Classifica Stagionale 2013/2014: TOP20 – Parte Bassa (20-11)

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Terza parte della Classifica Stagionale 2013/2014: si entra finalmente in TOP20! Ecco qui le prime dieci posizioni dei magnifici 20 (qui quelle della Stagione passata): non saranno riusciti ad entrare tra i primi 10, ma il risultato conseguito è già degno del mio personale plauso. As usual, cliccando sul nome della pellicola potrete leggere la recensione relativa, quando disponibile.

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20) Dallas Buyers Club, di Jean-Marc Vallée (2013)

La pellicola di Valléé avrebbe anche tanti bei meriti, in primis quello di non risultare troppo stucchevole o melensa nonostante il tema trattato (AIDS): e le prove notevolissime di Matthew McConaughey e Jared Leto (premio Oscar per entrambi) donano ulteriore lustro al tutto. Ma trovo che, eccettuati i due protagonisti, il film abbia una massa informe di comprimari sfruttati malino, e un finale troppo lungo – e non necessario. Aggiungeteci che, comunque sia, rimane “solo” un film sull’AIDS (tematica un po’ banalotta) , ed ecco spiegata la posizione relativamente bassa.

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19) Il Capitale Umano, di Paolo Virzì (2013)

Al contrario di Dallas Buyers Club, il nuovo opus di Virzì ha un ottimo equilibrio: durata perfetta, idem per la gestione del cast (nessuno degli attori/personaggi sovrasta nessuno, e tutti offrono delle prove ottimamente inquadrate per il ruolo che svolgono nella vicenda). Ma quello che sorregge il film di Valléé, un tema ed un messaggio da diffondere, qui mancano del tutto – o comunque non li ho visti durante la proiezione. Perfetto meccanismo, ma un po’ fine a sè stesso.

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18) La Vita Di Adele, di Abdellatif Kechice (2013)

Se, e dico se, La Vita Di Adele (Palma D’Oro allo scorso Festival di Cannes) si fosse rivelata al livello della sua prima ora di vicenda, sicuramente non si troverebbe in questa sezione, ma almeno nella Top10: grande intensità dello straordinario duo di attrici femminili, vicenda realistica ma non pesante, coinvolgimento emotivo sicuro e sincero. Le scene di sesso, poi, sono bel lungi dall’essere scandalose, quanto estremamente potenti. Ma il film dura 3 ore, non un’ora sola: e nella restante parte, La Vita Di Adele è un piccolo polpettone indigesto su una storia come un’altra, che va verso l’inevitabile fine.

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17) Blue Jasmine, di Woody Allen (2013)

La più che bizzarra doppietta di due Stagioni fa (con l’ottimo Midnight In Paris che chiuse alla #4, e con il pessimo To Rome With Love, finito direttamente nei meandri del Fondo Del Barile), lascia questa volta il posto ad una pellicola sostanzialmente antica, ma efficace. Woody ricicla personaggi e schemi che l’hanno reso grande, e come (quasi) sempre lo fa in maniera coinvolgente – con l’aiuto di due ottime attrici, Sally Hawkins e Cate Blanchett (che si è aggiudicata il secondo Oscar in carriera). Nulla di nuovo, ma comunque gradito.

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16) Lei, di Spike Jonze (2013)

Il “film-hype” dell’anno. Mi si erano create aspettative immense su Lei, accresciute dalla presenza di Joaquin Phoenix e dall’Oscar alla Sceneggiatura Originale per Spike Jonze. E Lei ha tantissimi bei momenti (la prima notte di sesso rimane memorabile), così come una fortissima idea alla base: ma Lei ha anche tanti difettucci e momenti radical-chic (nella peggiore accezione del termine), accresciuti da un finale inaccettabile. Alla fine un buon film, che poteva essere tanto di più: peccato.

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15) La Memoria Degli Ultimi, di Samuele Rossi (2014)

La Memoria Degli Ultimi è un documentario sul movimento partigiano Italiano durante il secondo conflitto mondiale. Fortunatamente per chi, come me, mal tollera la reiterazione di tematiche e argomenti già toccati mille volte, il regista Samuele Rossi è riuscito a fare del suo documentario un lavoro ad alto tasso emozionale (nel senso più positivo del termine): nonostante la differenza ormai notevole d’epoca, è genuinamente semplicissimo trovarsi coinvolti nelle vite dei protagonisti, grazie ad una regia che ne sottolinea l’umanità, e rimuove la patina di “personaggio storico” – che poteva annoiare.

