Blade Runner 2049 (2017)

Nel 2049 i replicanti si sono ormai integrati nella società umana, ma ciononostante persistono azioni da parte di nexus ribelli, puntualmente represse dai replicanti di ultima generazione. Durante un’azione di polizia, però, il replicante K scopre, involontariamente, i resti di una vecchia replicante femmina, a quanto pare defunta a seguito delle conseguenze di un parto. Bisogna indagare, e al più presto: chissà cosa accadrebbe, se si venisse a sapere che i replicanti possono partorire esattamente come gli umani…

Scorsa Stagione ho recensito il mio primissimo film di Denis Villeneuve, tale Arrival: avevo fin d’allora notato come il ragazzo possedesse un talento visivo davvero notevole, messo purtroppo al servizio di una storia tanto interessante come spunto, quanto povera nell’effettiva realizzazione narrativa. Capirete dunque la mia perplessità non solo di fronte alla messe di nomination agli Oscar che suddetto film ebbe, ma soprattutto venendo a sapere che il buon Villeneuve avrebbe diretto il sequel di Blade Runner (volenti o nolenti, uno dei pilastri assoluti della Fantascienza cinematografica, direttamente dal 1982).

Eppure è accaduto ciò che mi auspicavo succedesse: Villeneuve ha dato briglia sciolta al suo estro visivo, riuscendo inoltre stavolta a trovare una storia sufficientemente efficace (e, soprattutto, dotato di un buon ritmo) per non vanificare il risultato finale.

Ecco dunque Blade Runner 2049, la prova registica dell’anno (e, sicuramente, da top3 del decennio in corso). Qui il funambolico cervello del regista crea dipinti tecnologici in movimento, vere e proprie sequenze di incanto assoluto e perfezione grafica: e non sono, come uno potrebbe temere, inutili messe in mostra di sé, specchietti per le allodole atti a deviare l’attenzione rispetto ad una storia vacua, ma diventano parte integrante della riflessione ontologica-antropologica che sta alla base del film (si veda la meravigliosa scena del parto androide, oppure la sequenza che metto in MOVIEQUOTE).

Perché se la tematica non è poi tanto diversa dall’originale, lo script di Hampton Fancher e Michael Green possiede – a mio avviso – il merito di dare un tono più “umano” e meno epico ai personaggi e alle loro emozioni: la cinica rassegnazione di Deckard, l’ingenua tristezza di Stelline, la sconfinata dolcezza di Joi (la più umana tra le forme di vita artificiale), il lento insorgere di un’emozione nel cuore di K, persino la rabbia fredda di Luv, sono frammenti di umanità nudi e crudi, resi peraltro benissimo da un cast di attori in stupenda forma (su tutti la straordinaria Joi-Ana De Armas). E quando sbuca Sean Young, così dannatamente bella e triste come nell’originale, non può non scattare il brivido lungo la schiena.

Se proprio si deve trovare un piccolo difetto a questo film (e non è certamente la mancanza di ritmo, come alcuni denunciano: difficilmente un film di quasi 3 ore mi è passato tanto velocemente) è l’assenza di un cattivo che sia davvero pericoloso: nell’originale, la prospettiva era curiosamente “ribaltata”, dato che il cacciatore era il protagonista: qui il villain sarebbe il personaggio di Jared Leto, Niander Wallace, che ad onor del vero rimane un po’ sbiadito a livello di intenzioni e personalità, e anche a livello estetico – unico caso in tutto il film – sembra cedere ad una logica cyberpunk-orientalistica-fighetta per accattivarsi certo pubblico giovane e radical-chic.

Al netto, dunque, di alcune imperfezioni di script, e indubbiamente di una certa lunghezza (che, sinceramente, poteva essere lievemente scorciata, almeno di una quindicina di minuti), Blade Runner 2049 è un film coinvolgente, emozionante, con una creatività ed un ritmo registico impressionanti, da cineteca. Fatevi un favore: non date retta agli assurdi dati del botteghino (il film è stato un flop colossale: impensabile, considerando che il regista è conosciuto, che Blade Runner è un cult, e che Gosling e Leto sono due tra gli attori più quotati di Hollywood), e regalatevi questa meraviglia per occhi e cuore il prima possibile. Siate umani.

