Joy (2015)

Joy, una ragazza madre con un divorzio alle spalle ed una famiglia turbolenta, cerca di uscire dal giogo di una vita anonima e di pura sopravvivenza grazie agli incoraggiamenti della nonna e alla sua capacità di inventare cose. Ma, nonostante l’invenzione di un mocio auto-strizzante si riveli valida, le difficoltà non saranno finite…

Non ho mai amato il cinema di David O. Russell, che ho sempre trovato un buon “artigiano” completamente carente di un certo guizzo in più: The Fighter era un film sul pugilato qualsiasi, con piccole buone trovate qua e là; Il Lato Positivo una valida commedia romantica tra due “squilibrati”, che mi ha convinto maggiormente solo perché appartenente al mio genere preferito in assoluto; American Hustle un esercizione di stile ben fatto, ma completamente fine a sé stesso.

C’era qualcosa, tuttavia, di questo nuovo Joy che mi lasciava particolarmente ben sperare. Penso sia un mio problema con i trailer dei film: spesso mi danno l’idea di qualcosa di estremamente diverso da quello che poi, in effetti, si rivela essere la realtà dei fatti. Nello specifico l’anteprima dell’ultima fatica di David O. Russell mi dava l’idea di un grande affresco familiare plurigenerazionale, una vicenda ambientata in diverse epoche che mettesse in campo tantissimi personaggi con i loro difetti e i loro pregi: una sorta di grande “romanzo” neorealista in chiave moderna, qualcosa alla Novecento di Bertolucci.

Invece Joy non è niente di tutto ciò. Non saprei nemmeno bene come definirlo: penso che stia qui il suo più grande, fatale difetto.

La pellicola inizia come una commedia, un film che vada a gettare una luce più leggera ed ironica su vicende effettivamente drammatiche come quelle di una ragazza madre che non riesce più a sbarcare il lunario. Al momento del turning point, tuttavia, le cose iniziano a farsi molto diverse: da quando Joy crea il mocio e cerca di venderlo, ecco che improvvisamente O.Russell decide che il tempo dei sorrisi è finito, e bisogna piangere e commuoversi ad ogni difficoltà e successo della nostra eroina. Il tutto è costantemente attraversato da un sentimentalismo al limite della melassa, incarnato soprattutto dalla voce narrante/personaggio della nonna (una sacrificata Diane Ladd) che sente il dovere di ripeterci ogni tre per due come “la vita sia stata difficile con Joy, ma lei ce la farà perché inventava cose magnifiche”.

Questo ultimo punto mi permette di portare la mia analisi su un altra caratteristica del film che non so davvero come considerare: gli “spiegoni”. Cosa intendo? Intendo tutti quei momenti quando uno dei personaggi deve sottolineare con le parole l’evidente stato d’animo della nostra protagonista: un momento simile, ad esempio, è quando Joy si trova davanti alla dichiarazione di fallimento e il buon De Niro sottolinea ad un altro dei personaggi “adesso si sente delusa e affranta”: un altro è quando Bradley Cooper dice alla ricca magnate Joy la frase che ho selezionato come MOVIEQUOTE “Hai fatto molta strada. Sono orgoglioso di te” – come se non ce ne fossimo già accorti da tutto quello che c’è stato prima (o dalle spiegazioni della voce narrante, insistente e martellante). Al momento non me ne vengono in mente altri, ma giuro di averne contati almeno 5 durante l’intera proiezione.

Mi è venuto da pensare che questo film volesse essere un omaggio ad un certo Cinema, quello un po’ più diretto e semplice (“americano”) dei registi di un tempo, modello Frank Capra – che a volte, indubbiamente, si abbandonavano a sentimentalismi e spiegoni. Però ci sono ben due impedimenti a questa chiave di lettura: intanto i suddetti film avevano spesso un’ottima analisi dell’interiorità dei personaggi, cosa che qui avviene solo con la protagonista – i restanti “characters” del film sono letteralmente abbandonati a loro stessi in una serie di macchiette monodimensionali e insignificanti; poi non sono sicuro che fare un film “vecchio stampo” sia un valido omaggio al Cinema che fu – semmai sarebbe bene fare come The Artist, e usare il “vecchio” in maniera moderna.

