A Casa Tutti Bene (2018)

Pietro e Alba, una coppia che sta per festeggiare i cinquant’anni di matrimonio, invitano sull’isola dove abitano tutta la loro famiglia dispersa per il Mondo: la giornata procede bene, ma quando i traghetti per il ritorno vengono sospesi a causa del maltempo e i parenti sono costretti ad una convivenza forzata, i rapporti iniziano a scricchiolare…

Ah, Gabriele Muccino. Scorsa Stagione l’ho incontrato sul mio cammino con il suo L’Estate Addosso, per il quale ho addirittura creato la prima “recensione-Live” della storia del mio blog. Fu un discreto momento di Trash, devo ammetterlo: nonostante ci fosse un minimo di trama, e il finale più un paio di scene avessero anche una certa valenza drammatica, la stragrande maggioranza della pellicola scorreva pugnalata a sangue da scelte narrativo-registico-attoriali incomprensibili.

Avevo dunque già capito (come, del resto, molti) che il nostro si era completamente bollito, arrivando dai suoi primi film decenti (L’Ultimo Bacio, Ricordati Di Me) a vere e proprie gemme di Trash involontario camuffate da film brutti d’autore confuso. Ma niente poteva preparami a questo.

2018, e Muccino tira fuori dal cilindro A Casa Tutti Bene. Che cos’è questo film? Vediamo di analizzarlo con la maggior freddezza possibile (operazione tutt’altro che semplice).

La partenza è bolsa e noiosa, ma già vibra qualcosa: se l’inizio de L’Estate Addosso era “”sensato”” e slabbrato da esagerazioni, qui si percepisce una tensione sotterranea che crea un certo disagio. Mi spiego: i due coniugi invitano l’intera famiglia sull’isola, e sarà proprio a causa di questo e del maltempo che tutti saranno costretti alla convivenza e la trama potrà aver luogo. Ora, ci sono già almeno un paio di dati che mi fanno rabbrividire: 1) Esistono le previsioni del tempo: se ti accorgi che il mare sarà mosso in quei giorni, che li fai venire a fare i tuoi parenti (per i quali, in caso di emergenza, nemmeno hai sufficienti posti letto)?; 2) Perché mai persone che si odiano profondamente tra di loro decidono di riunirsi tutte quante senza nessun problema? Per alcuni viene fornita una motivazione, ma gli altri proprio non si capisce che ci stiano a fare. Parlo da borghese quale sono, e vi assicuro che i borghesi non fingono così tanto: se non si trovano con alcuni parenti, difficilmente accettano simili reunion.

Ma al netto di ciò, fin da subito si capisce che sarà tutto uno spiegone o un’ovvietà: dall’annuncio che Sandro/Ghini ha l’alzheimer (“Pensa che sia ancora sposata con Carlo”, “No, non lo sai? Ha l’alzheimer”, “Ah, mi dispiace” – sembra che sia rotto una gamba, stessa gravità), all’incrociarsi di sguardi e allo scambiarsi di romaticherie nostalgico-sceme in rigoroso affanno espiratorio di Paolo/Accorsi e Isabella/Cucci (costei va immediatamente a piazzarsi nel novero delle Cagnae Maximae di tutta la storia del Cinema, geniale nel suo buttar fuori 90 ettolitri d’aria dopo la vocale finale di ogni sua battuta), il film sembra un carosello di schemi e stereotipi esagerati, marchiati da una certa presunzione autoriale di commedia/dramma all’italiana.