 “LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Suicide Squad (2016)

Amanda Waller – agente governativo statunitense – decide di mettere insieme una speciale task force fatta di pericolosi criminali, da utilizzare (sotto controllo) per contrastare la comparsa di eventuali super-cattivi, ai quali le normali forze dell’ordine o i super-eroi non siano in grado di tenere testa. Ma uno dei “meta-umani” prescelti (l’Incantatrice) si libera dal controllo, ed attacca Midway City con l’intenzione di costruire una terribile macchina e spazzare via tutto il genere umano…

Perché sono andato a vedere Suicide Squad? La domanda mi veniva posta pochi giorni or sono (forse ieri, non rimembro perfettamente), e la mia risposta si articolava in due punti chiari e precisi:

  1. Da quando Sam Raimi con Spiderman e Christopher “Dio” Nolan con Batman hanno dato un bello scossone al Cinema di genere (donando spessore e modernità ai propri personaggi ed alle proprie trame, reinterpretando personaggi storici del fumetto per farne simboli e veicolare messaggi spesso molto diversi dagli originali), spero sempre di rimanere quantomeno piacevolmente sorpreso da un nuovo film che parli di supereroi;
  2. Mai nella mia vita avevo letto così tante recensioni unanimi nel definire un film “orrendo”: speravo dunque – lo confesso – di trovarmi di fronte ad un nuovo La Notte Del Giudizio, ovvero una pellicola alla quale avevo assegnato l’ambitissimo (e sinora unico) “0 (Non-Cinema)” della mia breve storia di blogger.

Eppure – probabilmente perché avevo simili aspettative – sono rimasto deluso su entrambi i fronti: Suicide Squad è un filmaccio putrido, ma non ai livelli di casualità e inesistenza vacua che il film di DeMonaco raggiungeva.

Registicamente parlando, Ayer prova ad utilizzare un linguaggio molto “pop” e di grande impatto visivo, cercando di fare dell’esagerazione la sua cifra – una sorta di trash artistico. Purtroppo però il buon David straripa a tal punto da risultare semplicemente di cattivo gusto: le scritte con grafica alla “wordart” utilizzate per le schede dei cattivi, le sterotipate monoespressioni in cui sono forzati i vari personaggi/attori, gli orripilanti costumi a metà tra il revival fumettistico e l’urban moderno (al primo gruppo appartiene quello di Deadshot, al secondo quello di Harley Quinn), contribuiscono solo a far sembrare il lavoro conclusivo sciatto e amatoriale (nel peggior senso possibile del termine). Ciò che probabilmente il nostro stava cercando di ottenere era un effetto “videoludico” alla Scott Pilgrim Vs The World, ma rispetto alla pellicola di Edgar Wright casca lontanissimo come qualità.

La scelta della colonna sonora è – a sua volta – pessima e immotivata. Mi spiego: Suicide Squad contiene estratti da un sacco di pezzi famosissimi (Sympathy For The DevilThe House Of The Rising SunParanoidFortunate Son, Super FreakSeven Nation ArmySpirit In The SkyWithout MeBohemian Rhapsody). Tralasciamo il fatto che molti di questi brani non appartengano neppure allo stesso genere, il punto è che non si capisce la motivazione della loro presenza. Se tu mi fai ascoltare canzoni entrate ormai nell’immaginario comune, e non c’è una logica forte dietro tale scelta, mi viene solo da pensare che tu stia facendo il furbetto e mettendo canzoni alla minchia di cane per creare dei mini video-clip con cui arrufianarti la folla – l’effetto Guardiani Della Galassia, dove c’era una logica sia narrativa che strutturale per l’uso della musica anni ’80, è qui completamente mancato. All’inizio sembra quasi che ogni canzone serva per creare un “tema” ai personaggi (un po’ alla Siegfried), ma chiaramente questo non è il caso visto che la dinamica si interrompe dopo Deadshot ed Harley Quinn.

