Nymphomaniac – Volume I (2013)

Un uomo di nome Seligman trova una donna in una notte invernale, picchiata e distesa sanguinante per terra, svenuta. Si offre di chiamare un’ambulanza e la polizia per aiutarla, ma lei rifiuta con decisione la proposta e chiede piuttosto “una tazza di tè caldo con un po’ di latte”. Seligman porta Joe (questo il nome della donna) a casa sua, e lì si fa raccontare la storia che l’ha condotta a quel brutto e violento epilogo: scoprirà così che Joe altri non è che una ninfomane, una che del sesso ha fatto la primaria ragione di vita e di esperienza sensibile.

Come già dovrebbero in parte sapere i miei lettori, la mia personale amicizia con Lars Von Trier – regista danese classe 1956 e cofondatore dell’ormai defunto Dogma – è turbolenta e non del tutto chiara nemmeno al sottoscritto. Non proprio conscio di tutta tutta la filmografia di Lars (mi mancano titoli importanti come Dancer In The Dark Dogville), posso dire che ad ora i suoi lavori mi hanno sempre coinvolto e appassionato sotto tanti aspetti, riuscendo poi però puntualmente a farmi cascare le braccia e a sciupare quell’iniziale impressione favorevole. Prendete la mia recensione di Melancholia, esemplare in questo: un film che per la prima metà mi aveva fatto gridare al capolavoro, salvo poi mutarsi in un’incomprensibile accozzaglia artistica con echi apocalittici alla Roland Emmerich di 2012. Un dualismo estremo e difficile da digerire, insomma.

Rispetto alla pellicola di cui ho detto sopra, questo primo volume di Nymphomaniac risulta estremamente più compatto, ricollegandosi quindi piuttosto ad un Le Onde Del Destino: parlo di film davvero ben diretti, sicuramente estremi e a tratti sgradevoli (ma questa, d’altronde, è la cifra stilistica del buon Lars), dove emergono spesso momenti da “fighetto” onestamente fastidiosi e impalpabili per spessore. Mi riferisco ad esempio a quelle scene tragicamente didascaliche: sinceramente vedermi spuntare davanti i numeri “3+5” quando Joe viene sbattuta da Jerome non mi aggiunge niente all’umiliazione, se non quella “fighettosità” non necessaria di cui sopra; oppure quelle – sebbene rare – terribili frasi come “facevo gli stessi movimenti di un animale in gabbia” (con tanto di immagini di leoni ingabbiati a sottolineare la banale ovvietà), et similia.

Ma in linea di massima, Nymphomaniac – Volume I è ad ora il miglior Von Trier che abbia mai visto: ed è proprio l’inedita (perlomeno per me) solidità della pellicola a farmi affermare questo. Il tema è chiaro: non tanto l’inappagabile sete di sesso della donna, quanto il degradante (soprattutto per uno pseudo-maschilista come me, e come tutti gli uomini nel loro intimo) constatare della debolezza della psiche virile – il proverbiale “l’uomo ragiona col cazzo”, qua sicuramente declinato in maniera più efficace e meno grezza. Perchè neanche la presenza di una moglie, di una famiglia (futura o presente), possono evitare l’inevitabile: quando attratto dall’esca giusta (secondo la felice metafora su cui la tesi si basa), concederà il suo “pesce” alle grinfie della cacciatrice.

Mi sembra illuminante il personaggio di Stellan Skarsgard, il soccorritore di Joe (Seligman): le mie sono solo supposizioni, ovviamente, dato che non ho visto ancora il Volume II, ma penso che l’ipotesi sia accettabile. Seligman è la conferma assoluta della verità che il film vuole rivelare. Da un lato, l’uomo non incolpa mai e poi mai la donna, ma cerca sempre di non farle credere di essere quel “pessimo essere umano”, come lei ha all’inizio della vicenda affermato. Semmai la colpa è degli uomini, oppure delle circostanze, oppure della giovane età o della stessa natura delle cose: c’è sempre una giustificazione al suo comportamento, spesso esplicata tramite interessantissimi paralleli con la caccia, con la pesca, con la musica, con la matematica… – e dunque estremamente razionale. Dall’altro – e qui si entra nell’ipotesi personale vera e propria – i comportamenti, gli sguardi, i silenzi di Seligman, mi portano a pensare che il suo scopo ultimo sia proprio quello di farsi, a sua volta, la ninfomane Joe, da bravo maschio-preda-istintiva quale anche lui è (impressione sicuramente amplificata dal bravissimo Stellan, il migliore del cast ad occhi chiusi).

