Youth – La Giovinezza (2015)

Fred Ballinger, vecchio compositore di musica sinfonico-lirica ora in pensione, si trova in vacanza sulle Alpi svizzere: qui viene contattato da un emissario della regina d’Inghilterra, per eseguire le sue “canzoni semplici” di fronte alla corte, in occasione di una festa. Ma Fred rifiuta più volte: quelle canzoni ormai sono “passato”, solo sua moglie poteva cantarle e non c’è più. Ma non è solo Fred ad essere attanagliato dal passato: anche i suoi amici Mick (regista di vecchia data) e Jimmy (giovane attore intellettualoide), e la figlia Lena (appena separatasi da quello che sembrava dover diventare suo marito) sono nelle sue stesse condizioni.

Paolo Sorrentino è un regista che ho sempre adorato, fin dal nostro primo incontro – ormai remoto – con quel filmone che è Le Conseguenze Dell’Amore: il suo incedere lento ma elegante, il suo raccontare stati d’animo in maniera sottile e silenziosa, la bellezza delle sue immagini (sottolineata dalla fotografia del fedele Luca Bigazzi), mi hanno fin da subito conquistato. Il suo è un Cinema poetico, che – a volte – non si riesce neppure a comprendere a pieno (La Grande Bellezza è un film che si apre a così tante interpretazioni, che difficilmente si potrà essere certi del suo messaggio), ma lascia sempre un piacevole sensazione nel cuore e nel cervello.

Youth – La Giovinezza, tuttavia, mi ha parzialmente stupito. Per un motivo semplice – esattamente come le canzoni del nostro protagonista (uno straordinario Michael Caine): è forse il film più “prosaico” di Sorrentino. Non intendo, con questo, definirlo più banale nelle tematiche, nelle vicende o nelle immagini (basti vedere le magnifiche scene della piscina, o del pre-finale con Mick/Harvey Keitel e l’incontro con i suoi vecchi personaggi): ma il messaggio, stavolta, viene lasciato trasparire in maniera evidente, semplice e potente, senza alcuna sottigliezza o cripticità.

Sorrentino ci parla della forza delle emozioni, unico vero motore della nostra vita: “l’emozione è la cosa più potente”, dice Mick prima di uccidersi. Solo quell’emozione può scuotere i personaggi dal loro torpore: che sia rendersi conto di quanto stupido e supponente fosse il proprio punto di vista sul mondo,  e decidere di voler raccontare l’entusiasmo, la vitalità dell’uomo e non più il suo negativo (Jimmy/Paul Dano – straordinario come sempre, attore sottovalutato come pochi); che sia abbandonarsi ad una relazione improbabile con uno pseudo-sconosciuto, e provare il brivido di una ripida scalata (fisica ed emotiva – Lena/Rachel Weisz, più bella che mai); che sia anche un’emozione negativa, che ti porta a capire come il tuo tempo sia ormai trascorso, ma che ti faccia anche ricordare quanto di potente e straordinario hai compiuto in precedenza (Mick). Tutto vale, ogni emozione è motore di vita o di morte: il resto è apatia, grigiore squallido.

Youth è pura emozione: nelle sue meravigliose scene, marchio di fabbrica di Sorrentino; nella recitazione di un cast all-star perfetto; nelle piccole chicche che sanno spiazzarti (Maradona in primis, ma anche il piccolo violinista ammiratore di Ballinger o la bellissima Miss Universo); nella straordinaria colonna sonora (non solo la fenomenale Simple Song #3 che metto in MOVIEQUOTE, ma anche le due canzoni di Mark Kozalek – Onward Ceiling Gazing – o il sempreverde David Byrne con Dirty Hair, e altre ancora).

Una perfetta commistione di semplicità e “grande bellezza” sorrentiniana, che difficilmente fallirà nel suo principale obiettivo: ricordarci quanto sia straordinario vivere e morire, sapendo emozionare e lasciarsi emozionare, senza rinnegare il passato ma senza neanche farsi inviluppare da esso nell’apatia. Perchè la fine sia sempre un applauso commosso e commovente, e non un ricordo invisibile che solo le tue mani sembrano sfiorare.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Premi Oscar 2014

Oscar 2014: i favoriti secondo i bookmakers

Questa volta, invece del solito discorso su quanto gli Oscar siano importanti a livello mediatico e comunque – per un modo o per un altro – “affascinanti”, voglio proprio concedermi un angolo di campanilismo.

MA VIENI CHE LA GRANDE BELLEZZA HA VINTO L’OSCAR! ANDIAMO PAOLONE!

Finito il momento goduta nazional-popolare, vi invito:

1) a rileggervi la mia recensione di cotal vincitore.