Quando poi il gruppo viene costretto sull’isola, Muccino spinge incommensurabilmente sul pedale del Trash: anzitutto, si creano frammenti clamorosi di non-sense ridondante (i parenti cantano canzoni vetustissime al pianoforte, per sin troppi secondi e troppi momenti; Sara/Impacciatore canta/stona A te di Jovanotti a voce altissima, di notte, all’interno di una pensione dove si suppone ci siano un sacco di persone che stanno dormendo, e ce le fanno vedere per almeno 30-40 secondi; in 20 secondi di pellicola, si inquadrano 7-8 personaggi diversi che ripetono tutti “Andiamo a cena”, o la variante “Andiamo a cena?”); ma, soprattutto, il nostro decide di creare una sottospecie di piano-sequenza infarcito di urla ed isteria casuale, scatenato nientepopodimeno dal fatto che Ginevra/Crescentini osa dire “questi giovani d’oggi sono un po’ rincoglioniti” perché la figlia sedicenne del suo neo-marito Carlo/Favino c’ha il migliore amico da due anni e non ci ha mai fatto sesso (devo dire che è una delle poche osservazioni sensate dell’intera pellicola), il quale culmina in un tentativo di omicidio goffissimo e maldestro al grido di “Hai rotto il cazzo”.

Tutti i personaggi contribuiscono significativamente a creare questo abnorme melting-pot di Trash: Maria/Milo parla come un robot gallina e ha un momento di depressione casuale quando si rende conto che due dei suoi fratelli sono morti; Sandro/Ghini, essendo malato di Alzheimer, viene utilizzato per creare momenti comici rivoluzionari nei quali (pensate!) prende fischi per fiaschi; Arianna/Falco appare cinque secondi, e ci ricorda tutte le qualità che in 1992 l’hanno resa famosa; Pietro/Marescotti appare circa tre minuti in tutto il film (è il padre, una figura secondarissima proprio) per dire solo “cazzo”, ” o la clamorosa “a me la famiglia sta pure sul cazzo”; Luana/Michelini e Riccardo/Tognazzi avrebbero forse una loro dignità, ma lo scatto di nervi random ed esageratissimo di lei sul finale e le barzellette sconcio-Berlusconiane di lui li rimettono subito al pari degli altri; Alba/Sandrelli ha il suo momento di gloria come fil rouge del piano-sequenza Trash (durante il quale interagisce un po’ con tutti e un po’ con nessuno, al grido di “ma che succede?”, “ma perché urlate tutti?”, “non fare così” e un paio di piantini random), per poi ritrovarsi solamente nella scena con la figlia Sara, alla quale rivela un segreto-stereotipo femminile che Ventennio Fascista levati (“noi donne siamo nate per sopportare: tuo padre mi tradiva, ma poi tornava da me”) per concludere con  un meraviglioso “non bere troppo” (mentre la figlia tracanna un calice di rosso impugnandolo come una cazzuola).

I veri capolavori, tuttavia, nonché i momenti più elevati del melting-pot, sono quelli rappresentati dalle coppie: Ginevra/Crescentini sospetta che qualunque cosa il marito Carlo/Favino faccia sia finalizzata ad abbandonarla (e ho già detto del tentato omicidio), quindi urla come un’isterica ad ogni passo del marito che non sia all’interno di un cerchio di raggio 30cm da lei; Beatrice/Gerini è talmente esasperata dall’alzheimer di Sandro/Ghini da tramutarsi in un frullatore con gli occhi spippati, che ripete ossessivamente “non ce la faccio più!”; e, apoteosi delle apoteosi, la palese infatuazione (che ci si era rivelata fin dal primo nanosecondo di pellicola) tra Paolo/Accorsi e Isabella/Cucci evolve in una sequenza surreale, dove i due prima si baciano come adolescenti scemi (lei, addirittura, fa finta resistenza, tirandogli uno schiaffo e dicendogli “tu sei pericoloso” – per poi emettere i famosi 90 ettolitri d’aria), poi si infrattano in una nave ancorata nel porto al grido di “questa ti porta sull’isola che non c’è” e “signorsì, capitano!” (l’abbiamo capito che i due sono sognatori, secondo voi?), poi scopano mentre si dicono frasi prese dalle foto di culi di Tumblr o Instagram – il tutto per ritrovarsi divisi a causa del fatto che la figlia di lei li scopre, e inizia pestare i piedi, urlare e sentirsi oltraggiata dall’idea che la madre abbia l’amante.