Il film in sé non è neanche male: storia di riscatto e realizzazione di sé contro tutto e tutti, un’incarnazione minore del sogno americano. La storia fila liscia senza intoppi né sussulti, senza errori grossolani nella gestione della vicenda (eccezion fatta per un finale improvvisamente velocissimo, dove Joy risolve tutti i suoi problemi insormontabili in 5 nanosecondi), riuscendo anche ad emozionare in alcuni momenti (soprattutto per merito della solita Jennifer Lawrence, che porta sulle sue spalle l’intera pellicola e ci regala almeno un valido momento nella sequenza della prima televendita). Però alla fine Joy è un film del quale non si sente il bisogno (non lo sente neppure il regista/sceneggiatore), con tante banalità e tante ingenuità (forse volute, comunque non condivisibili), che riesce solo a regalarci una visione polverosa e trita tanto quanto la soap opera sulla quale si apre l’intera pellicola.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Hai fatto molta strada. Sono orgoglioso di te.

Classifica Stagionale 2014/2015: Il Fondo Del Barile + La Panca

E così anche quest’anno è arrivata la personalissima, opinabilissima, Levissima Classifica Stagionale del Cinemalato! Come dovreste ormai sapere, i film presi in considerazione non si riferiscono all’anno di produzione, quanto a quello di distribuzione nelle sale italiane: a contendersi i posti in classifica saranno dunque tutte le pellicole uscite nel periodo compreso fra l’1 Agosto 2014 ed il 31 Luglio 2015 che il sottoscritto è riuscito a visionare.

Genericamente, 5 sono le sezioni di cui si compone la classifica: ecco un rapido recap, per quelli di voi che non rimembrano.

Si parte con “Il Fondo Del Barile”, ovvero tutti i film che non hanno raggiunto la sufficienza nella valutazione (da 2/5 in giù); si prosegue con “La Panca”, ovvero quelle pellicole che hanno raggiunto almeno la sufficienza (2,5/5), ma non hanno preso abbastanza da entrare in TOP20; si passa poi alla TOP20 vera e propria, suddivisa in “Parte Bassa (20-11)“, “Parte Alta (10-4)“,  ed infine “Il Podio (3-1)“.

Tuttavia, questa Stagione è stata tanto povera di titoli interessanti, che il vostro affezionato critico amatoriale è riuscito a visionare solo 28 pellicole. Dunque ci sarà una piccola modifica: il primo appuntamento non sarà quello canonico (ovvero quello con i flop, le grosse delusioni, gli orrori), ma vedrà una compressione di “Fondo Del Barile” e “Panca”. Questo per un semplice motivo: eliminando i titoli della top20, sarebbero rimasti fuori solo 8 titoli; di questi, ben 6 facevano parte del “Fondo”, dunque la “Panca” avrebbe previsto la suprema quantità di 2 pellicole, e mi sembrerebbe di sprecare un post per un gruppo così poco numeroso.

Ad ogni modo, la regola suprema rimane intatta: come tutti gli anni, “Il Fondo Del Barile” e “La Panca” saranno elencati in ordine alfabetico, e non classificati (potrete comunque distinguere tra i due gruppi: i titoli del “Fondo” hanno il nome del regista colorati di grigio, quelli della “Panca” in violetto) ma semplicemente per ordine alfabetico. Cliccando sul titolo potrete leggere la recensione relativa alla pellicola, quando disponibile.

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American Sniper, di Clint Eastwood (2014)

Il buon Clint prosegue imperterrito nel suo cammino discendente. Lo so che ad una leggenda come Eastwood, un calo alla veneranda età di 85 anni lo si dovrebbe anche concedere: ma quando penso ai filmoni girati in passato da quest’uomo, alla sue trame tanto solide quanto emozionanti, ai suoi personaggi scritti e scavati nel marmo, alla sua sapiente e classica regia, mi si forma un discreto groppo in gola al vederlo realizzare filmetti di semolino riscaldato, animati da personaggi macchietta (J.Edgar/Invictus) o impossibili da penetrare/empatizzare (Sniper, per l’appunto). Speriamo nel miracolo, o nel ritiro.

