio – vegeteriano – ha dovuto mangiare fegato crudo di bisonte: che prova attoriale, signora mia! Altro che The Wolf Of Wall Street, altro che The Departed, altro che Django Unchained!). Però, almeno su queste pagine, mi voglio prendere una personale “vendetta” contro “questo” Inarritu, e negargli anche solo lontanamente l’immeritata sufficienza.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Non ho paura della morte… sono già morto.

 

Boyhood (2014)

Ci sono film, nella Storia del Cinema, che non sono “semplici” capolavori, sono qualcosa di più: sono film chiave, pietre miliari, opere rivoluzionarie. Si pensi all’ormai celeberrima Corazzata Potemkin e al suo uso enfatico del montaggio, o all’assoluto 2001: Odissea Nello Spazio – per la tematica, e per l’artisticità con cui tale tematica venne affrontata. Boyhood, ad una prima occhiata, sembrerebbe rientrare in questo ristrettissimo canone: l’idea alla base – riprese durate 12 anni, per mostrare effettivamente la crescita dei vari attori/personaggi, riducendo praticamente a zero il confine tra Cinema e Realtà – è sicuramente innovativa e potente.

Ma di cosa ci parla, esattamente, l’ultima fatica del regista Richard Linklater (autore, tra gli altri, di School Of Rock e della trilogia sentimentale Prima Dell’AlbaPrima Del TramontoBefore Midnight)? Semplice: di vita. Il regista ci porta nell’esistenza del suo protagonista con vibrante realismo, non dimentico tuttavia di quel minimo di drammatizzazione necessaria ad un coinvolgimento emotivo dello spettatore.

Qui c’è lo snodo fondamentale per la mia recensione, e la mia opinione al contempo: Boyhood non è assolutamente un capolavoro, né tanto meno un film chiave per la Storia della Settima Arte. Il riprendere per 12 anni gli stessi attori, e mostrare direttamente la loro crescita fisica (infatti), non porta assolutamente alcun pregio ulteriore alla pellicola: se invece di Ethan Hawke, di Ellar Coltrane, di Lorelei Linklater e di Patricia Arquette (che sta inspiegabilmente sbancando festival e manifestazioni per una prova corretta, ma non certo da Oscar o simili) ci fossero stati altri 4 attori per impersonare la controparte adulta dei 4 personaggi, il film non sarebbe stato niente di più e niente di meno di quanto sia.

Boyhood è tuttavia un film che fa riflettere, e molto: fa riflettere sulla vita, sulla vita in generale. E non come 2001, che ci portava ad un  piano superiore, né come The Tree Of Life che cercava di coniugare quotidianità ed assoluto. Qua si parla di ciò che sembra da sempre interessare molto a Linklater: l’uomo nella sua semplice e meravigliosa (per questo) vita. Che in 12 anni non regala sempre highlights, e che dunque non necessita di essere costantemente contemplata: ma che riesce, in quei momenti di snodo, ad essere straordinariamente e semplicemente unica.

In questo senso, Boyhood è un opera notevole: è forse il primo film della storia senza momenti topici, ma che di questa assenza di momenti topici fa la sua poesia (anche un film apparentemente “atopico” come Somewehere della Coppola è in realtà più legato ad highlights). Perché la sua è la poesia della vita, che raramente ho visto rappresentata in maniera tanto fedele e commovente. E che non necessita di un momento clou, di una vicenda bizzarra o ben congegnata, né di una MOVIEQUOTE per stupirci: sarà il suo naturale, imprevedibile copione a farlo, giorno dopo giorno, passo dopo passo.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Classifica Stagionale 2013/2014: TOP20 – Parte Bassa (20-11)

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Terza parte della Classifica Stagionale 2013/2014: si entra finalmente in TOP20! Ecco qui le prime dieci posizioni dei magnifici 20 (qui quelle della Stagione passata): non saranno riusciti ad entrare tra i primi 10, ma il risultato conseguito è già degno del mio personale plauso. As usual, cliccando sul nome della pellicola potrete leggere la recensione relativa, quando disponibile.

