Joy, una ragazza madre con un divorzio alle spalle ed una famiglia turbolenta, cerca di uscire dal giogo di una vita anonima e di pura sopravvivenza grazie agli incoraggiamenti della nonna e alla sua capacità di inventare cose. Ma, nonostante l’invenzione di un mocio auto-strizzante si riveli valida, le difficoltà non saranno finite…
Non ho mai amato il cinema di David O. Russell, che ho sempre trovato un buon “artigiano” completamente carente di un certo guizzo in più: The Fighter era un film sul pugilato qualsiasi, con piccole buone trovate qua e là; Il Lato Positivo una valida commedia romantica tra due “squilibrati”, che mi ha convinto maggiormente solo perché appartenente al mio genere preferito in assoluto; American Hustle un esercizione di stile ben fatto, ma completamente fine a sé stesso.
C’era qualcosa, tuttavia, di questo nuovo Joy che mi lasciava particolarmente ben sperare. Penso sia un mio problema con i trailer dei film: spesso mi danno l’idea di qualcosa di estremamente diverso da quello che poi, in effetti, si rivela essere la realtà dei fatti. Nello specifico l’anteprima dell’ultima fatica di David O. Russell mi dava l’idea di un grande affresco familiare plurigenerazionale, una vicenda ambientata in diverse epoche che mettesse in campo tantissimi personaggi con i loro difetti e i loro pregi: una sorta di grande “romanzo” neorealista in chiave moderna, qualcosa alla Novecento di Bertolucci.
Invece Joy non è niente di tutto ciò. Non saprei nemmeno bene come definirlo: penso che stia qui il suo più grande, fatale difetto.
La pellicola inizia come una commedia, un film che vada a gettare una luce più leggera ed ironica su vicende effettivamente drammatiche come quelle di una ragazza madre che non riesce più a sbarcare il lunario. Al momento del turning point, tuttavia, le cose iniziano a farsi molto diverse: da quando Joy crea il mocio e cerca di venderlo, ecco che improvvisamente O.Russell decide che il tempo dei sorrisi è finito, e bisogna piangere e commuoversi ad ogni difficoltà e successo della nostra eroina. Il tutto è costantemente attraversato da un sentimentalismo al limite della melassa, incarnato soprattutto dalla voce narrante/personaggio della nonna (una sacrificata Diane Ladd) che sente il dovere di ripeterci ogni tre per due come “la vita sia stata difficile con Joy, ma lei ce la farà perché inventava cose magnifiche”.
Questo ultimo punto mi permette di portare la mia analisi su un altra caratteristica del film che non so davvero come considerare: gli “spiegoni”. Cosa intendo? Intendo tutti quei momenti quando uno dei personaggi deve sottolineare con le parole l’evidente stato d’animo della nostra protagonista: un momento simile, ad esempio, è quando Joy si trova davanti alla dichiarazione di fallimento e il buon De Niro sottolinea ad un altro dei personaggi “adesso si sente delusa e affranta”: un altro è quando Bradley Cooper dice alla ricca magnate Joy la frase che ho selezionato come MOVIEQUOTE “Hai fatto molta strada. Sono orgoglioso di te” – come se non ce ne fossimo già accorti da tutto quello che c’è stato prima (o dalle spiegazioni della voce narrante, insistente e martellante). Al momento non me ne vengono in mente altri, ma giuro di averne contati almeno 5 durante l’intera proiezione.
Mi è venuto da pensare che questo film volesse essere un omaggio ad un certo Cinema, quello un po’ più diretto e semplice (“americano”) dei registi di un tempo, modello Frank Capra – che a volte, indubbiamente, si abbandonavano a sentimentalismi e spiegoni. Però ci sono ben due impedimenti a questa chiave di lettura: intanto i suddetti film avevano spesso un’ottima analisi dell’interiorità dei personaggi, cosa che qui avviene solo con la protagonista – i restanti “characters” del film sono letteralmente abbandonati a loro stessi in una serie di macchiette monodimensionali e insignificanti; poi non sono sicuro che fare un film “vecchio stampo” sia un valido omaggio al Cinema che fu – semmai sarebbe bene fare come The Artist, e usare il “vecchio” in maniera moderna.
Il film in sé non è neanche male: storia di riscatto e realizzazione di sé contro tutto e tutti, un’incarnazione minore del sogno americano. La storia fila liscia senza intoppi né sussulti, senza errori grossolani nella gestione della vicenda (eccezion fatta per un finale improvvisamente velocissimo, dove Joy risolve tutti i suoi problemi insormontabili in 5 nanosecondi), riuscendo anche ad emozionare in alcuni momenti (soprattutto per merito della solita Jennifer Lawrence, che porta sulle sue spalle l’intera pellicola e ci regala almeno un valido momento nella sequenza della prima televendita). Però alla fine Joy è un film del quale non si sente il bisogno (non lo sente neppure il regista/sceneggiatore), con tante banalità e tante ingenuità (forse volute, comunque non condivisibili), che riesce solo a regalarci una visione polverosa e trita tanto quanto la soap opera sulla quale si apre l’intera pellicola.
MOVIEQUOTE
Hai fatto molta strada. Sono orgoglioso di te.