Madre! (2017)

Sono ormai sette mesi che non scrivo su questo blog, e non sono pochi: non ho nemmeno stilato l’annuale classifica di fine Stagione (compito al quale probabilmente ottempererò nel futuro prossimo). Come mai, vi chiederete (o forse no)?

Beh, non è la prima volta che mi prendo una pausa dalle pagine del Cinemalato: accadde già nel lontano 2015, per un periodo di tempo decisamente più breve (circa tre mesi). La motivazione, tuttavia, è identica: la scorsa Stagione cinematografica è stata talmente fiacca, talmente priva di punti di interesse (per la prima volta da quando ho aperto questo blog non ho assegnato nemmeno un “9 – filmone”, e i film meritevoli di un “8 – gioiellino” sono stati appena quattro – Animali Notturni, Moonlight, La Battaglia Di Hacksaw Ridge, e – in parte – Silence), da farmi perdere ogni volontà critica.

Il preambolo può apparire fuori luogo, ma è in realtà fondamentale per capire questa mia nuova pagina di critica scritta dopo così tanto tempo. Perché, come già anticipo, Madre! è pellicola che si prende un voto insufficiente: le sue grottesche immagini di accanimento, deturpazione, violenza (sia fisica che mentale) mi hanno turbato nel profondo (facendomi sinceramente pensare ad un certo “compiacersi” dello psicanalitico Aronofsky nel contemplare la sua resa luciferina di certe turbe psichiche); l’infernale resoconto allegorico della vicenda Cristiana – piegata ad incarnarsi in una Madonna umanizzata al limite della blasfemia, capace di provare gelosia ed egoismo per amore (minuscolo, perché carnale e fisico) verso quel Dio che è suo Padre e suo Figlio al contempo – è una scelta tanto estrema che mi ha portato a domandarmi più volte, esterrefatto, “perché, o Darren, hai voluto intraprendere una simile strada narrativa?”, senza trovare una risposta adeguata (mi pare materia sin troppo delicata e complessa per volerne fare una selezione di fatti narrati molto schematica e basilare, quasi a livello “catechismo”).

Ma è proprio questo il paradossale motivo per cui Madre! è pellicola che consiglio e stra-consiglio a tutti i cineamatori: perché mi ha lasciato sconvolto per la propria mostruosità estrema, perché mi ha portato ad interrogarmi più e più volte (pur senza risposte certe) sulle sue intenzioni e significati, perché – insomma – mi ha accompagnato ben oltre il limite fisico della sua proiezione. Ed era veramente tanto (almeno da due Stagioni) che non mi sentivo così squassato interiormente.

Qui lo dico e qui lo nego: non vi aspettate che il voto rimanga invariato, perché pellicole del genere non possono essere liquidate dopo una singola visione. Chissà che Madre! non diventi il primo “5 – insufficiente” a raggiungere la “Top20 – parte alta” del Cinemalato. Nel frattempo, bentornati a voi che mi avete aspettato in tutti questi mesi di assenza, e benvenuta alla Stagione cinematografica 2017/2018 – sperando che possa continuare a bombardarci con simili emozioni.

“LOCANDIMETRO”

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The Hateful Eight (2015)

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Stati Uniti, seconda metà del 1800: una diligenza contenente cinque passeggeri (due cacciatori di taglie – di cui uno nero -, una componente di una pericolosa banda criminale, un ex soldato sudista e razzista e il cocchiere) è costretta a fermarsi ad un emporio per l’incombere di una terribile bufera di neve. All’interno dell’emporio ci sono altri quattro personaggi, mai visti prima dai cinque della carrozza. La tensione tra i nove è palpabile, e andrà crescendo con il passare delle ore…

Quentin Tarantino è tornato in città, a tre anni di distanza dal valido Django Unchained e dal suo doppio trionfo ai premi Oscar (miglior sceneggiatura originale e miglior attore non protagonista). Ed è di nuovo western, ed è di nuovo Morricone alla colonna sonora, ed è di nuovo un film che vede come protagonista assoluto il conflitto tra bianchi e neri – stavolta inserito nella cornice della guerra di secessione, più che in quella dell’intolleranza “ku-klux-kaniana”.