Ma il momento in cui ho capito, finalmente, con nuovi occhi e nuova predisposizione mentale, la vera direzione in cui Gabriele Muccino si è lanciato, è stato il finale. Quando i parenti se ne vanno, finalmente, dall’isola, c’è un nuovo shock: la vicenda si fa super-seria, drammatica, riflessiva. Anticipata dalle uniche due scene decenti della pellicola (quella tra Ghini e la Solarino sulla fede perduta, e quella tra Favino e la Solarino sul loro rapporto ormai concluso – scene che fanno di Elettra/Solarino il miglior personaggio dell’intera storia, ma di leghe proprio), la svolta è tuttavia sconvolgente: mentre Luana e Riccardo se ne vanno alla chetichella, la storia d’amore dei sognatori sembra avere una battuta d’arresto, Carlo e Ginevra paiono ai ferri cortissimi, Sara sembra aver accettato il fatto di dover ingoiare rospi tutta la vita perché Diego le mette le corna a ripetizione, e Sandro ha detto a Beatrice di metterlo in una casa di cura.

Ed ecco, improvvisa, la zampata dell’Autore: la storia d’amore dei sognatori si ripristina grazie al bellissimo dialogo “Allora ci sentiamo, sempre se ti va”, “A me va tantissimo, Isabella!”, per culminare in un “anche se non ti conosco, sento già che ti amo” inviato per messaggio (ricordiamolo: questi sono due quarantenni, non due quattordicenni in preda agli ormoni); Ginevra, dopo aver temuto di essere abbandonata per tutto il film da Carlo, rivela dal nulla che sono mesi che gli fa le corna e che chiederà il divorzio; Sara dice a Diego (che sta per andare a Parigi dall’amante) che andrà con lui a Parigi, praticamente a rovinargli la festa; Sandro si scorda di aver detto a Beatrice di metterlo in casa di cura, e i due si baciano. Ogni possibile profondità di sguardo è annullata, o meglio: è completamente ri-direzionata verso un’ottica di assoluto e cacofonico non-finito finto-surrealista pseudo-realistico.

Ecco, dunque, che cosa sta facendo davvero Gabriele Muccino, signori: non si è bollito come tutti credevamo, no, bensì sta cercando di portare una ventata autoriale nel Trash cinematografico del nostro Belpaese. È una nuova direzione, insomma: e per chi, come me, adora il genere, questa non può che essere una grandiosa notizia.

“LOCANDIMETRO”

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Signorsì, capitano!

L’Ora Più Buia (2017)

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1940. La Germania nazista sta invadendo l’Europa ad una velocità sovrumana, le potenze del continente si arrendono una dietro l’altra. Il primo ministro inglese, Neville Chamberlain, è costretto a dimettersi da pressioni interne al parlamento: come suo successore viene indicato Winston Churchill, un uomo che accontenta sia la maggioranza che l’opposizione, ma anche uno strambo e poco abile stratega fissato con la guerra. Ma quando i tedeschi accerchiano le truppe britanniche in terra francese, il nuovo primo ministro si trova a dover affrontare un’onerosissima scelta.

L’Ora Più Buia è il film biopic della Stagione, l’acchiappa-Oscar con cui ci troviamo a che fare quest’anno: storia realmente accaduta, personaggio realmente accaduto, personaggio britannico, personaggio pieno di tic e difetti, guerra, un pizzico di razzismo/anti-semitismo e il gioco è fatto. Solitamente film del genere mi annoiano da pazzi, anche qualora li trovi ben realizzati (un esempio su tutti è Il Discorso Del Re dal lontano 2011, peraltro incentrato sullo stesso momento storico).