Ma non c’è solo l’idea, più ben sviluppata che originale onestamente, quanto una potenza delle immagini davvero sorprendente, e solo raramente toccata da quella sgradevole “fighettosità” di cui sopra. Non tanto la sequenza del treno, quanto l’interessante trittico musical-sessuale del capitolo conclusivo (che ci permette di apprezzare anche una discreta preparazione musicale del regista sceneggiatore nell’ideazione di questa parte), o quanto la grottesca esplosione di rabbia e rancore di Mrs. H (un’enorme Uma Thurman, forse alla sua miglior prova di sempre insieme a Kill Bill – film curiosamente diviso a sua volta in due volumi). E anche il capitolo IV, quello di cui sinceramente fatico a capire l’utilità ai fini della trama/tesi (se non davvero minuta, nelle scene di sesso “terapeutico” della giovane Joe, impossibilitata a sostenere troppo a lungo lo spettacolo degradante del padre morente): per quanto mi possa essere sembrato isolato, è indubbia la qualità delle scene e della scelta improvvisa del bianco/nero, che creano la giusta atmosfera di morte e angoscia opprimenti.

Dunque brindo a questo primo Volume del dittico danese, film non perfetto ma con difetti sicuramente più perdonabili che in passato (e comunque ricco di notevoli pregi): neanche il cane intergalattico di Shia LaBeouf o l’insopportabile icona radical-chic Charlotte Gainsbourg sono riusciti a farmi guastare il sangue, stavolta. E dunque, in attesa della conclusione dell’intera vicenda/tesi, segno un altro punto favorevole per il regista sotto la voce “Io e Lars Von Trier” nella mia personale storia Cinefila.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Mea Vulva, mea maxima Vulva.

Dallas Buyers Club (2013)

Al texano e “figadipendente” Ron Woodroof viene diagnosticato, con suo grande stupore e spavento, l’AIDS: i medici dicono che gli rimangono 30 giorni da vivere. Woodroof è assolutamente sconvolto dalla novità – aver contratto una malattia da “froci” è per lui inammissibile, ed è ovviamente spaventato nel pensare alla fine imminente. Inizia a curarsi con l’AZT, un farmaco in fase di sperimentazione, ignaro che tale prodotto fa peggio che meglio: viene fortunatamente salvato da un medico, radiato dall’albo perchè si opponeva proprio all’uso di tale farmaco. Insieme ad un compagno che mai avrebbe immaginato (la drag Rayon), inizia allora a curare con prodotti alternativi e sicuramente più efficaci (ma non approvati dalle case farmaceutiche) i malati di AIDS. La battaglia per la vita sarà lunga e non priva di difficoltà.

Qualche sera fa ho visto Erin Brockovich – Forte Come La Verità (2000), pellicola in cui Julia Roberts – che, vergognosamente, avrebbe vinto un Oscar – si batte contro una multinazionale che ha avvelenato le acqua di una cittadina della California, provocando tumori e malattie gravi a coloro che ne hanno bevuto: le somiglianze con la pellicola in esame oggi sono indubbiamente notevoli (storia e personaggi veri, il “piccolo” che si scontra con il “grande”, malattie terminali…). Ma con la storia dell’attivista del Kansas, Steven Soderbergh aveva costruito un classico film “U.S.A.”, molto prevedibile nella struttura, con finale scontato che vede la giustizia prevalere insieme con l’eroe a cui tanto ci siamo affezionati.

Il primo, indubbio merito di Dallas Buyers Club è invece quello di non essere assolutamente “Americano”, al contrario estremamente genuino ed emozionante. Quando all’inizio si scopre che a Woodroof sono rimasti 30 giorni, ho pensato che sarebbe partita la classica “corsa contro il tempo” dell’eroe: invece no, perchè la previsione dei medici si rivela sbagliata, e con le medicine adeguate il nostro protagonista – veniamo a sapere nel finale – è riuscito a vivere per ben 7 anni prima di arrendersi alla malattia. E quando la FDA (Food & Drug Administration, ente U.S.A. che si occupa di alimentazione e prodotti farmaceutici) inizia a mettere i bastoni tra le ruote a Woodroof, pensavo di ritrovarmi dentro al solito “dramma giudiziario”, con tanto di tribunale finale strappalacrime in cui la giustizia trionfava: nulla di tutto questo accade, e nel velocissimo processo finale il buon Woodroof viene pure sconfitto dall’ente governativo.

