Tre Manifesti A Ebbing, Missouri (2017)

A Ebbing, nel Missouri, una donna ha perso la figlia adolescente in un misterioso ed efferatissimo omicidio (la ragazza è stata anche stuprata): decide dunque di affittare tre cartelli lungo una vecchia strada, per affiggere manifesti nei quali chiede spiegazioni alla polizia, sollecitandola a fare il proprio dovere. Il fatto scatenerà un’incredibile sequela di eventi.

Solitamente un film dovrebbe avere una tematica forte da raccontare, presentarci quantomeno una sua specifica morale. Tre Manifesti A Ebbing, Missouri, invece, vive più che altro di atmosfere, esattamente come un precedente del regista-sceneggiatore Martin McDonagh, In Bruges – La Coscienza Dell’Assassino (2008): lì a farla da padrona era la città di Bruges, immortalata in una macchia di umido grigio, che impregnava di malinconia esistenziale i suoi sporchi protagonisti (due assassini sicari).

Anche stavolta, seppure si tratti di un posto completamente diverso, McDonagh è riuscito a fare dei suoi personaggi un prolungamento ideale dell’ambiente in cui si muovono: tanto rustica e spoglia è l’area di Ebbing, quanto ruvidi sono i lineamenti e le movenze di questi suoi nuovi protagonisti. E, nuovamente, il regista-sceneggiatore si va ad occupare di persone la cui etica è quantomeno discutibile e alterna, riuscendo però nell’intento di farci empatizzare quanto basta per non smettere di credere alle loro vite.

Perché Mildred (una caustica Frances McDormand) non è solo una donna diretta e decisa che ha subito un terribile trauma: è anche una potenziale criminale, una che non si fa troppi problemi a lanciare molotov sulla stazione di polizia per vendicare un anonimo torto subito. Perché Jason Dixon (un bolso Sam Rockwell, echeggiante il Christian Bale di The Fighter) non è solo un bastardo ubriacone mezzo ritardato dalla personalità omofoba e razzista, ma anche un bambinone spaventato dalla vita capace di svoltare e mostrare finalmente un minimo di quella maturità che (probabilmente) è soffocata dalla convivenza con la madre. Perché lo sceriffo Willoughby (un immenso ed intenso Woody Harrelson, probabilmente il migliore dell’intero cast) non è solo un pacato uomo di provincia dalle maniera semplici e rozze, ma anche un lucidissimo e surreale poeta, capace di porre fine alla propria vita con una brutale delicatezza che ti fa commuovere anche il pancreas.

In questa galleria di personaggi quasi “bipolari”, è perfino giusto (azzardo) che ci siano scene più deboli, più stupide: è il caso dell’assurdo passaggio netto tra la delicatezza di una Chiquitita degli ABBA e la notizia devastante della morte di Willoughby, così come l’inutilità delle scene in cui sono presenti i personaggi di Lucas Hedges (il figlio di Mildred, assolutamente superfluo sotto ogni punto di vista) e di John Hawkes (l’ex-marito di Mildred, se possibile ancora meno utile del figlio). È giusto, perché l’ambiente di Ebbing è compresso tra leggerezza malinconica, aspra violenza e sardonica ironia, ma è soprattutto un luogo assolutamente marginale, dove gli stessi telegiornali sembrano avere risonanza solo all’interno dei microscopici confini cittadini.

Ma forse Tre Manifesti A Ebbing, Missouri è soprattutto un film sulla rabbia, sulla necessità di controllare le proprie iraconde pulsioni per non ritrovarsi, improvvisamente, dalla parte del torto: la frase della giovane compagna di John Hawkes (che posto in MOVIEQUOTE) sembra molto esplicita al riguardo. E allora ecco che torna, una volta di più, l’ambiente di Ebbing a chiudere su una nota ambigua il finale. Mildred e Dixon, infatti, scoprono la residenza di uno stupratore e partono per andare ad ucciderlo, ma durante il tragitto sembrano avere un ripensamento: tuttavia non interrompono la propria marcia, ma proseguono con una strana felicità chiosando “ci penseremo strada facendo”. Perché alla fine è nella loro natura, nella natura di Ebbing, essere carichi di rabbia e, forse, nessuna maturazione sarà mai sufficiente a cambiare le cose.