Il mio principale problema con The Hateful Eight è proprio questo: l’insistere su un tema che – a mio modesto avviso – il precedente film aveva già trattato e in maniera molto più efficiente. Perchè l’ottavo film di Tarantino, pur mascherato da giallo alla Dieci Piccoli Indiani, è una riflessione politica e spudoratamente schierata di due ore e quarantacinque minuti.

Il fatto è che in Django il protagonista non veniva elevato in nessun modo: era solo un nero che – tarantinamente – si prendeva la sua vendetta sui bianchi (presunti superiori) in un mare di sangue e violenza. Ma era un personaggio a sua volta perfettibile, con i suoi difetti e con i suoi momenti di difficoltà: non ci veniva presentato come “quello per cui fare il tifo a tutti i costi”. Al contrario abbiamo qui il maggiore Marquis Warren/Samuel L. Jackson è “la vittima che ha fatto il culo a tutti”: sì certo, si scopre che ha bruciato vive un po’ di persone innocenti; sì certo, in fondo muore anche lui; ma nessuno di questi momenti ne intacca davvero lo status di “protagonista con cui bisogna per forza empatizzare”, la simpatia del regista/sceneggiatore è tutta per lui.

Il grado di maniacale attenzione verso questa moralina spicciola (che esplode in un finale con tanto di soldato sudista “convertitosi” e a sua volta simpatizzante per il nero, e con lettura sin troppo palesemente ironica di una lettera che esalta i valori dell’America) è tale che ha procurato l’effetto opposto: personalmente speravo che Warren morisse da un momento all’altro, godevo profondamente per ogni sua minima sconfitta (nonostante fossero praticamente inesistenti). Anche la sequenza della tortura e del pompino – che suppongo dovesse essere epica e “soddisfacente” nelle intenzioni di Tarantino – mi ha solo fatto simpatizzare di più per i sudisti (nella figura del generale Samford Smithers/Bruce Dern).

Al di là di questa a mio avviso brutta caratterizzazione dei personaggi (soprattutto anomala per uno sceneggiatore che di solito rifiuta morali così spicciole), il film è estremamente citazionista: Le Iene è sicuramente un importante punto di riferimento (nella narrazione che oscilla tra la situazione presente e alcuni flashback del passato; nelle sequenze finali dove tutti hanno un’arma puntata addosso a qualcun’altro…) e di Django abbiamo già parlato. Sebbene questa sia caratteristica fondante di molto Cinema di Quentin, stavolta mi ha un po’ sdubbiato: più che operazione di rilettura, mi è sembrato un recupero legato al fatto di avere le idee confuse/non propriamente chiare su come impostare la vicenda e lo stile della pellicola.

Detto questo, The Hateful Eight è pur sempre un lavoro ben cesellato: potenza visiva, dialoghi che sanno sempre affascinare lo spettatore (un po’ lo stesso discorso che si può fare per Woody Allen: sistema conosciuto, ma proprio per questo già testato e oliato alla perfezione), cast ottimamente scelto e in palla (soprattutto Jennifer Jason Leigh/Daisy Domergue e Chris Mannix/Walton Goggins). Certamente si tratta di un Tarantino un po’ prolisso e noioso (a mio avviso il suo peggior film), ma è pur sempre un Tarantino – e come tale un film che buona parte dei registi/sceneggiatori moderni sognano di poter realizzare.

“LOCANDIMETRO”

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I neri sono al sicuro quando i bianchi sono disarmati.

Joy (2015)

Joy, una ragazza madre con un divorzio alle spalle ed una famiglia turbolenta, cerca di uscire dal giogo di una vita anonima e di pura sopravvivenza grazie agli incoraggiamenti della nonna e alla sua capacità di inventare cose. Ma, nonostante l’invenzione di un mocio auto-strizzante si riveli valida, le difficoltà non saranno finite…

Non ho mai amato il cinema di David O. Russell, che ho sempre trovato un buon “artigiano” completamente carente di un certo guizzo in più: The Fighter era un film sul pugilato qualsiasi, con piccole buone trovate qua e là; Il Lato Positivo una valida commedia romantica tra due “squilibrati”, che mi ha convinto maggiormente solo perché appartenente al mio genere preferito in assoluto; American Hustle un esercizione di stile ben fatto, ma completamente fine a sé stesso.