In questo specifico caso, tuttavia, nutrivo ben più di una speranza di assistere ad una pellicola diversa: in primis, perché l’attore protagonista è quel talento sottovalutatissimo di Gary Oldman, che a quanto pare riuscirà finalmente a portarsi a casa l’ambita statuetta (alla sua seconda nomination, pazzesco per quanti ruoli sia stato ignorato dall’Accademy); in secondo luogo, perché il regista del film è nientepopodimeno che Joe Wright, un signore che mi aveva già mostrato un controllo formale di eleganza molto aristocratica (Espiazione, con un meraviglioso piano-sequenza centrale proprio legato allo sfollamento di Dunkerque), ma anche impennate surreal-grottesche con la fiaba orrifica di Hanna (gioiellino sottovalutatissimo nella Stagione 2011/2012).

Alla fine, il risultato mi soddisfa a metà, esattamente come mi ha soddisfatto la prima metà di questo film, quando cioè assistiamo all’investitura di Churchill ed ai suoi primi, faticosi passi nel mondo della politica estera: è lì, infatti, che si concede spazio ad un po’ di sano humor britannico, che si mostrano le stramberie e le sfumature più grette della personalità di Churchill, che si costruisce la rete di rapporti fondamentale per la risoluzione finale. C’è ritmo, c’è una strana vitalità polemica, c’è una bella regia che crea ambienti ingobbiti e torvi come il suo protagonista.

Poi, purtroppo, subentrano le dinamiche “hollywoodiane” a cui la pellicola non può, per sua natura, sottrarsi, e il finale sbrodola un po’: se le scene con la segretaria e con il re sono molto convincenti anche nella loro retorica ovvietà (grazie alla rete di rapporti di cui parlavo sopra), la sequenza sulla metro è abbastanza agghiacciante, soprattutto per una certa enfasi da stadio nelle risposte dei cittadini terrorizzati dal conflitto. In generale, poi, laddove nella prima metà c’era un bell’alternarsi di dialogo e silenzio, il finale si imposta come un quadruplice monologo consecutivo (salvo la suddetta sequenza della metro, che presenta comunque un’evidente impostazione teatrale del dialogo a più voci) che rende il tutto molto teatrale e poco empatico, nonostante la vibrante performance dell’attore protagonista.

Nonostante questo, però, L’Ora Più Buia si fa forte di quella prima metà per innalzarsi (a mio avviso) al di sopra del biopic acchiappa-Oscar medio: nonostante un eccesso di retorica (per quanto previsto) sul finale e una cattiva gestione di certi personaggi (la moglie di Churchill, addirittura interpretata da Kristin Scott Thomas, risulta avere la stessa importanza della moglie di Lincoln nell’omonimo film di Spielberg, ovvero nessuna), la sua iniziale eccentricità, condita da solide performance attoriali (segnalo anche Lily James nei panni della segretaria e Ben Mendelsohn nei panni di Re Giorgio VI), non può che rimanere impressa e colpire – “Up your bum”, come recita la mia bizzarra MOVIEQUOTE.

“LOCANDIMETRO”

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Chiamami Col Tuo Nome (2017)

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Elio è un giovane diciassettenne proveniente da un’agiata famiglia di intellettuali aperti e liberali: il padre, docente di archeologia, accoglie ogni estate uno studente straniero per lavorare a tesi di dottorato. Quando, nell’estate 1983, a casa Perlman compare l’affascinante Oliver, Elio si ritroverà a scoprire il magnifico terrore del primo amore, ancor più sconvolgente perché legato a quella che (per il ragazzo) è un’anomalia.

Ci vorrebbe molto poco ad odiare il nuovo film di Luca Guadagnino: ne parla anche il sempre centratissimo Federico Gironi su quel di comingsoon, sottolineando come Chiamami col tuo nome possieda un certo snobismo intellettuale, corredato di forti richiami registici ad autori del passato nostrano (Bertolucci su tutti).