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20) Dallas Buyers Club, di Jean-Marc Vallée (2013)

La pellicola di Valléé avrebbe anche tanti bei meriti, in primis quello di non risultare troppo stucchevole o melensa nonostante il tema trattato (AIDS): e le prove notevolissime di Matthew McConaughey e Jared Leto (premio Oscar per entrambi) donano ulteriore lustro al tutto. Ma trovo che, eccettuati i due protagonisti, il film abbia una massa informe di comprimari sfruttati malino, e un finale troppo lungo – e non necessario. Aggiungeteci che, comunque sia, rimane “solo” un film sull’AIDS (tematica un po’ banalotta) , ed ecco spiegata la posizione relativamente bassa.

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19) Il Capitale Umano, di Paolo Virzì (2013)

Al contrario di Dallas Buyers Club, il nuovo opus di Virzì ha un ottimo equilibrio: durata perfetta, idem per la gestione del cast (nessuno degli attori/personaggi sovrasta nessuno, e tutti offrono delle prove ottimamente inquadrate per il ruolo che svolgono nella vicenda). Ma quello che sorregge il film di Valléé, un tema ed un messaggio da diffondere, qui mancano del tutto – o comunque non li ho visti durante la proiezione. Perfetto meccanismo, ma un po’ fine a sè stesso.

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18) La Vita Di Adele, di Abdellatif Kechice (2013)

Se, e dico se, La Vita Di Adele (Palma D’Oro allo scorso Festival di Cannes) si fosse rivelata al livello della sua prima ora di vicenda, sicuramente non si troverebbe in questa sezione, ma almeno nella Top10: grande intensità dello straordinario duo di attrici femminili, vicenda realistica ma non pesante, coinvolgimento emotivo sicuro e sincero. Le scene di sesso, poi, sono bel lungi dall’essere scandalose, quanto estremamente potenti. Ma il film dura 3 ore, non un’ora sola: e nella restante parte, La Vita Di Adele è un piccolo polpettone indigesto su una storia come un’altra, che va verso l’inevitabile fine.

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17) Blue Jasmine, di Woody Allen (2013)

La più che bizzarra doppietta di due Stagioni fa (con l’ottimo Midnight In Paris che chiuse alla #4, e con il pessimo To Rome With Love, finito direttamente nei meandri del Fondo Del Barile), lascia questa volta il posto ad una pellicola sostanzialmente antica, ma efficace. Woody ricicla personaggi e schemi che l’hanno reso grande, e come (quasi) sempre lo fa in maniera coinvolgente – con l’aiuto di due ottime attrici, Sally Hawkins e Cate Blanchett (che si è aggiudicata il secondo Oscar in carriera). Nulla di nuovo, ma comunque gradito.

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16) Lei, di Spike Jonze (2013)

Il “film-hype” dell’anno. Mi si erano create aspettative immense su Lei, accresciute dalla presenza di Joaquin Phoenix e dall’Oscar alla Sceneggiatura Originale per Spike Jonze. E Lei ha tantissimi bei momenti (la prima notte di sesso rimane memorabile), così come una fortissima idea alla base: ma Lei ha anche tanti difettucci e momenti radical-chic (nella peggiore accezione del termine), accresciuti da un finale inaccettabile. Alla fine un buon film, che poteva essere tanto di più: peccato.

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15) La Memoria Degli Ultimi, di Samuele Rossi (2014)

La Memoria Degli Ultimi è un documentario sul movimento partigiano Italiano durante il secondo conflitto mondiale. Fortunatamente per chi, come me, mal tollera la reiterazione di tematiche e argomenti già toccati mille volte, il regista Samuele Rossi è riuscito a fare del suo documentario un lavoro ad alto tasso emozionale (nel senso più positivo del termine): nonostante la differenza ormai notevole d’epoca, è genuinamente semplicissimo trovarsi coinvolti nelle vite dei protagonisti, grazie ad una regia che ne sottolinea l’umanità, e rimuove la patina di “personaggio storico” – che poteva annoiare.