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Annabelle, di John R. Leonetti (2014)

Tra i primi film visti questa Stagione, Annabelle avrà anche dalla sua i produttori de L’Evocazione, ma manca totalmente l’intelligenza, la raffinatezza, l’efficacia horror di quello che dovrebbe essere il suo predecessore (del quale, al contrario, si è impossessato esclusivamente per quanto riguarda il personaggio della bambola, rendendola uno stupidissimo canale d’ingresso per presenze demoniache). “Anabellamerda”, com’è stato definito da qualcuno – con molta più efficacia ed intelligenza del film stesso, probabilmente il peggiore visto in questa Stagione.

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Big Eyes, di Tim Burton (2014)

A proposito di registi in picchiata totale, Tim Burton non fa – ahimè – eccezione. Certo, Big Eyes è già superiore ad Alice In Wonderland e Dark Shadow, ma non è che ci volesse poi molto: e se alcuni spunti potrebbero anche essere interessanti, l’atmosfera realistica, la trama a tratti affrettata e i personaggi macchietta rovinano ogni potenziale. Lana Del Rey, se non altro, ci regala un’altra bella canzone con la title-track della OST: magra consolazione.

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The Giver – Il Mondo Di Jonas, di Phillip Noyce (2014)

The Giver – Il Mondo Di Jonas vince a mani basse il premio di “film peggio strutturato dell’anno”. Partendo da un interessante spunto di base, gli sceneggiatori sputtanano ogni potenziale del suddetto spunto, limitandosi a stiracchiarlo: il risultato è un film con buchi di trama pazzeschi, forzature micidiali e frettolosità immotivata. Che, combinato con le visioni-lezioni di Jonas (il trionfo del perbenismo e del radical-chic in HD, con Nelson Mandela che si alterna a tigri del Bengala come se non ci fosse un domani ad indicarci le bellezze del mondo), rende il tutto un discreto flop.

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Jupiter – Il Destino Dell’Universo , di Andy & Lana Wachowski (2015)

Già il Matrix numero 2, all’epoca, mi aveva mostrato un gigantesco passo indietro rispetto all’ormai cult capostipite, ma i fratelli Andy & Lana fanno anche di peggio: Jupiter è imbarazzante, da tanto è scritto con noncuranza, superficialità e confusione. La protagonista non ha una personalità chiara nè un obiettivo definito; la sua relazione con il lupacchiotto-Channing Tatum imbarazzante (e perchè mal sviluppata, e perchè ormai qualsiasi lupacchiotto mannaro mi rimembra Twilight); e la successione delle vicende e dei cattivi è ben poco felice (basti vedere la pateticamente facile risoluzione della seconda battaglia, poco prima del matrimonio di Jupiter). Insomma, un pastrocchio scritto con i piedi, a cui non basta l’impianto tecnico e il buon cast per redimersi.

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Mia Madre, di Nanni Moretti (2015)

Il buon Nanni nazionale, come altri registi già citati, prosegue il suo declino: dopo Habemus Papam, un’altra pellicola francamente evitabile. Là dove il film con Piccoli aveva un’idea originale male impegnata (soprattutto nel finale), qua abbiamo un’idea di fondo banalissima che a tratti rende (soprattutto grazie alla straordinaria Nonna di Giulia Lazzarini), a lunghissimi tratti annoia o lascia perplessi (il personaggio di Nanni Moretti fa davvero fatica a farsi apprezzare nell’economia del film).

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Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere, di Frank Miller & Robert Rodriguez (2014)

Là dove il prequel del 2005 aveva una certa originalità visiva, accompagnata da una trama che (almeno per 2/3) possedeva un’ottima struttura e dei grandiosi personaggi da insta-cult, Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere arriva dopo 9 anni a rovinare gran parte del ricordo legato all’originale. La tamarraggine insensata dell’ultimo episodio dell’originale diviene qui la chiave dominante, relegando la classe noir di “Bastardo Giallo” e la brutalità splatter dello scontro tra Kevin e Marv nell’angolo: fatto sta che l’orgia di poppe, erotismo e labbra infuocate non basta a creare una valida spina dorsale per le tre storie del film, che risulta stupido e di “serie B” (nella peggiore accezione possibile del termine).