È proprio il taglio bertolucciano della prima ora e mezzo ad avermi fortemente perplesso: Guadaganino si prende i suoi tempi per raccontarci l’ambiente in cui la vicenda si muove, nonché il crogiolo di sentimenti da cui si originerà la bruciante supernova dei due giovani amanti. Il problema è che questi tempi se li prende anche troppo: la pellicola si muove, compiaciuta, tra ammiccamenti agli anni ’80 (la colonna sonora italiana, Craxi, Beppe Grillo) e disquisizioni intellettuali un po’ casuali (la morte di Buñuel), nonché tra episodi isolati (il ritrovamento della statua antica) e casuali celebrazioni della vita contadina (un paio – di numero  – di rapidissimi passaggi legati ad un vecchio pescatore e una contadina nostalgica del ventennio che sgrana piselli).

In tutto questo, poi, Elio e Oliver si muovono in una stranissima molla di attrito-riconciliazione, che non sembra davvero avere una motivazione se non il fatto che il ragazzino tenda ad essere strafottente per l’età (ma, essendoci stato presentato come diciassettenne maturo e sensibile, la motivazione non quadra): e quando, dopo un’ora e mezzo, Elio scopre le gioie del sesso con l’amica Marzia, e Oliver ne rifiuta le avances, ti chiedi dove mai si potrà andare a parare.

Poi, però, succede l’imprevisto: il film carbura. Da quando i due giovani si decidono, finalmente, a superare ogni indecisione (questo, in particolare, vale per Oliver), la tensione romantico-sessuale che ne agita i corpi non può, genuinamente, non commuovere. Quest’intesa di anime fragili, che si sono spaventosamente trovate all’interno di un mondo che non le comprende, è recitata ottimamente dai due interpreti (Timothée Chalamet e Armie Hammer), magnificamente orchestrata a livello visivo nei momenti di più pura e tesa intimità, e supera qualsivoglia limite di orientamento sessuale per farti rivivere le gioie e i dolori di quelle prime, indelebili pulsioni.

E, nonostante un paio di momenti assolutamente orrendi (la scena della masturbazione con la pesca su Radio Varsavia di Battiato, di cui ho perfettamente capito le intenzioni, ma che risulta assolutamente Trash in maniera involontaria; il “sogno” di Elio sul finale, ovvero un paio di fotogrammi ritoccati con un improvviso e insensato filtro negativo/arancione), Chiamami col tuo nome chiude su un finale straziante e su una perfetta quadratura dell’intera estate (nel recupero della canzone-simbolo Love My Ways dei The Psychedelic Furs, eloquente anche nel testo, che cristallizza sia l’infatuazione iniziale che l’amarissima consapevolezza della fine). Chiude bene il film di Guadagnino non tanto sul quotatissimo dialogo tra Elio e suo padre (a mio avviso troppo verboso, anche se indubbiamente commovente in un paio di passaggi), quanto nel confronto telefonico tra i due giovani amanti, carico di silenzi e consapevolezze malinconiche, fino all’ultimo, devastante scambio dei nomi come loro eterna promessa. E allora non possiamo che piangere con il giovane protagonista davanti a quel fuoco nel camino, che scalda sì la stanza ma non riesce a restituire lo struggente calore di un’estate pervasa d’amore.

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Ella & John – The Leisure Seeker (2017)

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Ella e John sono due anziani coniugi che vivono nel Massachussets: Ella ha un tumore, mentre a John si sta piano piano consumando la memoria. Consci di avere ben poco da vivere, ormai, i due (o meglio, Ella) decidono di partire a bordo del loro “leisure seeker” per una vacanza atta a rivivere i luoghi del loro passato: meta finale, la casa di Hemingway, lo scrittore preferito di John.

Non ci volevo andare, sarò onesto, a vedere questa prima esperienza inglese del corregionale Paolo Virzì: il suo ultimo La Pazza Gioia, nonostante gli assurdi (per me) proclami di gioiellino da parte di mezzo mondo, è stato un film talmente approssimativo nella scrittura e talmente giocato su personaggi-tematiche-ambientazioni già viste e straviste nella sua filmografia (La Prima Cosa Bella, ma non solo), da togliermi molto entusiasmo riguardo alle sue opere future.

Ella & John – The Leisure Seeker, dunque, sarà probabilmente la pellicola che mi porterà al definitivo (salvo “imprevisti”) abbandono di Paolo Virzì e dei suoi sentimentalismi a buon mercato.