“LOCANDIMETRO”

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La rabbia genera solamente altra rabbia.

Café Society (2016)

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Bobby Dorfman, giovane ebreo di New York, si trasferisce a Los Angeles per cercare fortuna nel magico mondo del Cinema: spera che lo zio (un ricco produttore di Hollywood) possa infatti introdurlo nel giro. Ma più che un lavoro, Bobby troverà qui la grande e impossibile storia d’amore della sua vita, quella per la giovane segretaria dello zio Veronica Sybil – detta Vonnie…

Café Society è l’ultimo titolo di una pressoché infinita sfilza di pellicole sfornate nella sua lunga carriera dal genietto newyorkese. Per chi di voi fosse già familiare con il nostro, la trama sarà già molto esplicativa di che tipo di film possa trovarsi davanti; per chi invece non fosse pratico di Woody Allen – probabilmente un venusiano – sappiate che si tratta dell’ennesimo riciclo che costui pratica all’interno della propria filmografia.

Allen proprio non riesce a variare sul tema: da tanti anni a questa parte è riuscito ad allontanarsi dai suoi soliti schemi (amore dolceamaro intellettualoide, musica jazz, un certo gusto vintage, nevrosi su nevrosi, paura più o meno esorcizzata della morte, battute sugli ebrei) soltanto in occasione di Blue Jasmine – e più che altro per merito di due solidissime prove attoriali, non tanto per lo script.

Se Irrational Man possedeva tutta una serie di riflessioni sulla morte e la morale che mi avevano rimandato a pellicole come Match Point Sogni E Delitti, qua abbiamo una storiella d’amore più alla Manhattan con un minimo di coralità che mi rimanda anche a Hannah E Le Sue Sorelle – semicitato anche nella conclusione festiva (da una parte è il Ringraziamento, dall’altra Capodanno). Chiaramente, però, Café Society non possiede minimamente la forza dirompente di quei dialoghi e di quelle vicende: ora che sappiamo bene schemi e canovacci, rimane solo un piacevole teporino dietro la schiena, ma non ci si commuove mica tanto.

Se infatti i dialoghi sono – as usual – perfettamente cesellati, le interpretazioni gradevolmente sorprendenti (soprattutto per attori solitamente non proprio eccelsi come Kristen Dunst) e la regia calda e avvolgente, è anche vero che le battute non sorprendono più, che le maschere del mondo alleniano ci sono perfettamente note, che il lento e compiaciuto incedere sulla bellezza degli anni e della musica che furono ci puzza di cartolina lontano un miglior (ben lungi dal bianco e nero di Manatthan).

Insomma, siamo di fronte a Woody Allen per l’ennesima volta: a Woody Allen nuovamente su questi schermi; a Woody Allen che ripete i suoi soliti trucchi ad infinitum; e a Woody Allen che, nonostante questo, non riesce mai a farmi davvero schifo – laddove un qualunque altro regista-sceneggiatore sarebbe già stato da me bollato come somma palla del Cinema tutto.

“LOCANDIMETRO”

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La vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo.

Classifica Stagionale 2015/2016: La Panca

Secondo appuntamento con la Classifica Stagionale del Cinemalato! È giunto momento di dare un’occhiata alla “Panca“, ovvero la sezione dove si piazzano tutte quelle pellicole che non hanno raggiunto la “TOP20“, ma che neanche sono scese sotto la sufficienza. I film in questione sono ben 12, dieci in più della scorsa Stagione (quando visionai solo 28 pellicole): come per “Il Fondo Del Barile” questi verranno elencati per ordine alfabetico – senza fare una vera classifica. Come sempre, potrete leggere la recensione relativa al film cliccando sul titolo della pellicola.