Questa è un’altra gran bella pecca di Suicide Squad, il concentrarsi (male) su due soli personaggi della squadra. A Deadshot e Harley Quinn sono dedicate praticamente tutte le attenzioni dello sceneggiatore (lo stesso David Ayer), è ciò mette decisamente in secondo piano gli altri personaggi: alla fine della fiera, di personaggi come Capitan Boomerang, Killer Croc, El Diablo, Katana, Slipknot e Rick Flag, ci importa davvero poco. Ora questo non sarebbe un problema, in linea di massima: se prendiamo Capitan Boomerang o Killer Croc, ad esempio, appare evidente che il loro ruolo sia pensato come quello di spalle comiche, e dunque che non sia necessario un vero approfondimento psicologico – anche se rimangono comunque mal strutturati, facendo appena abbozzare mezza risata quasi per errore. Il problema scatta, semmai, con gli altri quattro elementi, e con quella che dovrebbe essere – in generale – la morale del film.

El Diablo, Katana e Rick Flag dovrebbero risultare commoventi agli occhi dello spettatore: il primo ha ucciso moglie e figli in un eccesso di rabbia, alla seconda è stato ucciso il marito, il terzo è innamorato di una donna posseduta da un antico e devastante demone. Perché, dunque, risultano empatici quanto una scatola di sardine? Presto detto: non basta un flashback o un paio di frasi ad effetto per creare un’emozione, se poi per tutto il resto del film i suddetti non fanno che menare le mani, compiere azioni ridicole o rimanere bloccati in un’unica stereotipata maschera. Capite bene, poi, che se questo effetto lo si ottiene pure con i personaggi più approfonditi, allora si è proprio sbagliato qualcosa.

Perché neppure Harley Quinn e Deadshot sono realmente approfonditi, nonostante si dedichi loro molto più tempo per esplorarne il background: la prima si trova legata a doppio filo con Joker in una folle storia d’amore, la cui componente “sincera” è però rivelata casualmente grazie ad un confuso flashback – quando fino a quel punto era sembrata semplicemente una relazione di superficiale attrazione chimica; il secondo è strutturato male per motivi diametralmente opposti, dato che sembra semplicemente uno dei buoni fin dall’inizio – in tal senso, la scelta di Will Smith (attore ormai legato al ruolo dell’eroe nell’immaginario comune) è oltremodo perdente in partenza.

Questo chiaramente intacca anche l’idea di far vedere i “cattivi” in un’ottica diversa, secondo la quale essi sono i capri espiatori della società per ogni cosa che vada male – quando in realtà molti di loro non sarebbero neppure malvagi (Deadshot, El Diablo): dal momento che nessuno di essi presenta una benché minima ambiguità, questa idea rimane solo un terribile spiegone perpetrato da Deadshot nella pur bella scena del bar – che sarebbe ben realizzata, ma si trova all’interno del film sbagliato. Altro problema legato al minutaggio male utilizzato riguarda il gruppo: dovrebbe passare l’idea che i cattivi leghino tra di loro e si crei un vero sentimento fraterno, ma nuovamente si tratta di un qualcosa che passa forzatamente da uno spiegone di Will Smith, perché lo spettatore non riesce davvero ad accorgersi del consolidamento di questa nuova “famiglia”.