C’era qualcosa, tuttavia, di questo nuovo Joy che mi lasciava particolarmente ben sperare. Penso sia un mio problema con i trailer dei film: spesso mi danno l’idea di qualcosa di estremamente diverso da quello che poi, in effetti, si rivela essere la realtà dei fatti. Nello specifico l’anteprima dell’ultima fatica di David O. Russell mi dava l’idea di un grande affresco familiare plurigenerazionale, una vicenda ambientata in diverse epoche che mettesse in campo tantissimi personaggi con i loro difetti e i loro pregi: una sorta di grande “romanzo” neorealista in chiave moderna, qualcosa alla Novecento di Bertolucci.

Invece Joy non è niente di tutto ciò. Non saprei nemmeno bene come definirlo: penso che stia qui il suo più grande, fatale difetto.

La pellicola inizia come una commedia, un film che vada a gettare una luce più leggera ed ironica su vicende effettivamente drammatiche come quelle di una ragazza madre che non riesce più a sbarcare il lunario. Al momento del turning point, tuttavia, le cose iniziano a farsi molto diverse: da quando Joy crea il mocio e cerca di venderlo, ecco che improvvisamente O.Russell decide che il tempo dei sorrisi è finito, e bisogna piangere e commuoversi ad ogni difficoltà e successo della nostra eroina. Il tutto è costantemente attraversato da un sentimentalismo al limite della melassa, incarnato soprattutto dalla voce narrante/personaggio della nonna (una sacrificata Diane Ladd) che sente il dovere di ripeterci ogni tre per due come “la vita sia stata difficile con Joy, ma lei ce la farà perché inventava cose magnifiche”.

Questo ultimo punto mi permette di portare la mia analisi su un altra caratteristica del film che non so davvero come considerare: gli “spiegoni”. Cosa intendo? Intendo tutti quei momenti quando uno dei personaggi deve sottolineare con le parole l’evidente stato d’animo della nostra protagonista: un momento simile, ad esempio, è quando Joy si trova davanti alla dichiarazione di fallimento e il buon De Niro sottolinea ad un altro dei personaggi “adesso si sente delusa e affranta”: un altro è quando Bradley Cooper dice alla ricca magnate Joy la frase che ho selezionato come MOVIEQUOTE “Hai fatto molta strada. Sono orgoglioso di te” – come se non ce ne fossimo già accorti da tutto quello che c’è stato prima (o dalle spiegazioni della voce narrante, insistente e martellante). Al momento non me ne vengono in mente altri, ma giuro di averne contati almeno 5 durante l’intera proiezione.

Mi è venuto da pensare che questo film volesse essere un omaggio ad un certo Cinema, quello un po’ più diretto e semplice (“americano”) dei registi di un tempo, modello Frank Capra – che a volte, indubbiamente, si abbandonavano a sentimentalismi e spiegoni. Però ci sono ben due impedimenti a questa chiave di lettura: intanto i suddetti film avevano spesso un’ottima analisi dell’interiorità dei personaggi, cosa che qui avviene solo con la protagonista – i restanti “characters” del film sono letteralmente abbandonati a loro stessi in una serie di macchiette monodimensionali e insignificanti; poi non sono sicuro che fare un film “vecchio stampo” sia un valido omaggio al Cinema che fu – semmai sarebbe bene fare come The Artist, e usare il “vecchio” in maniera moderna.

Il film in sé non è neanche male: storia di riscatto e realizzazione di sé contro tutto e tutti, un’incarnazione minore del sogno americano. La storia fila liscia senza intoppi né sussulti, senza errori grossolani nella gestione della vicenda (eccezion fatta per un finale improvvisamente velocissimo, dove Joy risolve tutti i suoi problemi insormontabili in 5 nanosecondi), riuscendo anche ad emozionare in alcuni momenti (soprattutto per merito della solita Jennifer Lawrence, che porta sulle sue spalle l’intera pellicola e ci regala almeno un valido momento nella sequenza della prima televendita). Però alla fine Joy è un film del quale non si sente il bisogno (non lo sente neppure il regista/sceneggiatore), con tante banalità e tante ingenuità (forse volute, comunque non condivisibili), che riesce solo a regalarci una visione polverosa e trita tanto quanto la soap opera sulla quale si apre l’intera pellicola.