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Il Caso Spotlight, di Tom McCarthy (2015)

L’annuale trionfatore dei Premi Oscar è il perfetto candidato per questa parte della Classifica: la vicenda dell’inchiesta del Boston Globe scorre liscia come l’olio, ma la pellicola rimane superficiale e non approfondisce in maniera sufficiente alcuno dei personaggi. È, insomma, un film perfettamente funzionale, ma assolutamente privo di alcun mordente, dove il cast stellare viene sprecato in maniera quasi criminale.

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La Comune, di Thomas Vinterberg (2016)

Thomas Vinterberg non riesce assolutamente a ripetere i fasti de Il Sospetto (con il quale si piazzò alla #2 nella Stagione 2012/2013) con questo suo nuovo La Comune: una buona parte dei personaggi presentati, infatti, non viene minimaente approfondita, e il concetto di “comune” introdotto fin dal titolo non entra praticamente mai in gioco (o comunque non in maniera cruciale) all’interno della pellicola. Una mancata occasione per un’altra diabolicissima indagine sociale, alle quali il regista danese ci ha abituati.
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Creed – Nato Per Combattere, di Ryan Coogler (2015)

Il sequel del sequel del sequel del sequel (eccetera) di Rocky è veramente prevedibile e scontato: a questo si aggiunga che il personaggio principale manca di una forte motivazione per intraprendere una carriera nel pugilato, ed un personaggio femminile che è un’occasione mancata per dare spessore anche alle donne in questo tipo di film. Ma quando la frittata sembra fatta, la pellicola viene sorprendentemente salvata dall’insufficienza dal Sylvester Stallone che non ti aspetti, malinconico e toccante al punto giusto – senza eccessi.

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Freeheld – Amore, Giustizia, Uguaglianza, di Peter Sollett (2015)

La vera storia di Laurel Hester (poliziotta lesbica che riuscì ad ottenere il lascito dei benefit pensionistici alla propria compagna) è la base di una pellicola purtroppo insufficientemente approfondita: viene dato troppo spazio alla nascita della storia d’amore (spazio peraltro mal gestito a livello temporale), e così si perde la possibilità di dare più peso alla sezione drammatica – che risulta invece un reiterarsi di scenette giudiziarie strappalacrime e prevedibili. Si poteva fare molto di più.

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Fuocoammare, di Gianfranco Rosi (2016)

Fuocoammare di Gianfranco Rosi rappresenta perfettamente ciò che non voglio vedere in una pellicola che tratta di realtà: un realismo esasperato, patetico e fine a sé stesso. Il debole (a tratti incomprensibile) viaggio di formazione del piccolo Samuele, le prediche del dottore e i momenti assurdi che coinvolgono la radio locale, non hanno un decimo della poesia e dell’efficacia di un Terraferma (per prendere un film che trattava di una storia molto simile). Peccato, perché alcune sequenze suggestive ci sono (la scena dei cactus/immigrati), ma da sole non bastano a portare la pellicola ai piani alti.

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Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte II, di Francis Lawrence (2015)

Purtroppo la saga di Hunger Games si chiude sul suo punto più basso: la seconda parte de Il Canto Della Rivolta – nonostante alcune sequenze davvero ben riuscite (lo scontro nelle fogne) – si scorda di approfondire in maniera efficace i personaggi (è emblematico Peeta, il quale si libera troppo facilmente del giogo di Capitol City) e fa finire la vicenda su immagini melense alla Mulino Bianco. Peccato davvero.

