Dallas Buyers Club (2013)

Al texano e “figadipendente” Ron Woodroof viene diagnosticato, con suo grande stupore e spavento, l’AIDS: i medici dicono che gli rimangono 30 giorni da vivere. Woodroof è assolutamente sconvolto dalla novità – aver contratto una malattia da “froci” è per lui inammissibile, ed è ovviamente spaventato nel pensare alla fine imminente. Inizia a curarsi con l’AZT, un farmaco in fase di sperimentazione, ignaro che tale prodotto fa peggio che meglio: viene fortunatamente salvato da un medico, radiato dall’albo perchè si opponeva proprio all’uso di tale farmaco. Insieme ad un compagno che mai avrebbe immaginato (la drag Rayon), inizia allora a curare con prodotti alternativi e sicuramente più efficaci (ma non approvati dalle case farmaceutiche) i malati di AIDS. La battaglia per la vita sarà lunga e non priva di difficoltà.

Qualche sera fa ho visto Erin Brockovich – Forte Come La Verità (2000), pellicola in cui Julia Roberts – che, vergognosamente, avrebbe vinto un Oscar – si batte contro una multinazionale che ha avvelenato le acqua di una cittadina della California, provocando tumori e malattie gravi a coloro che ne hanno bevuto: le somiglianze con la pellicola in esame oggi sono indubbiamente notevoli (storia e personaggi veri, il “piccolo” che si scontra con il “grande”, malattie terminali…). Ma con la storia dell’attivista del Kansas, Steven Soderbergh aveva costruito un classico film “U.S.A.”, molto prevedibile nella struttura, con finale scontato che vede la giustizia prevalere insieme con l’eroe a cui tanto ci siamo affezionati.

Il primo, indubbio merito di Dallas Buyers Club è invece quello di non essere assolutamente “Americano”, al contrario estremamente genuino ed emozionante. Quando all’inizio si scopre che a Woodroof sono rimasti 30 giorni, ho pensato che sarebbe partita la classica “corsa contro il tempo” dell’eroe: invece no, perchè la previsione dei medici si rivela sbagliata, e con le medicine adeguate il nostro protagonista – veniamo a sapere nel finale – è riuscito a vivere per ben 7 anni prima di arrendersi alla malattia. E quando la FDA (Food & Drug Administration, ente U.S.A. che si occupa di alimentazione e prodotti farmaceutici) inizia a mettere i bastoni tra le ruote a Woodroof, pensavo di ritrovarmi dentro al solito “dramma giudiziario”, con tanto di tribunale finale strappalacrime in cui la giustizia trionfava: nulla di tutto questo accade, e nel velocissimo processo finale il buon Woodroof viene pure sconfitto dall’ente governativo.

L’altro merito ha un duplice nome: Matthew McConaughey e Jared Leto. Ma guardate, i chili persi qui non c’entrano (Matthew ne ha persi circa venti, Jared tredici), si tratta di intensità e bravura attoriale: McConaughey, dopo il simil-cameo in The Wolf Of Wall Street, si conferma come la mia sorpresa della Stagione – l’avevo sempre considerato un discreto cane, invece devo ricredermi e alla grande; Leto, di cui invece avevo sempre apprezzato physique du role e capacità, qua trova un personaggio davvero nelle sue corde, che interpreta con incredibile “leggerezza” (facendo sì che alcune scene, come quella di Rayon allo specchio poco prima di morire, risultino emozionanti e non patetiche). Non sono sicuro che Matthew meriti l’Oscar, data la concorrenza (DiCaprio per il film di Scorsese, Bruce Dern per Nebraska), mentre per Leto tiferò spudoratamente fino all’ultimo respiro, ma ripeto: grandissimi applausi e grandissimo punto di forza della pellicola.

E visto che ho citato la pellicola di Alexander Payne, è bene che la sfrutti subito per passare ai “no” di Dallas Buyers Club. Che poi non sono gravi, ma onestamente mi hanno disturbato. In primis, lo squilibrio davvero eccessivo fra i due protagonisti e gli altri personaggi: passino i dottori-cattivi di turno, che per ovvie ragioni si limitano ad incarnare certi “valori” decisamente poco etici e moralmente riprovevoli; ma la dottoressa Saks/Jennifer Garner? La sua figura ha un che di incredibilmente evanescente, le poche scene con lei appaiono sempre fuori fuoco, e per quanto si capisca il perchè si “innamori” di Woodroof risulta assolutamente inspiegabile il contrario. Sono invece favorevole alla decisione di non aver dato troppo spazio, ad esempio, a personaggi come il padre di Rayon – presente solo in una scena, molto forte e centrata rispetto alle ben più numerose con la povera Garner. Il confronto con Nebraska mi è saltato in mente, perchè lì invece si è riuscito a costruire un mondo ben caratterizzato (per quanto non invadente) intorno al meraviglioso protagonista: dunque non è cosa nè impossibile nè sbagliata da farsi.

Ma soprattutto, Dallas Buyers Club dura troppo. La pellicola di Payne dura solo dieci minuti meno rispetto a quella di Vallée, eppure sembra incredibilmente più corta: questo perchè bisogna saper sfruttare efficacemente lo spazio a nostra disposizione, e non credo che il regista (e il duo di sceneggiatori Craig Borten e Melisa Wallack) ci sia riuscito fino in fondo. Per esempio: le scene finali, dove si dà appunto spazio alla dottoressa Saks – e anche un minimo di minutaggio alle beghe legali in cui Woodroof si trova invischiato – erano davvero necessarie? Secondo me no: si era già capito benissimo che la battaglia del nostro eroe era una sconfitta in partenza, e si era già capito che la dottoressa Saks lo supportava, seppure avesse le mani legate dai suoi “superiori”. E questo conduce a quei rari momenti in cui, sia a causa dei dialoghi che delle situazioni, sembra di essere davvero finiti per un secondo in Erin Brockovich o pellicole del genere.