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Vizio Di Forma, di  Paul Thomas Anderson (2014)

Paul Thomas Anderson ci regala l’ennesimo film dalle alte velleità e dalla scarsa realizzazione: trama inesistente, personaggi macchietta, condite da un’ottima regia che crea belle atmosfere noir. Che il romanzo alla base sia confusionario non mi interessa: è dovere del regista fare un briciolo di chiarezza, e se la trama del romanzo è davvero così stupida ed inconsistente (sesso e droga a fiumi senza una motivazione, senza che un personaggio o uno snodo della trama siano davvero approfonditi/interessanti) non c’è bisogno di mantenersi fedele al cartaceo. Ma più probabilmente è il solito problema che si frappone fra me il buon PTA: apprezzo le sue atmosfere e le sue “visioni”, molto meno apprezzo le sue vicende/personaggi/momenti da radical-chic snob e intellettualoide.

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Sin City (2005) Vs Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere (2014)

LO SCONTRO

Da molto, troppo tempo (ben un anno e passa), mancavano i “Vs.” del Cinemalato: l’uscita dell’episodio numero 2 del cinefumetto più cult di sempre mi permette di rispolverare questa categoria, finita un po’ nel dimenticatoio. Che lo scontro abbia inizio!

Quando Sin City uscì al cinema nel lontano 2005 io non lo vidi. Rappresentava una discreta novità, comunque, dal momento che si trattava di una sorta di “cine-comic”, vero e proprio “trasporto” – non trasposizione – di un fumetto (con tutte le sue atmosfere e “regole”) su pellicola. E a prescindere da questo suo merito, la qualità della pellicola era notevole (per quanto gli influssi tarantiniani, particolarmente Kill Bill, si facessero sentire). Ovviamente non tanto per merito dei personaggi/episodi rimasti più impressi nella memoria pubblica (ovvero il massacro della città vecchia con Clive Owen e Rosario Dawson, la “letale piccola Miho”, eccetera), quanto per il meraviglioso duetto Willis/Hartigan-Alba/Nancy sulle fumose note di un noir vecchio stampo, condito con una vitale modernità di stampo fumettoso e quel “bastardo giallo” così putrido e perfetto come cattivone di turno. Perchè il problema grosso di Sin City, l’unico vero problema, era quell’equilibrio instabile fra splatter e tamarro – fra eleganza e abuso nell’utilizzo di effettoni speciali, sangue, colore… -, che non sempre riusciva a mantenere.

Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere è invece uscito in un periodo ben diverso, mancando ormai di possedere quell’inedita forza aggiuntiva dell’originale (impossibile, dopo l’uscita di numerosi film del genere come il sopravvalutatissimo 300). Ma non è questo che conta, alla fine dei conti: vale molto di più l’approccio, totalmente diverso, che ho riscontrato e che rende la pellicola immensamente inferiore all’originale.

Qua la componente tamarra è diventata sovrana, si cerca solo e soltanto il sangue facile, l’uccisione spettacolare, la frase ad effetto, e lo si fa premendo esageratamente sul pulsante dell’irreale. Il bestione interpretato da Mickey Rourke (Marv) non era un sottospecie di robot invincibile nel primo Sin City, ad esempio: il suo scontro con Elijah Wood/Kevin aveva un che di sovrannaturale, eppure (senza eccessi di sangue, con una “sconfitta” a testa nel corso di due scontri) era ancora perfettamente credibile – esattamente quel genere di atmosfera “in precario equilibrio” di cui parlavo prima. Qua Marv mena le mani in maniera inarrestabile, schiva proiettili come neanche un pokemon che avesse usato doppioteam 6 volte, e sembra solo un bestione senza cervello – non quel rude e rissoso macellaio-gentiluomo che emergeva dal rapporto con Goldie nel primo film.