La storia di questa nuova opera del livornese è un concatenarsi impensabile di eventi all’insegna del road movie più scontato: questi due vecchietti, malatissimi e tardissimi nei movimenti, riescono in pochi giorni a compiere un viaggio talmente pieno di inciampi ed imprevisti, che perfino una giovane coppia di trentenni avrebbe difficoltà ad affrontare con tanta semplicità. Tra i momenti più assurdi, basti ricordare: l’assalto di due rapinatori armati di coltellaccio, che vengono scacciati dalla donna armata di fucile; il ricovero della donna in ospedale, luogo dal quale i due fuggono a caso senza che alcun tipo di sorveglianza intervenga a ricercare la terminale paziente.

Il film, poi, si perde dietro ad un sacco di episodi inutilissimi, tanto marginali e sciocchi che si potrebbero eliminare senza problemi: Ella viene abbandonata dal marito smemorato e insegue il furgone di famiglia a cavallo di una Harley-Davidson; Ella e John si perdono tra le fila di una manifestazione pro-Trump; Ella e John vanno a cercare il primissimo fidanzato di Ella in una casa di riposo (armati, peraltro, di fucile, che chiaramente nessuno tra i dipendenti si accorge essere stato infiltrato). Anche il delicato tocco della visione notturna delle diapositive si scolorisce a causa di un uso eccessivo, fino a sembrare una sciocca fissazione di due vecchietti eccentrici – vogliamo parlare, poi, dell’altra, inutilissima scena notturna, nella quale i due coniugi sono spaventati da un rumore durante la visione delle suddette diapositive, e perdono circa cinque minuti a cascare per terra e dolersi della caduta?

Sospeso tra inutilità e dabbenaggine fiabesca, il film non morde mai: non sa commuovere, non porta a nessuna importante riflessione riguardo i rapporti familiari, e getta scene drammatiche involontariamente in pasto al comico (come quella in cui Ella scopre la relazione clandestina di John con la vicina di casa – scena, invero, già debole di per sé, ma che dovrebbe rappresentare un discreto “lower point” nella vicenda). Un bel punto di riferimento per film del genere è Sul Lago Dorato, pellicola indubbiamente patinata e un po’ melensa (come molto Cinema del genere sentimentale negli anni’80), ma capace di creare personaggi molto ben sfaccettati e illuminare rapporti contrastanti (dolceamari, pieni di amore ma anche di risentimento) tra diverse generazioni di una stessa famiglia: sembra, però, che Virzì non l’abbia decisamente visionato.

Cosa rimane, dunque, di questo Ella & John – The Leisure Seeker? Indubbiamente una certa, amara riflessione sui tempi che cambiano: i due coniugi sono chiari portatori di un modo di incedere lento e pacato, di un mondo fatto di pace e quiete che viene travolto dalla trascinante salsa di un matrimonio latino-americano, di un’innata accoglienza che non sembra trovare spazio nelle generazioni più giovani. Ma tutto questo non filtrerebbe minimamente senza il vero, grande punto di forza di questo film: l’interpretazione, ottima, di Helen Mirren e (soprattutto) Donald Sutherland, capaci davvero di animare due personaggi molto piatti e carichi di potenziale melassa, e donare loro un certo spessore, una discreta umanità che ne salva le figure. Ma che fossero due attori di alto calibro, non serviva certo che ce lo ricordassero Piccolo, Archibugi, Amidon e Virzì.

“LOCANDIMETRO”

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Se pensate di farci paura, vi sbagliate, perché non abbiamo niente da perdere!

 

Tre Manifesti A Ebbing, Missouri (2017)

A Ebbing, nel Missouri, una donna ha perso la figlia adolescente in un misterioso ed efferatissimo omicidio (la ragazza è stata anche stuprata): decide dunque di affittare tre cartelli lungo una vecchia strada, per affiggere manifesti nei quali chiede spiegazioni alla polizia, sollecitandola a fare il proprio dovere. Il fatto scatenerà un’incredibile sequela di eventi.