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14) Bling Ring, di Sofia Coppola (2013)

Tra i silenzi e le lente riprese che ne hanno (quasi) sempre caratterizzato l’opera, Sofia Coppola torna al suo filone “bimbette” – contaminato in realtà con una certa vena del filone “vuoto esistenziale”, quello di Lost In Translation Somewhere. Lo fa per raccontarci una storia simile a quella di Spring Breakers di una Stagione fa, ma con maggior realismo – quasi al limite dell’asettico – rispetto alla pellicola di Korine (che “annoiava” meno ma esagerava molto di più la situazione). Un altro buon risultato della figlia di Francis Ford, che si conferma una delle preferite di casa Cinemalato (ma i succitati LIT Somewhere sono ben lontani).

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13) Gravity, di Alfonso Cuaròn (2013)

Come per La Vita Di AdeleGravity parte benissimo e conclude malino. Ma la differenza è abbastanza evidente, in quanto i primi 30 minuti della pellicola di Cuaròn possiedono una bellezza visiva struggente, propria solo dell’opera d’Arte: e per quanto vanificata da una seconda parte Americana che più Americana non si può (ma comunque coinvolgente, bisogna ammettere), quella mezz’ora non può essere in alcun modo messa in secondo piano. Oscar alla regia meritatissimo.

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12) Philomena, di Stephen Frears (2013)

Contrariamente a Lei, la nuova pellicola di Stephen Frears mi tirava meno di un cavolo a merenda: sulla carta c’erano tutti gli ingredienti per un film noiosetto, al servizio dell’attrice protagonista, con venature di melenso e banalità a random. Invece Philomena non è solo un film ottimamente recitato (Judi Dench, ma anche Steve Coogan sotto le righe), ma anche sapientemente scritto e appena accompagnato dall’invisibile regia di Frears. Un’autentica sorpresa, per ricordarmi (e ricordarci) che non sempre la prima impressione è ciò che conta.

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11) Nymphomaniac – Volume II, di Lars Von Trier (2013)

La mia melodrammatica storia con Lars Von Trier e il suo Cinema ha trovato in questa Stagione un momento idilliaco. Nymphomaniac non è solo un film ad altissimo tasso artistico (as usual), ma possiede anche una solidità di fondo che mi ha permesso di apprezzare maggiormente l’intera Opera (divisa in due parti) – o forse sto solo maturando come gusto, chissà. Comunque piazzo leggermente più basso il volume II, “colpevole” di fare retromarcia sulla metafora cristologica nel capitolo finale – sempre che abbia capito a pieno il messaggio del danese. Ma ripeto, The times they are a-changin’.

Classifica Stagionale 2012/2013: TOP20 – Parte Alta (10-4)

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Ci avviciniamo al clou del Classificone, ma prima di giungere ai podisti manca ancora da esplorare la Parte Alta, ovvero i primi 7 della TOP10 del Cinemalato (qui le posizione della scorsa Stagione): pur non essendo andati a medaglia, certo non possono lamentarsi della loro posizione! Come sempre cliccando sul titolo del film troverete la mia personale recensione, quando disponibile.

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10) La Migliore Offerta, di Giuseppe Tornatore (2013)

Dall’Italia con furore, Tornatore torna (…) sui maxi-schermi con un thriller/romance dalle atmosfere (e ambientazioni) europee. Gran ritmo e ottima costruzione della vicenda (e dei personaggi), in grado di appassionare lo spettatore e anche di farlo (un minimo) riflettere sul valore dell’arte, ma anche sulla sua (a volte) incredibile ambiguità. Rush strepitoso, il resto del cast non è da meno: se non fosse che si perde un po’ nel finale, troppo lungo/telefonato, avrebbe potuto sperare in una piazza più alta.

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9) Spring Breakers – Una Vacanza Da Sballo, di Harmony Korine (2012)

Una pellicola di un vuoto allucinante, perfetta per parlare del vuoto adolescenziale (e non) di un’intera generazione. Sicuramente “povera” a livello registico, e un po’ ripetitiva, ma Korine riesce a farsi forte di questa povertà (in tutti i sensi) di soggetto e di questo loop narrativo, usandoli come arma per aumentare la sensazione di noia e vuoto nello spettatore. Da vedere, soprattutto per mandare in culo i distributori italiani de ‘sto cazzo, che con il sottotitolo (orripilante e fuorviante) di Una Vacanza Da Sballo lo volevano far passare per una delle solite Commedie adolescenziali all’Americana.