Per finire, una carrellata di roba brutta casuale che ho mentalmente annotato durante questa atroce visione:

  1. Il meraviglioso controllo di Amanda sull’Incantatrice (le ha rubato il cuore, elemento a quanto sembra vitale, e se lo porta sempre appresso per pugnalarlo in caso di ribellione) è tanto poderoso che il demone riesce beatamente ad ignorarlo e a scappare dal fratello per aggirarlo del tutto;
  2. Slipknot viene introdotto in maniera completamente random molto dopo gli altri membri della squadra: mentre mi chiedevo il perché, ecco che il ragazzone mi muore in maniera ridicola in una scena patetica – letteralmente utilizzato come esca da uno dei suoi compagni per scoprire se la bomba nel loro collo fosse o meno un bluff;
  3. Lo so che sono piccolezze, ma quando la voce narrante mi presenta Harley Quinn come una che “ha meno paura di Joker”, e nella scena immediatamente successiva questa urla in preda al panico “aiuto, non so nuotare!”, mi scatta il facepalm;
  4. “Fai del tuo meglio, puttana!”, ovvero le incredibili frasi fatte e fuori luogo di Amanda, quando si trova al cospetto di una pseudo-divinità con il potere di disintegrare il mondo;
  5. Il design della macchina dell’Incantatrice non ha proprio senso: sembra un cerchio magnetico che attira pezzi di ferraglia, ma poi i suddetti pezzi rimangono lì a galleggiare e non compongono niente. A questo punto – trash per trash -poteva essere interessante vedere l’Incantatrice dentro un Transformer, che so…;
  6. Joker è un gangster psicotico davvero poco interessante: mi dispiace per Leto che è un bravo attore, ma tra il poco minutaggio concesso e le piatte frasi alla Tarantino che gli hanno messo in bocca proprio non ci siamo;
  7. La macchina distruggi mondo dell’Incantatrice non distrugge proprio un cazzo: si limita a fottere un paio di satelliti (generando un’altra inutile scena di due secondi, con un tizio pelato a caso che afferma “ha distrutto proprio il nostro satellite principale!”) e stop. Mi aspettavo qualcosa di più rapido e letale, un po’ alla Majin Bu per intenderci;
  8. La scena in cui alla Waller viene un embolo e spara a tutti quelli che sapevano della Suicide Squad è semplicemente un capolavoro di comicità involontaria (e poi: si è capito perché mai la squadra fosse stata dirottata in quel luogo, invece che direttamente dall’Incantatrice?);
  9. Perché il fratello dell’Incantatrice viene ucciso da una bomba? Cioè, da una cazzo di semplice bomba? Quella bodda lì?;
  10. Perché El Diablo, nel finale, diventa anch’egli una specie di divinità fiammeggiante senza che ci fosse stato un minimo preavviso? Usare i personaggi in maniera tanto forzata per sbloccare uno snodo narrativo defunto è proprio una mossa di bassa lega;
  11. Perché l’Incantatrice, invece di uccidere tutti quelli della squadra, giocherella con loro per qualche minuto e poi si fa sorprendere come un’idiota e muore?;
  12. Perché i minions dell’Incantatrice sono così stupidamente amorfi? Uno dei design meno ispirati che mi ricordi nel Cinema di genere;
  13. Ogni tre per due il film si sente in diritto di piazzare uno spiegone casuale e assolutamente non necessario: succede quando Rick Flag ribadisce per la trecentesima volta che nella spada di Katana ci sono le anime di coloro che sono morti (compresa quella del marito), e quando lo stesso Rick Flag urla ai membri della squadra “ora che non ha il cuore è indebolita!”, nonostante ci sia stato ripetuto fino alla nausea che il cuore è il centro vitale dell’Incantatrice.

In sostanza, il motivo per cui salvo Suicide Squad dallo 0 assoluto è da ricercarsi nel fatto che l’idea di fondo non fosse assolutamente malvagia, e nel fatto che due-tre scene sarebbero anche ben girate, recitate e congegnate – ma si trovano, come detto, all’interno del film sbagliato. Rimane comunque un orribile inizio di Stagione, che spero vivamente non detti il trend per i futuri 11 mesi di visioni cinematografiche.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Siamo cattivi, siamo fatti così.