L’altro merito ha un duplice nome: Matthew McConaughey e Jared Leto. Ma guardate, i chili persi qui non c’entrano (Matthew ne ha persi circa venti, Jared tredici), si tratta di intensità e bravura attoriale: McConaughey, dopo il simil-cameo in The Wolf Of Wall Street, si conferma come la mia sorpresa della Stagione – l’avevo sempre considerato un discreto cane, invece devo ricredermi e alla grande; Leto, di cui invece avevo sempre apprezzato physique du role e capacità, qua trova un personaggio davvero nelle sue corde, che interpreta con incredibile “leggerezza” (facendo sì che alcune scene, come quella di Rayon allo specchio poco prima di morire, risultino emozionanti e non patetiche). Non sono sicuro che Matthew meriti l’Oscar, data la concorrenza (DiCaprio per il film di Scorsese, Bruce Dern per Nebraska), mentre per Leto tiferò spudoratamente fino all’ultimo respiro, ma ripeto: grandissimi applausi e grandissimo punto di forza della pellicola.

E visto che ho citato la pellicola di Alexander Payne, è bene che la sfrutti subito per passare ai “no” di Dallas Buyers Club. Che poi non sono gravi, ma onestamente mi hanno disturbato. In primis, lo squilibrio davvero eccessivo fra i due protagonisti e gli altri personaggi: passino i dottori-cattivi di turno, che per ovvie ragioni si limitano ad incarnare certi “valori” decisamente poco etici e moralmente riprovevoli; ma la dottoressa Saks/Jennifer Garner? La sua figura ha un che di incredibilmente evanescente, le poche scene con lei appaiono sempre fuori fuoco, e per quanto si capisca il perchè si “innamori” di Woodroof risulta assolutamente inspiegabile il contrario. Sono invece favorevole alla decisione di non aver dato troppo spazio, ad esempio, a personaggi come il padre di Rayon – presente solo in una scena, molto forte e centrata rispetto alle ben più numerose con la povera Garner. Il confronto con Nebraska mi è saltato in mente, perchè lì invece si è riuscito a costruire un mondo ben caratterizzato (per quanto non invadente) intorno al meraviglioso protagonista: dunque non è cosa nè impossibile nè sbagliata da farsi.

Ma soprattutto, Dallas Buyers Club dura troppo. La pellicola di Payne dura solo dieci minuti meno rispetto a quella di Vallée, eppure sembra incredibilmente più corta: questo perchè bisogna saper sfruttare efficacemente lo spazio a nostra disposizione, e non credo che il regista (e il duo di sceneggiatori Craig Borten e Melisa Wallack) ci sia riuscito fino in fondo. Per esempio: le scene finali, dove si dà appunto spazio alla dottoressa Saks – e anche un minimo di minutaggio alle beghe legali in cui Woodroof si trova invischiato – erano davvero necessarie? Secondo me no: si era già capito benissimo che la battaglia del nostro eroe era una sconfitta in partenza, e si era già capito che la dottoressa Saks lo supportava, seppure avesse le mani legate dai suoi “superiori”. E questo conduce a quei rari momenti in cui, sia a causa dei dialoghi che delle situazioni, sembra di essere davvero finiti per un secondo in Erin Brockovich o pellicole del genere.

Che poi tali film non siano brutti è indubbio: ma che Dallas Buyers Club sia per lunghi tratti un film totalmente diverso è altrettanto vero. Purtroppo l’efficacia iniziale si perde un po’ nello scorrere della vicenda, ma comunque sia la pellicola di Jean-Marc Vallée rimane un lavoro valido, genuino, che merita di essere visto e apprezzato. E che, sicuramente, ci può aiutare a riflettere su quanto i soldi – realmente e tristemente – siano in grado di condizionare tante scelte su cui dovrebbero giocare ben altri fattori.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Osa vivere.

Don Jon (2013)

Jon Martello Jr, detto Don Jon dagli amici, è un pornomane incallito: il suo obiettivo è cercare nella vita vera, nel sesso reale con una donna, quella soddisfazione incredibile che prova di fronte al porno, quel “perdersi” – come dice lui. E tra una scopata e un altra, e le serate in discoteca con gli amici a dare voti alle donne, alla fine spunta fuori un “10”: che sia quella bionda, l’unica che al primo approccio si è rifiutata di fare sesso con Don, a potergli regalare il miracolo del “perdersi”?

Joseph Gordon-Levitt. Io a questo ragazzo gli voglio bene, davvero: fin da quando lo vidi per la prima volta in Inception dissi “questo qui ha un qualcosa in più, anche se non capisco bene cosa”. E sinceramente l’ho davvero apprezzato nella maggior parte delle pellicole in cui si è trovato a recitare, fatta eccezione per Lincoln (dove però il suo personaggio era talmente mal strutturato da risultare difficile una sua interpretazione convincente). Soprattutto mi è sempre sembrato un individuo molto serio e professionale, che non è poco data la giovane età. Dunque ero curioso di vedere a cosa avrebbe portato il suo esordio dietro la macchina da presa, dall’altra parte dell’illusione filmica. 