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14) Bling Ring, di Sofia Coppola (2013)

Tra i silenzi e le lente riprese che ne hanno (quasi) sempre caratterizzato l’opera, Sofia Coppola torna al suo filone “bimbette” – contaminato in realtà con una certa vena del filone “vuoto esistenziale”, quello di Lost In Translation Somewhere. Lo fa per raccontarci una storia simile a quella di Spring Breakers di una Stagione fa, ma con maggior realismo – quasi al limite dell’asettico – rispetto alla pellicola di Korine (che “annoiava” meno ma esagerava molto di più la situazione). Un altro buon risultato della figlia di Francis Ford, che si conferma una delle preferite di casa Cinemalato (ma i succitati LIT Somewhere sono ben lontani).

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13) Gravity, di Alfonso Cuaròn (2013)

Come per La Vita Di AdeleGravity parte benissimo e conclude malino. Ma la differenza è abbastanza evidente, in quanto i primi 30 minuti della pellicola di Cuaròn possiedono una bellezza visiva struggente, propria solo dell’opera d’Arte: e per quanto vanificata da una seconda parte Americana che più Americana non si può (ma comunque coinvolgente, bisogna ammettere), quella mezz’ora non può essere in alcun modo messa in secondo piano. Oscar alla regia meritatissimo.

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12) Philomena, di Stephen Frears (2013)

Contrariamente a Lei, la nuova pellicola di Stephen Frears mi tirava meno di un cavolo a merenda: sulla carta c’erano tutti gli ingredienti per un film noiosetto, al servizio dell’attrice protagonista, con venature di melenso e banalità a random. Invece Philomena non è solo un film ottimamente recitato (Judi Dench, ma anche Steve Coogan sotto le righe), ma anche sapientemente scritto e appena accompagnato dall’invisibile regia di Frears. Un’autentica sorpresa, per ricordarmi (e ricordarci) che non sempre la prima impressione è ciò che conta.

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11) Nymphomaniac – Volume II, di Lars Von Trier (2013)

La mia melodrammatica storia con Lars Von Trier e il suo Cinema ha trovato in questa Stagione un momento idilliaco. Nymphomaniac non è solo un film ad altissimo tasso artistico (as usual), ma possiede anche una solidità di fondo che mi ha permesso di apprezzare maggiormente l’intera Opera (divisa in due parti) – o forse sto solo maturando come gusto, chissà. Comunque piazzo leggermente più basso il volume II, “colpevole” di fare retromarcia sulla metafora cristologica nel capitolo finale – sempre che abbia capito a pieno il messaggio del danese. Ma ripeto, The times they are a-changin’.

Dallas Buyers Club (2013)

Al texano e “figadipendente” Ron Woodroof viene diagnosticato, con suo grande stupore e spavento, l’AIDS: i medici dicono che gli rimangono 30 giorni da vivere. Woodroof è assolutamente sconvolto dalla novità – aver contratto una malattia da “froci” è per lui inammissibile, ed è ovviamente spaventato nel pensare alla fine imminente. Inizia a curarsi con l’AZT, un farmaco in fase di sperimentazione, ignaro che tale prodotto fa peggio che meglio: viene fortunatamente salvato da un medico, radiato dall’albo perchè si opponeva proprio all’uso di tale farmaco. Insieme ad un compagno che mai avrebbe immaginato (la drag Rayon), inizia allora a curare con prodotti alternativi e sicuramente più efficaci (ma non approvati dalle case farmaceutiche) i malati di AIDS. La battaglia per la vita sarà lunga e non priva di difficoltà.

Qualche sera fa ho visto Erin Brockovich – Forte Come La Verità (2000), pellicola in cui Julia Roberts – che, vergognosamente, avrebbe vinto un Oscar – si batte contro una multinazionale che ha avvelenato le acqua di una cittadina della California, provocando tumori e malattie gravi a coloro che ne hanno bevuto: le somiglianze con la pellicola in esame oggi sono indubbiamente notevoli (storia e personaggi veri, il “piccolo” che si scontra con il “grande”, malattie terminali…). Ma con la storia dell’attivista del Kansas, Steven Soderbergh aveva costruito un classico film “U.S.A.”, molto prevedibile nella struttura, con finale scontato che vede la giustizia prevalere insieme con l’eroe a cui tanto ci siamo affezionati.