Premi Oscar 2014

Oscar 2014: i favoriti secondo i bookmakers

Questa volta, invece del solito discorso su quanto gli Oscar siano importanti a livello mediatico e comunque – per un modo o per un altro – “affascinanti”, voglio proprio concedermi un angolo di campanilismo.

MA VIENI CHE LA GRANDE BELLEZZA HA VINTO L’OSCAR! ANDIAMO PAOLONE!

Finito il momento goduta nazional-popolare, vi invito:

1) a rileggervi la mia recensione di cotal vincitore.

2) a gustarvi la mia solita disamina delle 8 principali categorie – cliccando sui titoli dei film verrete rispediti alla mia recensione, qualora disponibile.

LEGENDA

GRASSETTO: Vincitore.

SOTTOLINEATO: Vincitore nella mia modestissima opinione.

ROSSO: Nome che avrei selezionato per la cinquina.

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Richard Linklater (Before Midnight)

Billy Ray (Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto)

John Ridley (12 Anni Schiavo)

Terence Winter (The Wolf Of Wall Street)

Steven Coogan (Philomena)

Purtroppo su entrambe i premi di sceneggiatura dovrò sospendere il giudizio. Picchiatemi pure, ma è così. Per quanto riguarda gli script adattati da precedenti lavori, il problema è che avendone visti solo 2 su 5 (tra cui il vincitore) non me la sento di esprimere un parere preciso. Onestamente dubito di essere troppo d’accordo, visto che già trovo la sceneggiatura di Winter  per The Wolf Of Wall Street superiore, ma comunque ai posteri eccetera…

John Ridley Best Adapted Screenplay - P 2014

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

Eric Singer e David O. Russell (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Woody Allen (Blue Jasmine)

 Spike Jonze (Lei – Her)

Bob Nelson (Nebraska)

Craig Borten e Melisa Wallack (Dallas Buyers Club)

Qua invece non è colpa mia, bensì della sempre più ottima distribuzione italiana, che non è riuscita a portare in tempo nelle sale il vincitore del premio. Ho visto gli altri quattro candidati, ma finchè non vedo il trionfatore della categoria non posso davvero permettermi di sparare a zero un parere (anche perchè io adoro Jonze, e sono pressochè certo che questo Her farà faville in casa Cinemalato).

Spike Jonze in the press room at the 86th Annual Academy Awards

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Sally Hawkins (Blue Jasmine)

Julia Roberts (I segreti Di Osage County)

Lupita Nyong’o (12 Anni Schiavo)

Jennifer Lawrence (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

June Squibb (Nebraska)

“Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire”. L’unica assente delle 5 alla mia visione è Julietta Roberts, che dubito possa smuovere troppo gli equilibri. Onestamente trovo non solo assurdo il premio alla Nyong’o (che appare davvero pochissimo – e quando una appare così poco solitamente mi infastidisce che riceva simili premi, seppur nella categoria di supporto), ma anche che la competizione fosse tra lei e la Lawrence di American Hustle: Sally Hawkins in Blue Jasmine e la vecchietta sprint di June Squibb in Nebraska erano decisamente le mie favorite – tutt’altro personaggio e tutt’altro modo di recitare, decisamente più di mio gradimento. Sto seriamente pensando a qualche possibile rimpiazzo, a qualche nome importante rimasto fuori dalla cinquina, ma non mi vengono in mente serie competitrici. Credo sia stata una delle annate “migliori” in quanto a nomination, nella storia dell’Academy.