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Irrational Man, di Woody Allen (2015)

Woody fa sé stesso per la milionesima volta, tentando un improbabile mix di Whatever WorksMatch Point: il risultato non è poi malvagio, ma anche per i non-appassionati dello zoccolo duro come me le scelte narrative e tematiche risulteranno estremamente “già sentite”; a questo si aggiunga un finale sin troppo velocizzato rispetto al ritmo della restante pellicola, e un monologo conclusivo di 20 secondi che credo sia stato scritto durante una seduta al cesso, ed ecco spiegata la posizione non esaltante.

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Joy, di  David O. Russell (2015)

Niente da fare anche per David O. Russell: non che il ragazzo mi abbia mai davvero esaltato, ma perlomeno i suoi precedenti film erano prodotti “medi” ben congegnati, e sempre impeccabili dal punto di vista della direzione attoriale. Invece Joy è una pseudo-favola alla Frank Capra scritta in seguito ad un’overdose di miele, con tanti buchi/brutture di sceneggiatura e personaggi poco approfonditi, nella quale spicca solo la figura pseudo-titanica Jennifer Lawrence (mentre gli altri grandi del cast – De Niro, Cooper, Ladd, Rossellini – vengono abbandonati ai loro brutti characters).

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The Nice Guys, di Shane Black (2016)

La pellicola che segna il ritorno di Shane Black è – sulla falsariga del suo ben più cult Arma Letale – un’action comedy molto carina, dal grande ritmo e dalle gag spesso e volentieri azzeccate. Si passa una serata in leggerezza, ma forse anche troppo: alcune questioni “psicologiche” dei personaggi rimangono in sospeso (che ci sia un sequel in cantiere?), ed in generale non si punta davvero a creare un film di spessore o valore. Bene, dunque, che simili lavori vengano lasciati più in basso, rispetto a pellicole che provano a dire qualcosa.

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La Pazza Gioia, di Paolo Virzì (2016)

Un altro dei miei autori del cuore (Paolo Virzì) firma – ahimè – un film bruttino, dove ad una trama evanescente si aggiungono due personaggi che non sono ben definiti (nonostante la valida performance delle interpreti che li incarnano). A questo si aggiunga una strana indecisione di tono – un film realistico e desolante con punte di fiabesco, che nel finale evolve direttamente in una irrealistica favola spiazzando lo spettatore – e si ottiene una pellicola che non ha la potenza e la solidità di una Prima Cosa Bella.
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Per Amor Vostro, di Giuseppe M. Gaudino (2015)

La pellicola di Gaudino è uno strano incrocio di grottesco ed iperrealismo, che a tratti (brevi) funziona, a tratti (lunghissimi) sdubbia parecchio. La vicenda in sé, poi, è stranamente articolata: a quella che sembra una semplice storia di depressione e recupero della propria vita/felicità, si aggiunge ad un certo punto una sottotrama di stampo mafioso che non è completamente armonica con la prima. Insomma, una pellicola davvero bizzarra, che non eccelle ma non lascia neanche indifferenti/schifati.

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Il Ponte Delle Spie, di Steven Spielberg (2015)

Esattamente come Woody Allen anche Steven Spielberg si “limita” a fare sé stesso. Il Ponte Delle Spie è film di intrattenimento stelle e strisce al 1000%, con una sceneggiatura ed una regia solidissime ma una generale inconsistenza nell’approfondimento dei personaggi. Unica eccezione (e al contempo rammarico) è il personaggio incarnato da Mark Rylance, una spia sovietica molto sotto le righe (quasi silenziosa) scritta dai geniali fratellini Coen: ma rimane l’unico evidente lampo di un guizzo in più, che invece generalmente manca all’ultima fatica di Spielberg.