“LOCANDIMETRO”

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Hai fatto molta strada. Sono orgoglioso di te.

Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte II

La rivolta verso Capitol City è iniziata: i ribelli sono arrivati ai margini dei primissimi distretti, e la ghiandaia imitatrice decide di scendere in campo (contro la volontà del capo della rivolta) per essere bandiera dell’ultimo assalto. Ma, tra scelte strategiche e attacchi diretti, tra Peeta sempre semi-controllato da Capitol e Gale che sembra essere cambiato a causa della guerra, tra momenti di disperazione e successivi trionfi, l’esito della battaglia è tutt’altro che chiaro o scontato.

Inutile negare che questo sia uno dei film più attesi del decennio: Hunger Games è stata una saga in grado di appassionare e coinvolgere molti, grazie ad una sapiente ed inaspettatamente efficace combinazione di semplicità ai limiti del bimbominkia e polemica socio-culturale nei confronti di una società sempre più dominata dai mass-media. Inutile, inoltre, negare come l’ultimo finale di una saga simile (Harry Potter) sia stato un totale flop (un film stupido, ridicolo, sbagliato sotto tantissimi aspetti), e che conseguentemente il timore per un secondo fallimento fosse elevato.

Capitan Francis Lawrence (Io Sono Leggenda, Come L’Acqua Per Gli Elefanti) non fallisce di troppo l’obiettivo: Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte II è sicuramente un buon film, centrato e convincente in gran parte per lo scopo che si prefigge. Tuttavia, devo al contempo constatare che si tratti del peggiore episodio dell’intera saga, per una serie di motivi che ora andrò ad elencare.

  1. I personaggi sono lasciati totalmente in secondo piano. Questo film aveva chiaramente molta “vicenda” da dover narrare: l’incursione nei primi distretti, l’ingresso a Capitol City, il colpo di scena finale, il ritorno alla “normalità” nel distretto 12. Tuttavia, trovo che per fare questo si sia dimenticato di dare il giusto peso all’interiorità dei personaggi: spicca in particolare Peeta, il quale si libera troppo facilmente dal controllo di Capitol (lasciando solo un’inutile vittima dietro di sè) e, in generale, risulta estremamente insignificante per gran parte del film (sarebbe questo il grande amore/molla di Katniss?).
  2. In questo film non è presente quel bellissimo dualismo dei primi tre: non c’è, ovvero, la parte di critica al potere dei mass-media (espletata nei primi due film dal pre-hunger games, e nel terzo dalla battaglia propagandistica tra il distretto 13 e Capitol). So che probabilmente anche il libro evolve in tal senso, eppure la cosa non ha potuto non lasciarmi un po’ d’amaro in bocca.
  3. Gli ultimissimi minuti (diciamo gli ultimi 5, all’incirca) sono putridi: lenti, superflui, con una patina di melenso ed una sub-specie di scopiazzatura dal terribile finale del succitato Harry Potter E I Doni Della Morte – Parte II (con i due protagonisti “invecchiati”, e con figli al seguito). Davvero non mi spiego la decisione di non far finire la pellicola sulla morte della Coin, o sull’abbraccio di Peeta e Katniss davanti la tomba di Prim.

A tutto questo, fa comunque riscontro un film con almeno una scena d’azione davvero ben strutturata (la silenziosissima scena delle fogne – anche se i mostri sono terribili da un punto di vista estetico, incrocio irrisolto tra un Alien e il mostro con gli occhi nelle mani de Il Labirinto Del Fauno), un paio di dialoghi molto belli (il primo tra Peeta e Katniss – che lascia un po’ d’amaro in bocca, essendo in potenziale ciò che il loro rapporto durante questo film non si è rivelato essere – e quello conclusivo tra Katniss e Snow), e il colpo di scena conclusivo (con la bellissima tavolata rotonda dei 7 vincitori rimasti, più la scena dell’esecuzione congiunta di Coin e Snow). Elementi che fanno di Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte II una valida (seppur lievemente inferiore) conclusione di una sorprendente e appassionante saga: e ci assicurano che il richiamo della ghiandaia sicuramente non sarà dimenticato per molto tempo.