Lupita Oscar Win - P 2014

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Barkhad Abdi (Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto)

Bradley Cooper (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Jonah Hill (The Wolf Of Wall Street)

Michael Fassbender (12 Anni Schiavo)

Jared Leto (Dallas Buyers Club)

Non so cosa pensare, onestamente. Leto è strepitoso in Dallas Buyers Club, ma quella che ritenevo la mia performance preferita nella categoria “sine dubio” è stata invece messa in questione dalla strepitosa prova di Fassbender in 12 Anni Schiavo (al più presto la recensione!). Credo che alla fine mi limiterò al plauso per il cantante dei 30 Seconds To Mars, sicuramente più bravo in campo cinematografico che non in quello musicale, e per la fragilissima (in tutti sensi) Drag Queen che incarna nel suddetto film. Bravo/a Jared/Rayon! (Anche qui non mi vengono in mente molti nomi utili per un rimpiazzo, onestamente)

Jared Leto Onstage - P 2014

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Amy Adams (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Cate Blanchett (Blue Jasmine)

Sandra Bullock (Gravity)

Judi Dench (Philomena)

Meryl Streep (I Segreti Di Osage County)

CATE, CATE, CATE! L’altra vittoria, insieme a quella del buon Sorrentino, per cui “godo come un riccio” (cit. Tiziano Crudeli). Non solo Cate è una delle più grandi attrici della sua generazione (ma anche più in generale); non solo è stata defraudata almeno un paio di volte (mi vengono in mente Elizabeth agli Oscar 1999 e Io Non Sono Qui agli Oscar 2008); ma si prende la sua rivincita in un film dell’amatissimo Woody! E con una Signora Prestazione di tutto rispetto. Non ho visto due nomi importanti, ovvero la Dench di Philomena e la Streep di Osage County, ma qui mi sento di fare l’azzardo: trattasi di premio Strameritato! Grande Cate e grande Blue Jasmine! Anche qua non mi viene in mente un granchè nel reparto “panchina”: forse potevano almeno nominare le due strepitose attrici di La Vita Di Adele, ma era davvero difficile aspettarsi una simile nomination per due attrici straniere…

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

Bruce Dern (Nebraska)

Chiwetel Ejiofor (12 Anni Schiavo)

Christian Bale (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Leonardo DiCaprio (The Wolf Of Wall Street)

Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club)

LA gara della serata – difficilmente ricordo un così alto livello addirittura di 3 dei cinque candidati. E anche nel mio personale cuoricino la sfida tra McConaughey, DiCaprio e Dern è stata dura et ardua: ma alla fine il malinconicamente grandioso Woody/Bruce Dern dell’eccellente Nebraska ha trionfato. E speravo, come in un bel sogno, che potesse trionfare anche nella realtà – dove invece, a ricordarmi come mai non potrei mai essere un membro votante dell’Academy – ha vinto addirittura quello che ritengo il “peggiore” della terzina. Comunque lode all’ottimo McConaughey di Dallas Buyers Club, augurandomi che continui su questa ottima strada; un abbraccio di consolazione a Leo, che non riesce mai a vincerla ‘sta statuetta (nonostante la grande prova in The Wolf Of Wall Street); un inchino al già citato Dern e alla sua commovente performance; un “buu” di disapprovazione all’Academy per aver nominato il bolsissimo Bale di American Hustle invece del solitario Oscar Isaac per A Proposito Di Davis

MIGLIOR REGIA

Alfonso Cuarón (Gravity)

Steve McQueen (12 Anni Schiavo)

David O. Russell (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Martin Scorsese (The Wolf Of Wall Street)

Alexander Payne (Nebraska)

Tralasciando che adoro la posa che ha fatto Alfonsone con le sue due statuette – una anche per il montaggio -, credo che l’unico competitore serio al buon Cuarón fosse Alexander Payne per Nebraska: il vibrante Scorsese, per quanto mi riguarda, non era comunque al livello del delicatissimo tocco di Payne e della sorprendente e allucinante mezz’ora iniziale di Gravity – il senso di vuoto, paura e spaesamento che riesce a creare, al contempo però mantenendo intatto il fascino e la meraviglia dello spazio cosmico, è incredibile. E alla fine è giusto che il premio, tra la sensibilità emotiva e la perizia tecnica, vada alla seconda in questa categoria. Bravo Alfonso, e bravi giurati! Un po’ meno lo siete stati in fase di nomina, visto che il prevedibilissimo O. Russell di American Hustle ha tolto un posto ai fratellini Coen per A Proposito Di Davis.

