Un uomo di nome Seligman trova una donna in una notte invernale, picchiata e distesa sanguinante per terra, svenuta. Si offre di chiamare un’ambulanza e la polizia per aiutarla, ma lei rifiuta con decisione la proposta e chiede piuttosto “una tazza di tè caldo con un po’ di latte”. Seligman porta Joe (questo il nome della donna) a casa sua, e lì si fa raccontare la storia che l’ha condotta a quel brutto e violento epilogo: scoprirà così che Joe altri non è che una ninfomane, una che del sesso ha fatto la primaria ragione di vita e di esperienza sensibile.
Come già dovrebbero in parte sapere i miei lettori, la mia personale amicizia con Lars Von Trier – regista danese classe 1956 e cofondatore dell’ormai defunto Dogma – è turbolenta e non del tutto chiara nemmeno al sottoscritto. Non proprio conscio di tutta tutta la filmografia di Lars (mi mancano titoli importanti come Dancer In The Dark o Dogville), posso dire che ad ora i suoi lavori mi hanno sempre coinvolto e appassionato sotto tanti aspetti, riuscendo poi però puntualmente a farmi cascare le braccia e a sciupare quell’iniziale impressione favorevole. Prendete la mia recensione di Melancholia, esemplare in questo: un film che per la prima metà mi aveva fatto gridare al capolavoro, salvo poi mutarsi in un’incomprensibile accozzaglia artistica con echi apocalittici alla Roland Emmerich di 2012. Un dualismo estremo e difficile da digerire, insomma.
Rispetto alla pellicola di cui ho detto sopra, questo primo volume di Nymphomaniac risulta estremamente più compatto, ricollegandosi quindi piuttosto ad un Le Onde Del Destino: parlo di film davvero ben diretti, sicuramente estremi e a tratti sgradevoli (ma questa, d’altronde, è la cifra stilistica del buon Lars), dove emergono spesso momenti da “fighetto” onestamente fastidiosi e impalpabili per spessore. Mi riferisco ad esempio a quelle scene tragicamente didascaliche: sinceramente vedermi spuntare davanti i numeri “3+5” quando Joe viene sbattuta da Jerome non mi aggiunge niente all’umiliazione, se non quella “fighettosità” non necessaria di cui sopra; oppure quelle – sebbene rare – terribili frasi come “facevo gli stessi movimenti di un animale in gabbia” (con tanto di immagini di leoni ingabbiati a sottolineare la banale ovvietà), et similia.
Ma in linea di massima, Nymphomaniac – Volume I è ad ora il miglior Von Trier che abbia mai visto: ed è proprio l’inedita (perlomeno per me) solidità della pellicola a farmi affermare questo. Il tema è chiaro: non tanto l’inappagabile sete di sesso della donna, quanto il degradante (soprattutto per uno pseudo-maschilista come me, e come tutti gli uomini nel loro intimo) constatare della debolezza della psiche virile – il proverbiale “l’uomo ragiona col cazzo”, qua sicuramente declinato in maniera più efficace e meno grezza. Perchè neanche la presenza di una moglie, di una famiglia (futura o presente), possono evitare l’inevitabile: quando attratto dall’esca giusta (secondo la felice metafora su cui la tesi si basa), concederà il suo “pesce” alle grinfie della cacciatrice.
Mi sembra illuminante il personaggio di Stellan Skarsgard, il soccorritore di Joe (Seligman): le mie sono solo supposizioni, ovviamente, dato che non ho visto ancora il Volume II, ma penso che l’ipotesi sia accettabile. Seligman è la conferma assoluta della verità che il film vuole rivelare. Da un lato, l’uomo non incolpa mai e poi mai la donna, ma cerca sempre di non farle credere di essere quel “pessimo essere umano”, come lei ha all’inizio della vicenda affermato. Semmai la colpa è degli uomini, oppure delle circostanze, oppure della giovane età o della stessa natura delle cose: c’è sempre una giustificazione al suo comportamento, spesso esplicata tramite interessantissimi paralleli con la caccia, con la pesca, con la musica, con la matematica… – e dunque estremamente razionale. Dall’altro – e qui si entra nell’ipotesi personale vera e propria – i comportamenti, gli sguardi, i silenzi di Seligman, mi portano a pensare che il suo scopo ultimo sia proprio quello di farsi, a sua volta, la ninfomane Joe, da bravo maschio-preda-istintiva quale anche lui è (impressione sicuramente amplificata dal bravissimo Stellan, il migliore del cast ad occhi chiusi).
Ma non c’è solo l’idea, più ben sviluppata che originale onestamente, quanto una potenza delle immagini davvero sorprendente, e solo raramente toccata da quella sgradevole “fighettosità” di cui sopra. Non tanto la sequenza del treno, quanto l’interessante trittico musical-sessuale del capitolo conclusivo (che ci permette di apprezzare anche una discreta preparazione musicale del regista sceneggiatore nell’ideazione di questa parte), o quanto la grottesca esplosione di rabbia e rancore di Mrs. H (un’enorme Uma Thurman, forse alla sua miglior prova di sempre insieme a Kill Bill – film curiosamente diviso a sua volta in due volumi). E anche il capitolo IV, quello di cui sinceramente fatico a capire l’utilità ai fini della trama/tesi (se non davvero minuta, nelle scene di sesso “terapeutico” della giovane Joe, impossibilitata a sostenere troppo a lungo lo spettacolo degradante del padre morente): per quanto mi possa essere sembrato isolato, è indubbia la qualità delle scene e della scelta improvvisa del bianco/nero, che creano la giusta atmosfera di morte e angoscia opprimenti.
Dunque brindo a questo primo Volume del dittico danese, film non perfetto ma con difetti sicuramente più perdonabili che in passato (e comunque ricco di notevoli pregi): neanche il cane intergalattico di Shia LaBeouf o l’insopportabile icona radical-chic Charlotte Gainsbourg sono riusciti a farmi guastare il sangue, stavolta. E dunque, in attesa della conclusione dell’intera vicenda/tesi, segno un altro punto favorevole per il regista sotto la voce “Io e Lars Von Trier” nella mia personale storia Cinefila.
MOVIEQUOTE
Mea Vulva, mea maxima Vulva.