2) a gustarvi la mia solita disamina delle 8 principali categorie – cliccando sui titoli dei film verrete rispediti alla mia recensione, qualora disponibile.

LEGENDA

GRASSETTO: Vincitore.

SOTTOLINEATO: Vincitore nella mia modestissima opinione.

ROSSO: Nome che avrei selezionato per la cinquina.

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Richard Linklater (Before Midnight)

Billy Ray (Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto)

John Ridley (12 Anni Schiavo)

Terence Winter (The Wolf Of Wall Street)

Steven Coogan (Philomena)

Purtroppo su entrambe i premi di sceneggiatura dovrò sospendere il giudizio. Picchiatemi pure, ma è così. Per quanto riguarda gli script adattati da precedenti lavori, il problema è che avendone visti solo 2 su 5 (tra cui il vincitore) non me la sento di esprimere un parere preciso. Onestamente dubito di essere troppo d’accordo, visto che già trovo la sceneggiatura di Winter  per The Wolf Of Wall Street superiore, ma comunque ai posteri eccetera…

John Ridley Best Adapted Screenplay - P 2014

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

Eric Singer e David O. Russell (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Woody Allen (Blue Jasmine)

 Spike Jonze (Lei – Her)

Bob Nelson (Nebraska)

Craig Borten e Melisa Wallack (Dallas Buyers Club)

Qua invece non è colpa mia, bensì della sempre più ottima distribuzione italiana, che non è riuscita a portare in tempo nelle sale il vincitore del premio. Ho visto gli altri quattro candidati, ma finchè non vedo il trionfatore della categoria non posso davvero permettermi di sparare a zero un parere (anche perchè io adoro Jonze, e sono pressochè certo che questo Her farà faville in casa Cinemalato).

Spike Jonze in the press room at the 86th Annual Academy Awards

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Sally Hawkins (Blue Jasmine)

Julia Roberts (I segreti Di Osage County)

Lupita Nyong’o (12 Anni Schiavo)

Jennifer Lawrence (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

June Squibb (Nebraska)

“Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire”. L’unica assente delle 5 alla mia visione è Julietta Roberts, che dubito possa smuovere troppo gli equilibri. Onestamente trovo non solo assurdo il premio alla Nyong’o (che appare davvero pochissimo – e quando una appare così poco solitamente mi infastidisce che riceva simili premi, seppur nella categoria di supporto), ma anche che la competizione fosse tra lei e la Lawrence di American Hustle: Sally Hawkins in Blue Jasmine e la vecchietta sprint di June Squibb in Nebraska erano decisamente le mie favorite – tutt’altro personaggio e tutt’altro modo di recitare, decisamente più di mio gradimento. Sto seriamente pensando a qualche possibile rimpiazzo, a qualche nome importante rimasto fuori dalla cinquina, ma non mi vengono in mente serie competitrici. Credo sia stata una delle annate “migliori” in quanto a nomination, nella storia dell’Academy.

Lupita Oscar Win - P 2014

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Barkhad Abdi (Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto)

Bradley Cooper (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Jonah Hill (The Wolf Of Wall Street)

Michael Fassbender (12 Anni Schiavo)

Jared Leto (Dallas Buyers Club)

Non so cosa pensare, onestamente. Leto è strepitoso in Dallas Buyers Club, ma quella che ritenevo la mia performance preferita nella categoria “sine dubio” è stata invece messa in questione dalla strepitosa prova di Fassbender in 12 Anni Schiavo (al più presto la recensione!). Credo che alla fine mi limiterò al plauso per il cantante dei 30 Seconds To Mars, sicuramente più bravo in campo cinematografico che non in quello musicale, e per la fragilissima (in tutti sensi) Drag Queen che incarna nel suddetto film. Bravo/a Jared/Rayon! (Anche qui non mi vengono in mente molti nomi utili per un rimpiazzo, onestamente)

Jared Leto Onstage - P 2014

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Amy Adams (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Cate Blanchett (Blue Jasmine)

Sandra Bullock (Gravity)

Judi Dench (Philomena)

Meryl Streep (I Segreti Di Osage County)

CATE, CATE, CATE! L’altra vittoria, insieme a quella del buon Sorrentino, per cui “godo come un riccio” (cit. Tiziano Crudeli). Non solo Cate è una delle più grandi attrici della sua generazione (ma anche più in generale); non solo è stata defraudata almeno un paio di volte (mi vengono in mente Elizabeth agli Oscar 1999 e Io Non Sono Qui agli Oscar 2008); ma si prende la sua rivincita in un film dell’amatissimo Woody! E con una Signora Prestazione di tutto rispetto. Non ho visto due nomi importanti, ovvero la Dench di Philomena e la Streep di Osage County, ma qui mi sento di fare l’azzardo: trattasi di premio Strameritato! Grande Cate e grande Blue Jasmine! Anche qua non mi viene in mente un granchè nel reparto “panchina”: forse potevano almeno nominare le due strepitose attrici di La Vita Di Adele, ma era davvero difficile aspettarsi una simile nomination per due attrici straniere…

