Secondo appuntamento con la Classifica Stagionale del Cinemalato! È giunto momento di dare un’occhiata alla “Panca“, ovvero la sezione dove si piazzano tutte quelle pellicole che non hanno raggiunto la “TOP20“, ma che neanche sono scese sotto la sufficienza. I film in questione sono ben 12, dieci in più della scorsa Stagione (quando visionai solo 28 pellicole): come per “Il Fondo Del Barile” questi verranno elencati per ordine alfabetico – senza fare una vera classifica. Come sempre, potrete leggere la recensione relativa al film cliccando sul titolo della pellicola.
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L’annuale trionfatore dei Premi Oscar è il perfetto candidato per questa parte della Classifica: la vicenda dell’inchiesta del Boston Globe scorre liscia come l’olio, ma la pellicola rimane superficiale e non approfondisce in maniera sufficiente alcuno dei personaggi. È, insomma, un film perfettamente funzionale, ma assolutamente privo di alcun mordente, dove il cast stellare viene sprecato in maniera quasi criminale.
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La Comune, di Thomas Vinterberg (2016)
Thomas Vinterberg non riesce assolutamente a ripetere i fasti de Il Sospetto (con il quale si piazzò alla #2 nella Stagione 2012/2013) con questo suo nuovo La Comune: una buona parte dei personaggi presentati, infatti, non viene minimaente approfondita, e il concetto di “comune” introdotto fin dal titolo non entra praticamente mai in gioco (o comunque non in maniera cruciale) all’interno della pellicola. Una mancata occasione per un’altra diabolicissima indagine sociale, alle quali il regista danese ci ha abituati.
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Il sequel del sequel del sequel del sequel (eccetera) di Rocky è veramente prevedibile e scontato: a questo si aggiunga che il personaggio principale manca di una forte motivazione per intraprendere una carriera nel pugilato, ed un personaggio femminile che è un’occasione mancata per dare spessore anche alle donne in questo tipo di film. Ma quando la frittata sembra fatta, la pellicola viene sorprendentemente salvata dall’insufficienza dal Sylvester Stallone che non ti aspetti, malinconico e toccante al punto giusto – senza eccessi.
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La vera storia di Laurel Hester (poliziotta lesbica che riuscì ad ottenere il lascito dei benefit pensionistici alla propria compagna) è la base di una pellicola purtroppo insufficientemente approfondita: viene dato troppo spazio alla nascita della storia d’amore (spazio peraltro mal gestito a livello temporale), e così si perde la possibilità di dare più peso alla sezione drammatica – che risulta invece un reiterarsi di scenette giudiziarie strappalacrime e prevedibili. Si poteva fare molto di più.
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Fuocoammare, di Gianfranco Rosi (2016)
Fuocoammare di Gianfranco Rosi rappresenta perfettamente ciò che non voglio vedere in una pellicola che tratta di realtà: un realismo esasperato, patetico e fine a sé stesso. Il debole (a tratti incomprensibile) viaggio di formazione del piccolo Samuele, le prediche del dottore e i momenti assurdi che coinvolgono la radio locale, non hanno un decimo della poesia e dell’efficacia di un Terraferma (per prendere un film che trattava di una storia molto simile). Peccato, perché alcune sequenze suggestive ci sono (la scena dei cactus/immigrati), ma da sole non bastano a portare la pellicola ai piani alti.
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Purtroppo la saga di Hunger Games si chiude sul suo punto più basso: la seconda parte de Il Canto Della Rivolta – nonostante alcune sequenze davvero ben riuscite (lo scontro nelle fogne) – si scorda di approfondire in maniera efficace i personaggi (è emblematico Peeta, il quale si libera troppo facilmente del giogo di Capitol City) e fa finire la vicenda su immagini melense alla Mulino Bianco. Peccato davvero.
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Woody fa sé stesso per la milionesima volta, tentando un improbabile mix di Whatever Works e Match Point: il risultato non è poi malvagio, ma anche per i non-appassionati dello zoccolo duro come me le scelte narrative e tematiche risulteranno estremamente “già sentite”; a questo si aggiunga un finale sin troppo velocizzato rispetto al ritmo della restante pellicola, e un monologo conclusivo di 20 secondi che credo sia stato scritto durante una seduta al cesso, ed ecco spiegata la posizione non esaltante.
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Joy, di David O. Russell (2015)
Niente da fare anche per David O. Russell: non che il ragazzo mi abbia mai davvero esaltato, ma perlomeno i suoi precedenti film erano prodotti “medi” ben congegnati, e sempre impeccabili dal punto di vista della direzione attoriale. Invece Joy è una pseudo-favola alla Frank Capra scritta in seguito ad un’overdose di miele, con tanti buchi/brutture di sceneggiatura e personaggi poco approfonditi, nella quale spicca solo la figura pseudo-titanica Jennifer Lawrence (mentre gli altri grandi del cast – De Niro, Cooper, Ladd, Rossellini – vengono abbandonati ai loro brutti characters).
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La pellicola che segna il ritorno di Shane Black è – sulla falsariga del suo ben più cult Arma Letale – un’action comedy molto carina, dal grande ritmo e dalle gag spesso e volentieri azzeccate. Si passa una serata in leggerezza, ma forse anche troppo: alcune questioni “psicologiche” dei personaggi rimangono in sospeso (che ci sia un sequel in cantiere?), ed in generale non si punta davvero a creare un film di spessore o valore. Bene, dunque, che simili lavori vengano lasciati più in basso, rispetto a pellicole che provano a dire qualcosa.
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Un altro dei miei autori del cuore (Paolo Virzì) firma – ahimè – un film bruttino, dove ad una trama evanescente si aggiungono due personaggi che non sono ben definiti (nonostante la valida performance delle interpreti che li incarnano). A questo si aggiunga una strana indecisione di tono – un film realistico e desolante con punte di fiabesco, che nel finale evolve direttamente in una irrealistica favola spiazzando lo spettatore – e si ottiene una pellicola che non ha la potenza e la solidità di una Prima Cosa Bella.
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Per Amor Vostro, di Giuseppe M. Gaudino (2015)
La pellicola di Gaudino è uno strano incrocio di grottesco ed iperrealismo, che a tratti (brevi) funziona, a tratti (lunghissimi) sdubbia parecchio. La vicenda in sé, poi, è stranamente articolata: a quella che sembra una semplice storia di depressione e recupero della propria vita/felicità, si aggiunge ad un certo punto una sottotrama di stampo mafioso che non è completamente armonica con la prima. Insomma, una pellicola davvero bizzarra, che non eccelle ma non lascia neanche indifferenti/schifati.
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Esattamente come Woody Allen anche Steven Spielberg si “limita” a fare sé stesso. Il Ponte Delle Spie è film di intrattenimento stelle e strisce al 1000%, con una sceneggiatura ed una regia solidissime ma una generale inconsistenza nell’approfondimento dei personaggi. Unica eccezione (e al contempo rammarico) è il personaggio incarnato da Mark Rylance, una spia sovietica molto sotto le righe (quasi silenziosa) scritta dai geniali fratellini Coen: ma rimane l’unico evidente lampo di un guizzo in più, che invece generalmente manca all’ultima fatica di Spielberg.