Solitamente un film dovrebbe avere una tematica forte da raccontare, presentarci quantomeno una sua specifica morale. Tre Manifesti A Ebbing, Missouri, invece, vive più che altro di atmosfere, esattamente come un precedente del regista-sceneggiatore Martin McDonagh, In Bruges – La Coscienza Dell’Assassino (2008): lì a farla da padrona era la città di Bruges, immortalata in una macchia di umido grigio, che impregnava di malinconia esistenziale i suoi sporchi protagonisti (due assassini sicari).

Anche stavolta, seppure si tratti di un posto completamente diverso, McDonagh è riuscito a fare dei suoi personaggi un prolungamento ideale dell’ambiente in cui si muovono: tanto rustica e spoglia è l’area di Ebbing, quanto ruvidi sono i lineamenti e le movenze di questi suoi nuovi protagonisti. E, nuovamente, il regista-sceneggiatore si va ad occupare di persone la cui etica è quantomeno discutibile e alterna, riuscendo però nell’intento di farci empatizzare quanto basta per non smettere di credere alle loro vite.

Perché Mildred (una caustica Frances McDormand) non è solo una donna diretta e decisa che ha subito un terribile trauma: è anche una potenziale criminale, una che non si fa troppi problemi a lanciare molotov sulla stazione di polizia per vendicare un anonimo torto subito. Perché Jason Dixon (un bolso Sam Rockwell, echeggiante il Christian Bale di The Fighter) non è solo un bastardo ubriacone mezzo ritardato dalla personalità omofoba e razzista, ma anche un bambinone spaventato dalla vita capace di svoltare e mostrare finalmente un minimo di quella maturità che (probabilmente) è soffocata dalla convivenza con la madre. Perché lo sceriffo Willoughby (un immenso ed intenso Woody Harrelson, probabilmente il migliore dell’intero cast) non è solo un pacato uomo di provincia dalle maniera semplici e rozze, ma anche un lucidissimo e surreale poeta, capace di porre fine alla propria vita con una brutale delicatezza che ti fa commuovere anche il pancreas.

In questa galleria di personaggi quasi “bipolari”, è perfino giusto (azzardo) che ci siano scene più deboli, più stupide: è il caso dell’assurdo passaggio netto tra la delicatezza di una Chiquitita degli ABBA e la notizia devastante della morte di Willoughby, così come l’inutilità delle scene in cui sono presenti i personaggi di Lucas Hedges (il figlio di Mildred, assolutamente superfluo sotto ogni punto di vista) e di John Hawkes (l’ex-marito di Mildred, se possibile ancora meno utile del figlio). È giusto, perché l’ambiente di Ebbing è compresso tra leggerezza malinconica, aspra violenza e sardonica ironia, ma è soprattutto un luogo assolutamente marginale, dove gli stessi telegiornali sembrano avere risonanza solo all’interno dei microscopici confini cittadini.

Ma forse Tre Manifesti A Ebbing, Missouri è soprattutto un film sulla rabbia, sulla necessità di controllare le proprie iraconde pulsioni per non ritrovarsi, improvvisamente, dalla parte del torto: la frase della giovane compagna di John Hawkes (che posto in MOVIEQUOTE) sembra molto esplicita al riguardo. E allora ecco che torna, una volta di più, l’ambiente di Ebbing a chiudere su una nota ambigua il finale. Mildred e Dixon, infatti, scoprono la residenza di uno stupratore e partono per andare ad ucciderlo, ma durante il tragitto sembrano avere un ripensamento: tuttavia non interrompono la propria marcia, ma proseguono con una strana felicità chiosando “ci penseremo strada facendo”. Perché alla fine è nella loro natura, nella natura di Ebbing, essere carichi di rabbia e, forse, nessuna maturazione sarà mai sufficiente a cambiare le cose.

“LOCANDIMETRO”

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La rabbia genera solamente altra rabbia.