Irrational Man (2015)

Abe Lucas, professore di filosofia in piena crisi esistenziale, inizia un nuovo anno accademico al college Brailyn di Rhode Island. La conoscenza e la frequentazione con una giovane studentessa del suo corso, Jill Pollard, lo porterà a ritrovare il gusto per la vita: ma non è stato solo l’amore a far uscire Abe dal suo momento buio…

Un nuovo film di Woody Allen, da queste parti, è sempre ben accetto: nonostante l’anno scorso mi sia perso Magic In The Moonlight, solitamente ad ogni nuova uscita del genio newyorkese mi fiondo in sala con aspettative che non sono mai sotto la sufficienza piena. Sarà per quella sua naturale maestria nello scrivere dialoghi tanto realistici quanto interessanti, sarà per quel mondo di cui parla nei suoi film (al limite del radical-chic, eppure a suo modo magico ed accattivante)… Ad ogni modo, Woody è sempre un appuntamento da rispettare.

Com’è questo nuovo Irrational Man? Non è male, ma non è neanche niente che faccia gridare al miracolo, alla sorpresa, o ad altro. Inutile pensare di trovarsi di fronte ad un nuovo Match Point o ad un revival ironico potente come quello di Whatever Works – Basta Che Funzioni: questi sono colpi che ormai Allen difficilmente riuscirà a tirare fuori di nuovo. Anzi, ad essere sinceri questo nuovo opus del genio newyorkese sembra una commistione dei due succitati, solo in tono estremamente minore.

La prima metà del nuovo film di Woody è infatti molto simile alle sue proposte più “comiche”: da una parte abbiamo il classico personaggio burbero e disilluso della vita, un po’ misantropo e con una personalità molto particolare, non esattamente attraente da un punto di vista estetico (Joaquin Phoenix); dall’altra la giovane ragazza avvenente, un po’ svampita e con aria intellettualoide, che si prende una cotta per il personaggio burbero e la sua negatività (Emma Stone); questo porta il personaggio burbero a diventare sempre meno negativo, e a ritrovare l’amore e la passione per la vita (sia nei suoi momenti lieti che in quelli più neri).

In realtà, però, la svolta definitiva del protagonista non avviene solo grazie alla relazione con la giovane, ma soprattutto per la pianificazione dell’omicidio di un giudice corrotto che gli dà la parvenza di aver compiuto qualcosa di giusto da un punto di vista morale. La ragazza lo scopre e minaccia di denunciarlo: a quel punto il protagonista si trova a dover fare i conti con una presenza divenuta ingombrante nella sua vita, della quale non può che liberarsi seguendo la via più estrema (l’omicidio). L’andamento di questa parte dell’intreccio ricorda molto Crimini E Misfatti, nonchè il succitato Match Point.

Nel mezzo a tutto questo c’è il solito Allen, con i suoi dialoghi brillanti e pulsanti di vita (anche se è una vita che ormai appare un po’ stantia, per chi conosca e apprezzi i capolavori come Manatthan o simili), con le sue contorte ma valide riflessioni sulla morale-(a)morale, con i suoi personaggi nevrotici e insicuri che si portano dietro mille sfumature e mille contraddizioni interne. Un caleidoscopio ormai rodato e sempre valido, dal quale Woody raramente si separa.

Irrational Man, insomma, non è niente di diverso da quello che mi potessi aspettare dal buon Allen in questo ultimo periodo: alla fin dei conti il “ragazzo” inizia ad avere più di 80 anni, e il cervello non può che perdere buona parte della sua freschezza ad una tale età. Certo sarebbe forse meglio se iniziasse a tirare un po’ il freno a mano e facesse uscire pellicole ad un ritmo più blando (magari cercando di aumentare la qualità media delle proposte, riducendone la quantità – il finale di questa pellicola è troppo affrettato, e il tutto si conclude su un insipido monologo della durata di venti secondi scarsi): ma alla fine Woody è Woody anche per questo.

“LOCANDIMETRO”

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Di cosa stiamo parlando allora? Morale, omicidio, filosofia…?

Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte II

La rivolta verso Capitol City è iniziata: i ribelli sono arrivati ai margini dei primissimi distretti, e la ghiandaia imitatrice decide di scendere in campo (contro la volontà del capo della rivolta) per essere bandiera dell’ultimo assalto. Ma, tra scelte strategiche e attacchi diretti, tra Peeta sempre semi-controllato da Capitol e Gale che sembra essere cambiato a causa della guerra, tra momenti di disperazione e successivi trionfi, l’esito della battaglia è tutt’altro che chiaro o scontato.

Inutile negare che questo sia uno dei film più attesi del decennio: Hunger Games è stata una saga in grado di appassionare e coinvolgere molti, grazie ad una sapiente ed inaspettatamente efficace combinazione di semplicità ai limiti del bimbominkia e polemica socio-culturale nei confronti di una società sempre più dominata dai mass-media. Inutile, inoltre, negare come l’ultimo finale di una saga simile (Harry Potter) sia stato un totale flop (un film stupido, ridicolo, sbagliato sotto tantissimi aspetti), e che conseguentemente il timore per un secondo fallimento fosse elevato.

Capitan Francis Lawrence (Io Sono Leggenda, Come L’Acqua Per Gli Elefanti) non fallisce di troppo l’obiettivo: Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte II è sicuramente un buon film, centrato e convincente in gran parte per lo scopo che si prefigge. Tuttavia, devo al contempo constatare che si tratti del peggiore episodio dell’intera saga, per una serie di motivi che ora andrò ad elencare.

  1. I personaggi sono lasciati totalmente in secondo piano. Questo film aveva chiaramente molta “vicenda” da dover narrare: l’incursione nei primi distretti, l’ingresso a Capitol City, il colpo di scena finale, il ritorno alla “normalità” nel distretto 12. Tuttavia, trovo che per fare questo si sia dimenticato di dare il giusto peso all’interiorità dei personaggi: spicca in particolare Peeta, il quale si libera troppo facilmente dal controllo di Capitol (lasciando solo un’inutile vittima dietro di sè) e, in generale, risulta estremamente insignificante per gran parte del film (sarebbe questo il grande amore/molla di Katniss?).
  2. In questo film non è presente quel bellissimo dualismo dei primi tre: non c’è, ovvero, la parte di critica al potere dei mass-media (espletata nei primi due film dal pre-hunger games, e nel terzo dalla battaglia propagandistica tra il distretto 13 e Capitol). So che probabilmente anche il libro evolve in tal senso, eppure la cosa non ha potuto non lasciarmi un po’ d’amaro in bocca.
  3. Gli ultimissimi minuti (diciamo gli ultimi 5, all’incirca) sono putridi: lenti, superflui, con una patina di melenso ed una sub-specie di scopiazzatura dal terribile finale del succitato Harry Potter E I Doni Della Morte – Parte II (con i due protagonisti “invecchiati”, e con figli al seguito). Davvero non mi spiego la decisione di non far finire la pellicola sulla morte della Coin, o sull’abbraccio di Peeta e Katniss davanti la tomba di Prim.

A tutto questo, fa comunque riscontro un film con almeno una scena d’azione davvero ben strutturata (la silenziosissima scena delle fogne – anche se i mostri sono terribili da un punto di vista estetico, incrocio irrisolto tra un Alien e il mostro con gli occhi nelle mani de Il Labirinto Del Fauno), un paio di dialoghi molto belli (il primo tra Peeta e Katniss – che lascia un po’ d’amaro in bocca, essendo in potenziale ciò che il loro rapporto durante questo film non si è rivelato essere – e quello conclusivo tra Katniss e Snow), e il colpo di scena conclusivo (con la bellissima tavolata rotonda dei 7 vincitori rimasti, più la scena dell’esecuzione congiunta di Coin e Snow). Elementi che fanno di Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte II una valida (seppur lievemente inferiore) conclusione di una sorprendente e appassionante saga: e ci assicurano che il richiamo della ghiandaia sicuramente non sarà dimenticato per molto tempo.

“LOCANDIMETRO”

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