La tamarraggine, tuttavia, è fortemente collegata con l’elemento femminile. Parliamoci chiaro. Rosario Dawson che spara a manetta con un mitra roteando la lingua come una spiritata è figa, ma non cinematograficamente parlando: è figa perché la si tromberebbe molto volentieri. La presenza di donne killer nell’episodio di Clive Owen è forse il motivo principe per cui tale episodio sia il peggiore del primo Sin City: la pellicola del 2005 era “maschia”, ovvero l’azione era affidata all’uomo e la donna serviva come motore, come principessa indifesa – non c’era nulla di sessista in questo, era solo la formula adottata, e funzionava alla grande. Nel terzo episodio del primo film, le parti si invertivano, e il tutto assumeva proporzioni di tamarraggine e ridicolezza assolute. In Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere, in perfetto contrasto con il titolo, sono le donne a farla da padrona: ma Rosario Dawson è sempre tamarra, Eva Green un personaggio assolutamente scontato (per quanto più figa che mai), e Nancy-killer-dalla-mira-perfetta semplicemente non funziona (dov’è finito l’angelo biondo, indifeso simbolo di purezza che l’enorme Hartigan di Bruce Willis voleva preservare dal contagio con la corruzione di Sin City, incarnata dal bastardo giallo di Nick Stahl?).

IL VERDETTO

Solo in un piccolo episodio, uno solo, Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere si redime: guarda caso, l’episodio dove la donna torna di nuovo ad essere solo il motore dell’azione – guarda caso, l’episodio senza lieto fine (stesso caso del “Bastardo Giallo”). Uno statuario Gordon-Levitt ci porta a vivere il suo dramma personale, un dramma familiare crudelissimo con una risoluzione magnifica, ricordandoci cos’è Sin City: il luogo del peccato, dell’immondizia dell’anima, della vergogna morale eretta a statuario monito di grandezza per le generazioni future. E come Hartigan/Willis, Gordon-Levitt/ Johnny combatte la sua piccola (seppur parzialmente vana) crociata contro questo male assoluto, donando un barlume di sincera commozione allo spettatore così come un segno di speranza: purtroppo per lui, non c’è nessuna speranza che Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere batta il predecessore, molto più equilibrato e moderato nei toni, con personaggi e vicende di spessore palesemente maggiore, con una valenza estetica inedita e ben sfruttata (per quasi tutta la pellicola). E così si conclude questo primo “scontro”, dopo tempo immemore.

“LOCANDIMETRO”

IL VINCITORE

Duel (1971)

E se mentre state tranquillamente percorrendo l’A11 Firenze-Mare, canticchiando le canzoni che passano all’autoradio, un’enorme auto-cisterna vi iniziasse a tallonare? Nessun problema, basta farla passare; ecco che l’auto-cisterna vi supera, vi si piazza davanti, e improvvisamente rallenta, costringendovi ad una brusca riduzione di velocità. Basta superarla di nuovo? E se questa iniziasse ad ostacolarvi il passaggio? Certo è difficile (e sarebbe poco realistico) assistere ad uno spettacolo del genere sulle nostrane autostrade, se non in casi eccezionali. Ma sulle lunghissime strade extraurbane che attraversano gli USA un lungo e sfiancante inseguimento è decisamente più plasubile; ecco infatti che il nostro protagonista (Dennis Weaver), in viaggio per semplici motivi di lavoro, si ritrova ad affrontare il suo personale inferno automobilistico.

Parlare degli attori (uno solo è davvero inseribile in questa categoria, visto che tutti gli altri sono limitati dal copione al ruolo di semplici comparse), della musica, di quasi tutto l’impianto tecnico (escluso il magnifico e frentico montaggio, opera di Frank Morriss) è inutile; questo è IL film di Spielberg.

Duel è un thriller d’azione angosciante. Gli ambienti sono: una macchina (una Plymouth Valiant), due stazioni di benzina, un caffè e gli sconfinati paesaggi che accompagnano lo scorrere della strada. La quantità di parole è dialoghi è tanto ridotto che copre (forse) solo il 20% della pellicola. E allora come si può creare la tensione, senza un luogo inquietante, senza personaggi deliranti e senza dialoghi da pelle d’oca?