E, secondo che punto di vista si vuole adottare, Don Jon è un Capolavoro. Credo sia la prima volta, infatti, che vedo il nulla pneumatico-cosmico impresso su pellicola (e per ben novanta minuti!). Ci vuole impegno, davvero! Rendere noioso un film che parla di porno e sesso, con Scarlett Johansson come protagonista femminile non è da tutti! Ma Giuseppe ce l’ha fatta, grandissimo!

Perchè non mi venite a dire che fa ridere, questo film: ve ne prego! Altrimenti l’umorismo (quello vero – tipo Woody Allen, tanto per dirne uno) è proprio morto e sepolto. Cosa c’è di divertente in gag che già non fanno ridere (tipo il protagonista che dice le preghiere mentre fa flessioni e addominali in palestra: oppure sempre Don che esulta perchè il prete gli ha ridotto la penitenza da dieci Padre Nostro a solo cinque…), per giunta ripetute ad infinitum (la prima mezz’ora di film è un loop incredibile – che però non ha nulla a che fare con l’ottima costruzione di Looper, tanto per citare un altro film del Gordon-Levitt)? E anche il fatto che lui parli spudoratamente di porno: se in un primo momento può spiazzare, dopo diventa così banale e previdibile da risultare quasi (paradossalmente) bacchettone e reazionario (vogliono davvero farti credere che vedere porno sia un male! Ma via su, siamo seri!).

Ma più che la totale assenza di divertimento, sorprende la sconcertante ridicolaggine dei dialoghi con le due donne del film. Ho capito che il personaggio di Scarlett è appositamente esagerato in senso negativo, ma non si può vedere una fidanzata che spacca i coglioni così tanto perchè il suo uomo si è visto un porno (e, per inciso – quale uomo non cancella la cazzo di cronologia dopo aver visitato i suddetti siti?!)! E ancora di più si tocca il fondo con la scena del supermercato. I due quasi sposini sono lì a fare non ho capito cosa, quando lui fa l’errore madornale: le dice “devo prendere gli Swiffer”! Non l’avesse mai fatto! Lei piazza un casino che neanche Jeff Tarango a Wimbledon 1995.

E perchè mai lei si incazza con Don Jon sulla questione Swiffer? Ma ovvio, no? Perchè non sono “sexy”. Non è “sexy” che l’uomo pulisca la sua casa, perchè… Beh! È così ovvio che non c’è neanche bisogno che ve lo dica, no?! Seriamente, vorrei davvero trovare una donna che si lamentasse perchè il suo uomo le fa le pulizie di casa: perchè, e forse sarò ignorante io (boh), credo che una donna dovrebbe essere ben contenta di trovarsi un uomo che le pulisce la casa, e non infamarlo perchè perde il suo virile sex-appeal!

Poi intravedi Julianne Moore sullo sfondo. Il suo personaggio è una milf che piange come una fontana ogni tre per due. Tu speri, preghi Dio: “Julianne Moore è un’ottima attrice, vedrai che avrà anche un personaggio all’altezza, un personaggio che risolleverà la storia”. Ma anche qui tante buone intenzioni finiscono nel cesso. La Moore dovrebbe essere una sorta di “nave-scuola”, che fa capire a Don Jon la bellezza di un sesso in cui anche la donna è partecipe e non più un oggetto per soddisfare esclusivamente il suo batacchio: peccato che il dialogo topico, quello in cui i due dovrebbero toccare la massima intimità (e, conseguentemente, iniziare a scopare “perdendosi” l’uno nell’altra), sia del tipo.

– Perchè piangi sempre?
– Mio marito e mio figlio sono morti 14 mesi fa.
– Oh, cazzo! E come è successo?
– Incidente d’auto: i capelli ti stanno molto meglio così che col gel.
*Trombano*

E questi due-tre momenti che vi ho riportato sono gli Highlights assoluti del film: il resto è un ripetersi di situazioni uguali l’una all’altra e noiosissime (mentre dovrebbero essere divertenti), un susseguirsi di personaggi uno più stereotipo dell’altro (tremenda la famiglia: il padre che ragiona solo con il cazzo, la madre che è una semicomplessata nevrotica sottomessa, la sorellina che sta tutto il giorno all’I-Phone e nel finale dice l’unica frase di tutto il film – una sorta di pensiero spicciol/moralista sul fatto che il personaggio della Johansson fosse una troia senza cervello), un continuo stracciamento di palle e collasso di neuroni nel tentativo di cavare qualcosa – un minimo! – da questo “coso”. Ma Don Jon, alla fine, si merita un solo, inequivocabile appellativo.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

“Non te ne andrai a comprare gli Swiffer, Jon!” “Perchè?” “Perchè? Perchè non è sexy!”