Il primo, indubbio merito di Dallas Buyers Club è invece quello di non essere assolutamente “Americano”, al contrario estremamente genuino ed emozionante. Quando all’inizio si scopre che a Woodroof sono rimasti 30 giorni, ho pensato che sarebbe partita la classica “corsa contro il tempo” dell’eroe: invece no, perchè la previsione dei medici si rivela sbagliata, e con le medicine adeguate il nostro protagonista – veniamo a sapere nel finale – è riuscito a vivere per ben 7 anni prima di arrendersi alla malattia. E quando la FDA (Food & Drug Administration, ente U.S.A. che si occupa di alimentazione e prodotti farmaceutici) inizia a mettere i bastoni tra le ruote a Woodroof, pensavo di ritrovarmi dentro al solito “dramma giudiziario”, con tanto di tribunale finale strappalacrime in cui la giustizia trionfava: nulla di tutto questo accade, e nel velocissimo processo finale il buon Woodroof viene pure sconfitto dall’ente governativo.

L’altro merito ha un duplice nome: Matthew McConaughey e Jared Leto. Ma guardate, i chili persi qui non c’entrano (Matthew ne ha persi circa venti, Jared tredici), si tratta di intensità e bravura attoriale: McConaughey, dopo il simil-cameo in The Wolf Of Wall Street, si conferma come la mia sorpresa della Stagione – l’avevo sempre considerato un discreto cane, invece devo ricredermi e alla grande; Leto, di cui invece avevo sempre apprezzato physique du role e capacità, qua trova un personaggio davvero nelle sue corde, che interpreta con incredibile “leggerezza” (facendo sì che alcune scene, come quella di Rayon allo specchio poco prima di morire, risultino emozionanti e non patetiche). Non sono sicuro che Matthew meriti l’Oscar, data la concorrenza (DiCaprio per il film di Scorsese, Bruce Dern per Nebraska), mentre per Leto tiferò spudoratamente fino all’ultimo respiro, ma ripeto: grandissimi applausi e grandissimo punto di forza della pellicola.

E visto che ho citato la pellicola di Alexander Payne, è bene che la sfrutti subito per passare ai “no” di Dallas Buyers Club. Che poi non sono gravi, ma onestamente mi hanno disturbato. In primis, lo squilibrio davvero eccessivo fra i due protagonisti e gli altri personaggi: passino i dottori-cattivi di turno, che per ovvie ragioni si limitano ad incarnare certi “valori” decisamente poco etici e moralmente riprovevoli; ma la dottoressa Saks/Jennifer Garner? La sua figura ha un che di incredibilmente evanescente, le poche scene con lei appaiono sempre fuori fuoco, e per quanto si capisca il perchè si “innamori” di Woodroof risulta assolutamente inspiegabile il contrario. Sono invece favorevole alla decisione di non aver dato troppo spazio, ad esempio, a personaggi come il padre di Rayon – presente solo in una scena, molto forte e centrata rispetto alle ben più numerose con la povera Garner. Il confronto con Nebraska mi è saltato in mente, perchè lì invece si è riuscito a costruire un mondo ben caratterizzato (per quanto non invadente) intorno al meraviglioso protagonista: dunque non è cosa nè impossibile nè sbagliata da farsi.

Ma soprattutto, Dallas Buyers Club dura troppo. La pellicola di Payne dura solo dieci minuti meno rispetto a quella di Vallée, eppure sembra incredibilmente più corta: questo perchè bisogna saper sfruttare efficacemente lo spazio a nostra disposizione, e non credo che il regista (e il duo di sceneggiatori Craig Borten e Melisa Wallack) ci sia riuscito fino in fondo. Per esempio: le scene finali, dove si dà appunto spazio alla dottoressa Saks – e anche un minimo di minutaggio alle beghe legali in cui Woodroof si trova invischiato – erano davvero necessarie? Secondo me no: si era già capito benissimo che la battaglia del nostro eroe era una sconfitta in partenza, e si era già capito che la dottoressa Saks lo supportava, seppure avesse le mani legate dai suoi “superiori”. E questo conduce a quei rari momenti in cui, sia a causa dei dialoghi che delle situazioni, sembra di essere davvero finiti per un secondo in Erin Brockovich o pellicole del genere.

Che poi tali film non siano brutti è indubbio: ma che Dallas Buyers Club sia per lunghi tratti un film totalmente diverso è altrettanto vero. Purtroppo l’efficacia iniziale si perde un po’ nello scorrere della vicenda, ma comunque sia la pellicola di Jean-Marc Vallée rimane un lavoro valido, genuino, che merita di essere visto e apprezzato. E che, sicuramente, ci può aiutare a riflettere su quanto i soldi – realmente e tristemente – siano in grado di condizionare tante scelte su cui dovrebbero giocare ben altri fattori.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Osa vivere.