MIGLIOR FILM

12 Anni Schiavo

American Hustle – L’Apparenza Inganna
Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto
Dallas Buyers Club
Gravity
Lei – Her
Nebraska
Philomena
The Wolf Of Wall Street
Mi mancano ben 3 candidati (Captain Phillips, Her e Philomena), ma posso già dire un paio di cose.
1) 12 Anni Schiavo è il solito film di McQueen: bello, potenzialmente fortissimo, ma si perde in alcuni punti.
2) Dubito seriamente che Nebraska possa essere scalzato dalla cima del Podio di qui alla fine della Stagione (e ancora mancano quattro mesi).
Un posticino per A Proposito Di Davis e anche per il “buono” ma non “buonista” I Sogni Segreti Di Walter Mitty l’avrei onestamente cercato e trovato. A parte questo, sono contento che non abbia vinto lo scontatissimo American Hustle – L’Apparenza Inganna, come qualcuno aveva ventilato nei giorni precedenti la cerimonia (pericolo scampato!). E con la locandina del trionfante vincitore, vi saluto e vi dico “alla prossima edizione”!
Not for the faint of heart, and neither should it be, 12 Years A Slave is, befittingly considering the director's original vocation, a work of art

Dallas Buyers Club (2013)

Al texano e “figadipendente” Ron Woodroof viene diagnosticato, con suo grande stupore e spavento, l’AIDS: i medici dicono che gli rimangono 30 giorni da vivere. Woodroof è assolutamente sconvolto dalla novità – aver contratto una malattia da “froci” è per lui inammissibile, ed è ovviamente spaventato nel pensare alla fine imminente. Inizia a curarsi con l’AZT, un farmaco in fase di sperimentazione, ignaro che tale prodotto fa peggio che meglio: viene fortunatamente salvato da un medico, radiato dall’albo perchè si opponeva proprio all’uso di tale farmaco. Insieme ad un compagno che mai avrebbe immaginato (la drag Rayon), inizia allora a curare con prodotti alternativi e sicuramente più efficaci (ma non approvati dalle case farmaceutiche) i malati di AIDS. La battaglia per la vita sarà lunga e non priva di difficoltà.

Qualche sera fa ho visto Erin Brockovich – Forte Come La Verità (2000), pellicola in cui Julia Roberts – che, vergognosamente, avrebbe vinto un Oscar – si batte contro una multinazionale che ha avvelenato le acqua di una cittadina della California, provocando tumori e malattie gravi a coloro che ne hanno bevuto: le somiglianze con la pellicola in esame oggi sono indubbiamente notevoli (storia e personaggi veri, il “piccolo” che si scontra con il “grande”, malattie terminali…). Ma con la storia dell’attivista del Kansas, Steven Soderbergh aveva costruito un classico film “U.S.A.”, molto prevedibile nella struttura, con finale scontato che vede la giustizia prevalere insieme con l’eroe a cui tanto ci siamo affezionati.

Il primo, indubbio merito di Dallas Buyers Club è invece quello di non essere assolutamente “Americano”, al contrario estremamente genuino ed emozionante. Quando all’inizio si scopre che a Woodroof sono rimasti 30 giorni, ho pensato che sarebbe partita la classica “corsa contro il tempo” dell’eroe: invece no, perchè la previsione dei medici si rivela sbagliata, e con le medicine adeguate il nostro protagonista – veniamo a sapere nel finale – è riuscito a vivere per ben 7 anni prima di arrendersi alla malattia. E quando la FDA (Food & Drug Administration, ente U.S.A. che si occupa di alimentazione e prodotti farmaceutici) inizia a mettere i bastoni tra le ruote a Woodroof, pensavo di ritrovarmi dentro al solito “dramma giudiziario”, con tanto di tribunale finale strappalacrime in cui la giustizia trionfava: nulla di tutto questo accade, e nel velocissimo processo finale il buon Woodroof viene pure sconfitto dall’ente governativo.