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8) Django Unchained, di Quentin Tarantino (2012)

Tarantino in un folle e ironico omaggio al Western selvaggio degli Spaghetti-Western italiani (Django è film del 1966, diretto da Sergio Corbucci, tra l’altro con Franco Nero – che qui appare in un breve cameo – come protagonista). Tanto sangue, tante risate (epocale la cavalcata del Ku-Klux-Klan, interrotta sul più bello per farne vedere l’esilarante antefatto), un po’ troppo eccesso (tipico del buon Quentin, ma che non ho mai apprezzato quando gli sfugge di mano) nel finale: fino a quel momento, Django Unchained mi aveva ricordato la grazia dei Coen (irraggiungibile), ma che Tarantino sarebbe senza una “Tarantinata”?

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7) Pietà, di Kim Ki-Duk (2012)

Ed ecco qua l’unico film della Stagione a non aver una propria recensione. E me ne vergogno profondamente, perché l’ultima fatica di Kim è (pur non al livello dei meravigliosi Primavera, Estate, Autunno, Inverno… E Ancora Primavera Ferro 3 – La Casa Vuota) una struggente lirica sulla morte, e sull’Amore di una madre per il figlio (gli straordinari Cho Min-Soo e Lee Jung-Jin). Inizialmente la sua poetica Cinematografica, fatta di “sovrumani silenzi” di Leopardiana memoria, non mi aveva convinto troppo, visto l’estremo e crudo realismo in cui si ambienta la vicenda, ma alla lunga il valore artistico di un tale Autore emerge sempre: un altro grande centro della Mostra Veneziana, che ormai da 3 anni assegna in maniera esemplare il suo maggior riconoscimento (Leone D’Oro).

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6) Il Grande Gatsby, di Baz Luhrmann (2013)

Quest’ultimo lavoro del buon Luhrmann è stato stroncato da molti, cosa che ad oggi non capisco: sembra a me, difatti, che la vicenda narrata da Fitzgerald sia perfetta per essere portata sugli schermi con i modi e lo stile di Baz, così luccicanti e plasticosi (ai limiti del trash), esattamente come lo è la società descritta nel cartaceo. Con una grande colonna sonora contemporanea, scenografie immensamente kitch, e un Attore (Di Caprio) che in questa Stagione ha tirato fuori una doppietta clamorosa (oltre a questo, anche Django Unchained), Il Grande Gastby entra di diritto nella mia personale TOP10.

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5) Moonrise Kingdom – Una Fuga D’Amore, di Wes Anderson (2012)

Prendete la solita favola intellettual-radical-chic-iper-colorata di Wes Anderson, un cast stellare (Bruce Willis, Frances McDormand, Edward Norton, Tilda Swinton…) con i suoi attori feticci (Bill Murray), due protagonisti strepitosamente accattivanti. Ci siete? Bene, ora aggiungete Cuore e Genuinità, un’ironia meravigliosamente paradossale (la recita “L’arca di Noè” annullata per diluvio: genio allo stato puro!), e una delle scene più belle (la più bella?) dell’anno, e otterrete un signor film: da servire in una giornata uggiosa, per scacciare via tutte le preoccupazioni (questo commento mi sa molto di Melevisione…).

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4) La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino (2013)

Dopo  che la scorsa Stagione il suo This Must Be The Place era finito ad ingrossare le fila del Fondo Del Barile, tanto deludente da diventare addirittura il simbolo della “Delusione D’Autore” nel mio personale “Locandimetro”, ecco che Paolo si riscatta alla grandissima, firmando uno dei suoi migliori film (ad oggi, solo Le Conseguenze Dell’Amore si trova sopra, per quel che mi riguarda). Ispirato in maniera palese alla Felliniana Dolce Vita, ne reinterpreta la vicenda e le cifre stilistiche con grande intensità e senso dell’Arte, avvalendosi inoltre di un enorme Attore (Toni Servillo, attualmente il più bravo tra gli Italiani, peraltro presente in altri due film nella Stagione in esame) da cui Sorrentino riesce sempre a tirare fuori il meglio. Fosse stato un pelino più corto, soprattutto nella parte finale, sarebbe sicuramente andato a medaglia: ma la priorità era ritrovare subito questo grande Regista Italiano, e l’obiettivo è stato pienamente conseguito.