Con inquadrature spericolate e cambi repentini nella sequenza visiva, ecco che ci si ritrova catapultati in una situazione di panico delirante senza precedenti. Il venticinquenne (sì, avete capito bene; 25 anni!) Spielberg, alla sua seconda prova in un lungometraggio (per modo di dire, visto che il suo primo lungo era stato visto da sole 500 persone ed aveva fruttato la bellezza di 1$ al sedicenne aspirante regista), manovra la macchina da presa con un’abilità ed una perizia degne di un veterano. La tensione si percepisce fin dal primo sorpasso; in apparenza innocuo, è già permeato di tutta la follia che caratterizzerà la vicenda.

Geniale e rinfrescante la scena al caffè. Il furbo Spielberg (aiutato senza dubbio dallo sceneggiatore, nonchè autore del libro che sta alla base della pellicola, Richard Matheson) intuisce che girare novanta e passa minuti di film esclusivamente basati su di un inseguimento può risultare monotono; questo non sarebbe comunque vero, visto la continue trovate geniali che animano le situazioni di cui tale inseguimento è composto, ma è indubbio che questo momento di gelida staticità contribuisce ad alzare il livello in quanto ad originalità.

Il nostro povero protagonista ha intuito che c’è qualcosa che non quadra; l’auto-cisterna ha preso ad inseguirlo, e l’ha lievemente urtato ripetute volte. Con una frenata all’ultimo secondo riesce a fermare l’auto, schiantando una recinzione lignea, e l’auto-cisterna prosegue il suo cammino, strombazzando roboantemente. L’uomo, sudato e con il cuore a mille, si va a rinfrescare nel bagno del suddetto caffè, sollevato dal fatto di essersi liberato dell’ingombrante problema; ed ecco che quando esce dal wc, fuori dalla finestra, l’auto-cisterna si è rimaterializzata, gigantesco incubo rugginoso che lo aspetta per divorarlo. Ed ecco i mille dubbi che attanagliano il nostro protagonista, resi in maniera efficace (per quanto accademica) da una Voice Over (le sue riflessioni mentali) e soffocanti inquadrature del suo sguardo teso; ha infatti visto solo gli stivaletti del conducente del pachiderma rugginoso, ma tutti i presenti nel locale sembrano portare calzature riconducibili a quel modello.

Ma sarà inutile ricercare il proprietario dell’auto-cisterna; non è lui il suo avversario, è il veicolo stesso ad incarnarlo. L’uomo contro la macchina, il cervello contro i muscoli, la rapidità contro la pazienza, la perfettibilità contro l’inevitabile acciaio. E’ d’obbligo pensare alla metafora in certi casi, ma è altrettanto d’obbligo (soprattutto per la parte finale o quella del caffè) rifarsi anche al cinema western, di cui il sottoscritto non è certo un conoscitore profondo, ma che si materializza sotto gli occhi dello spettatore in un nuova veste; il caffè come il saloon, la macchina come il bandito imbattibile, l’uomo come lo sceriffo che solo alla fine si risolverà ad affrontare l’ inevitabile duello.

Per concludere cos’altro si può dire, se non che Duel rappresenta forse la prova più evidente della straordinaria bravura di Steven Spielberg con la macchina da presa, oltre al fatto che (una volta di più) permette di apprezzare anche lo straordinario eclettismo del suo autore, capace di passare dal film d’azione a quello di guerra e dal drammatico al fantasy senza (quasi) mai sbagliare colpo? Niente: per fare di più si può solo applaudire questo capolavoro di potenza registica, che dimostra come talvolta il solo livello visivo possa coinvolgere molto più di mille parole.

VOTO: 5/5

MOVIEQUOTE

LEGENDA VOTI

5/5=10  4,5/5=9  4/5= 8  3,5/5=7,5  3/5=7  2,5/5=6  2/5=5  1,5/5=4  1/5=3  0,5/5=2  0/5=0