L’altro merito ha un duplice nome: Matthew McConaughey e Jared Leto. Ma guardate, i chili persi qui non c’entrano (Matthew ne ha persi circa venti, Jared tredici), si tratta di intensità e bravura attoriale: McConaughey, dopo il simil-cameo in The Wolf Of Wall Street, si conferma come la mia sorpresa della Stagione – l’avevo sempre considerato un discreto cane, invece devo ricredermi e alla grande; Leto, di cui invece avevo sempre apprezzato physique du role e capacità, qua trova un personaggio davvero nelle sue corde, che interpreta con incredibile “leggerezza” (facendo sì che alcune scene, come quella di Rayon allo specchio poco prima di morire, risultino emozionanti e non patetiche). Non sono sicuro che Matthew meriti l’Oscar, data la concorrenza (DiCaprio per il film di Scorsese, Bruce Dern per Nebraska), mentre per Leto tiferò spudoratamente fino all’ultimo respiro, ma ripeto: grandissimi applausi e grandissimo punto di forza della pellicola.

E visto che ho citato la pellicola di Alexander Payne, è bene che la sfrutti subito per passare ai “no” di Dallas Buyers Club. Che poi non sono gravi, ma onestamente mi hanno disturbato. In primis, lo squilibrio davvero eccessivo fra i due protagonisti e gli altri personaggi: passino i dottori-cattivi di turno, che per ovvie ragioni si limitano ad incarnare certi “valori” decisamente poco etici e moralmente riprovevoli; ma la dottoressa Saks/Jennifer Garner? La sua figura ha un che di incredibilmente evanescente, le poche scene con lei appaiono sempre fuori fuoco, e per quanto si capisca il perchè si “innamori” di Woodroof risulta assolutamente inspiegabile il contrario. Sono invece favorevole alla decisione di non aver dato troppo spazio, ad esempio, a personaggi come il padre di Rayon – presente solo in una scena, molto forte e centrata rispetto alle ben più numerose con la povera Garner. Il confronto con Nebraska mi è saltato in mente, perchè lì invece si è riuscito a costruire un mondo ben caratterizzato (per quanto non invadente) intorno al meraviglioso protagonista: dunque non è cosa nè impossibile nè sbagliata da farsi.

Ma soprattutto, Dallas Buyers Club dura troppo. La pellicola di Payne dura solo dieci minuti meno rispetto a quella di Vallée, eppure sembra incredibilmente più corta: questo perchè bisogna saper sfruttare efficacemente lo spazio a nostra disposizione, e non credo che il regista (e il duo di sceneggiatori Craig Borten e Melisa Wallack) ci sia riuscito fino in fondo. Per esempio: le scene finali, dove si dà appunto spazio alla dottoressa Saks – e anche un minimo di minutaggio alle beghe legali in cui Woodroof si trova invischiato – erano davvero necessarie? Secondo me no: si era già capito benissimo che la battaglia del nostro eroe era una sconfitta in partenza, e si era già capito che la dottoressa Saks lo supportava, seppure avesse le mani legate dai suoi “superiori”. E questo conduce a quei rari momenti in cui, sia a causa dei dialoghi che delle situazioni, sembra di essere davvero finiti per un secondo in Erin Brockovich o pellicole del genere.

Che poi tali film non siano brutti è indubbio: ma che Dallas Buyers Club sia per lunghi tratti un film totalmente diverso è altrettanto vero. Purtroppo l’efficacia iniziale si perde un po’ nello scorrere della vicenda, ma comunque sia la pellicola di Jean-Marc Vallée rimane un lavoro valido, genuino, che merita di essere visto e apprezzato. E che, sicuramente, ci può aiutare a riflettere su quanto i soldi – realmente e tristemente – siano in grado di condizionare tante scelte su cui dovrebbero giocare ben altri fattori.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Osa vivere.