Che poi tali film non siano brutti è indubbio: ma che Dallas Buyers Club sia per lunghi tratti un film totalmente diverso è altrettanto vero. Purtroppo l’efficacia iniziale si perde un po’ nello scorrere della vicenda, ma comunque sia la pellicola di Jean-Marc Vallée rimane un lavoro valido, genuino, che merita di essere visto e apprezzato. E che, sicuramente, ci può aiutare a riflettere su quanto i soldi – realmente e tristemente – siano in grado di condizionare tante scelte su cui dovrebbero giocare ben altri fattori.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Osa vivere.

American Hustle – L’Apparenza Inganna (2013)

Una coppia di truffatori, Irving e Sydney, viene beccata con le mani nel sacco dal poliziotto federale Richie DiMaso. Il suddetto, tuttavia, decide di avvalersi dei due criminali per tessere una trappola ad alcuni pezzi grossi, sospettati di avere dei giri non proprio legali: in particolare, la loro azione sarà volta a ottenere prove sufficienti per incastrare il sindaco di Camden, Carmine Polito. Ma altri inganni e finzioni si intrometteranno nell’operazione, e alla fine…

Bene non aggiungere altro sulla trama di American Hustle – L’Apparenza Inganna: l’ultima fatica di David O. Russell (autore di The Fighter Il Lato Positivo – Silver Linings Playbook – #12 della mia scorsa Stagione Cinematografica), privata dei suoi colpi di scena finali (per quanto telefonati), perderebbe efficacia. Perchè questa pellicola altro non è che un ottimo esercizio di stile del regista, dove tutto fila liscio come l’olio, ma forse anche eccessivamente liscio.

Detto in altri termini: non c’è nulla che lo spettatore medio (neanche troppo scafato) non si aspetterà guardando questo film. Tutto è molto prevedibile e scontato, e anche la caratterizzazione dei personaggi certo non brilla per originalità: criminali e poliziotti sono abili nel loro lavoro, ma devono al contempo confrontarsi con tutta una serie di piccole frustrazioni quotidiane. L’unica che sembra spiccare un minimo da questo mare di “già visto” è Rosalyn/Jennifer Lawrence, non solo per la bravura ormai appurata dell’interprete, ma anche perchè trattasi di un personaggio decisamente stravagante e lunatico – anche se tale caratteristica sembra a tratti non creata volutamente, quanto effetto di un’incertezza degli sceneggiatori (il regista stesso più Eric Warren Singer) sul carattere di Rosalyn.

Al contempo American Hustle – L’Apparenza Inganna scorre via che è un piacere: la regia fluida, il montaggio e l’uso di musiche (nonchè la colonna sonora di Danny Elfman) donano alla pellicola un ritmo notevole, facendo passare le oltre due ore di minutaggio con la giusta leggerezza, intrattenendo con un certo gusto lo spettatore. Da questo punto di vista mi è saltato subito alla mente il ricordo di Snatch – Lo Strappo, film del 2000 diretto da Guy Ritchie, che era però decisamente più divertente e leggero (in senso positivo) dell’opus #7 di O. Russell.

Perchè, come detto, in questa pellicola i personaggi hanno effettivamente dei problemi seri alle spalle: relazioni d’amore complicate, matrimoni disastrosi, senso di fallimento della propria esistenza, contraddizione fra una volontà benefica ed un agire illegale e corrotto… Il problema è che – forse giustamente – tutto viene lasciato un po’ sospeso, non gli si arriva a dare troppo peso (neanche al rapporto tra realtà e finzione, che è proprio di tutta l’azione del film e ribadito anche da numerose frasi, tra cui la MOVIEQUOTE): nuovamente, dunque, si dà precedenza al ritmo e la scorrevolezza, limitandosi a momentanee pennellate più scure, mai tuttavia davvero incisive sulla “tela” cinematografica.

In sostanza? American Hustle – L’Apparenza Inganna è il perfetto film per passare una serata piacevole al Cinema, senza bisogno di regalare soldi a monnezze come l’ennesimo Pieraccioni – clone di sè stesso dall’ormai lontano 1995. Però visto i precedenti, soprattutto quello dell’appena trascorsa Stagione 2012/2013, viene da chiedersi: possibile che con un cast così (Christian Bale, Jennifer Lawrence, Amy Adams, Bradley Cooper, Jeremy Renner, Robert De Niro), un bravo mestierante come David O. Russell non sappia creare niente di più di un valido esercizio di stile?

In conclusione, e in vista dei Premi Oscar 2014 che si terranno il 7 Marzo, volevo solo puntualizzare che trovo eccessive le quattro nomination in campo attoriale – ben vengano i Non Protagonisti, Bradley Cooper e Jennifer Lawrence: ma davvero non si trova di meglio delle prove di Christian Bale e Amy Adams (che ha pure vinto uno scandaloso Golden Globe)? E anche la presenza di O. Russell e Warren Singer nella cinquina degli Sceneggiatori è francamente assurda.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Le persone credono a quello a cui vogliono credere.