“LOCANDIMETRO”

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Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte I (2014)

Dopo la fuga dall’edizione #75 degli Hunger Games, Katniss è stata trasportata al distretto 13. Ritenuto distrutto, in realtà ospita una base ribelle segreta, dotata di una grande forza militare disciplinata e pronta al combattimento: manca tuttavia un “catalizzatore”, che dia l’impulso a questa schiera e la metta in contatto con quella degli altri distretti, ormai stufi delle prepotenze di Capital City e fomentati dalle imprese della “ghiandaia imitatrice”. Proprio per questo, Katniss sembra la più adatta a svolgere il ruolo suddetto di “catalizzatore”: ma Peeta è rimasto prigioniero a Capital City e, invitato in numerose trasmissioni per supplicare Katniss di non scatenare la rivolta, appare chiaramente sottoposto a chissà quali torture da parte dei suoi aguzzini. Riuscirà Katniss a svolgere il suo ruolo, senza pensare alle terribili conseguenze che potrebbe avere sull’amato Peeta?

Terzo ed ultimo episodio della saga di Hunger Games (dopo l’originale e il sequel La Ragazza Di Fuoco), Il Canto Della Rivolta è stato suddiviso in due parti. Vi ricorda nulla, tale operazione? Ebbene sì, avete indovinato: l’improponibile conclusione della saga del maghetto più amato di tutti i tempi, Harry Potter E I Doni Della Morte (sì, d’accordo, anche Twilight, ma spero davvero nessuno dei miei lettori stesse pensando a quello…)! Ormai, ogniqualvolta vengo a scoprire di queste suddivisioni in due parti, sento un brivido di terrore percorrermi la schiena. Mi domando: “finirà mica come nel lontano 2011, quando quella che doveva essere una pellicola unica di due ore e mezzo/tre ore venne tramutata in un dittico – la cui prima parte era un continuo reiterarsi della stessa situazione, e la seconda un avvicendarsi di vicende abbozzate a velocità supersonica?”.

Fortunatamente il capitano Lawrence non delude le mie aspettative. Il Canto Della Rivolta – Parte I è sicuramente il preludio alla tempesta – una pellicola, cioè, dai ritmi non troppo serrati e costituita da un reiterarsi di situazioni – ma la differenza di qualità con il maghetto è palese. Il duello “propagandistico” tra le due fazioni di Capital City e del distretto 13 non è mai scontato, non è mai brutalmente pesante: possiede, oltre a questo, il secondario “fine” di far intravedere a Katniss e allo spettatore le condizioni critiche di Peeta – e far così da preludio alla sequenza finale della sua liberazione.

Altra scelta che ho apprezzato, è quella di aver tenuto in seconda linea i numerosi personaggi/attori del cast, che rischiavano di sovraffollare scena e vicenda: magari può dispiacere che Finnick, Effie, Haymitch, Flickerman, Johanna e altri si vedano poco o niente, ma quando qualcuno non è funzionale allo sviluppo della trama inserirlo dentro a forza non è mai una grande idea. E poi non viene mai in secondo piano lo spessore dei personaggi; oltre ad un ottimo gioco tensivo sulla vicenda d’amore “Peeta-Katniss”, il povero (e cornuto) Gale – fino allo scorso capitolo un character che sembrava buttato lì tanto per fare – viene qua indagato più a fondo nei suoi sentimenti e ne viene delineata una personalità forte nella sua semplicità (al punto che ne temiamo la dipartita, nel finale). Anche la new entry Julianne Moore, come Gale, viene servita da un personaggio che riusciamo a scoprire in maniera più che sufficiente – senza che però vada ad “intasare” troppo la vicenda, con la sua personalità.

Non c’è molto di più da dire su un film del genere: vi sono tutta una serie di limitazioni, dovute al fatto di essere una “prima parte”, che non permettono analisi troppo approfondite. Per quanto possibile, ribadisco come la costruzione della vicenda sia convincente: un vero e proprio preludio alla tempesta, con tanto di colpo di scena conclusivo e tema musicale di stampo epico (che lascio in MOVIEQUOTE) a farci presagire tamburi di guerra. Ma per questi, bisognerà aspettare la prossima Stagione Cinematografica (purtroppo).

“LOCANDIMETRO”

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