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

Bruce Dern (Nebraska)

Chiwetel Ejiofor (12 Anni Schiavo)

Christian Bale (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Leonardo DiCaprio (The Wolf Of Wall Street)

Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club)

LA gara della serata – difficilmente ricordo un così alto livello addirittura di 3 dei cinque candidati. E anche nel mio personale cuoricino la sfida tra McConaughey, DiCaprio e Dern è stata dura et ardua: ma alla fine il malinconicamente grandioso Woody/Bruce Dern dell’eccellente Nebraska ha trionfato. E speravo, come in un bel sogno, che potesse trionfare anche nella realtà – dove invece, a ricordarmi come mai non potrei mai essere un membro votante dell’Academy – ha vinto addirittura quello che ritengo il “peggiore” della terzina. Comunque lode all’ottimo McConaughey di Dallas Buyers Club, augurandomi che continui su questa ottima strada; un abbraccio di consolazione a Leo, che non riesce mai a vincerla ‘sta statuetta (nonostante la grande prova in The Wolf Of Wall Street); un inchino al già citato Dern e alla sua commovente performance; un “buu” di disapprovazione all’Academy per aver nominato il bolsissimo Bale di American Hustle invece del solitario Oscar Isaac per A Proposito Di Davis

MIGLIOR REGIA

Alfonso Cuarón (Gravity)

Steve McQueen (12 Anni Schiavo)

David O. Russell (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Martin Scorsese (The Wolf Of Wall Street)

Alexander Payne (Nebraska)

Tralasciando che adoro la posa che ha fatto Alfonsone con le sue due statuette – una anche per il montaggio -, credo che l’unico competitore serio al buon Cuarón fosse Alexander Payne per Nebraska: il vibrante Scorsese, per quanto mi riguarda, non era comunque al livello del delicatissimo tocco di Payne e della sorprendente e allucinante mezz’ora iniziale di Gravity – il senso di vuoto, paura e spaesamento che riesce a creare, al contempo però mantenendo intatto il fascino e la meraviglia dello spazio cosmico, è incredibile. E alla fine è giusto che il premio, tra la sensibilità emotiva e la perizia tecnica, vada alla seconda in questa categoria. Bravo Alfonso, e bravi giurati! Un po’ meno lo siete stati in fase di nomina, visto che il prevedibilissimo O. Russell di American Hustle ha tolto un posto ai fratellini Coen per A Proposito Di Davis.

MIGLIOR FILM

12 Anni Schiavo

American Hustle – L’Apparenza Inganna
Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto
Dallas Buyers Club
Gravity
Lei – Her
Nebraska
Philomena
The Wolf Of Wall Street
Mi mancano ben 3 candidati (Captain Phillips, Her e Philomena), ma posso già dire un paio di cose.
1) 12 Anni Schiavo è il solito film di McQueen: bello, potenzialmente fortissimo, ma si perde in alcuni punti.
2) Dubito seriamente che Nebraska possa essere scalzato dalla cima del Podio di qui alla fine della Stagione (e ancora mancano quattro mesi).
Un posticino per A Proposito Di Davis e anche per il “buono” ma non “buonista” I Sogni Segreti Di Walter Mitty l’avrei onestamente cercato e trovato. A parte questo, sono contento che non abbia vinto lo scontatissimo American Hustle – L’Apparenza Inganna, come qualcuno aveva ventilato nei giorni precedenti la cerimonia (pericolo scampato!). E con la locandina del trionfante vincitore, vi saluto e vi dico “alla prossima edizione”!
Not for the faint of heart, and neither should it be, 12 Years A Slave is, befittingly considering the director's original vocation, a work of art

Classifica Stagionale 2012/2013: TOP20 – Parte Alta (10-4)

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Ci avviciniamo al clou del Classificone, ma prima di giungere ai podisti manca ancora da esplorare la Parte Alta, ovvero i primi 7 della TOP10 del Cinemalato (qui le posizione della scorsa Stagione): pur non essendo andati a medaglia, certo non possono lamentarsi della loro posizione! Come sempre cliccando sul titolo del film troverete la mia personale recensione, quando disponibile.

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10) La Migliore Offerta, di Giuseppe Tornatore (2013)

Dall’Italia con furore, Tornatore torna (…) sui maxi-schermi con un thriller/romance dalle atmosfere (e ambientazioni) europee. Gran ritmo e ottima costruzione della vicenda (e dei personaggi), in grado di appassionare lo spettatore e anche di farlo (un minimo) riflettere sul valore dell’arte, ma anche sulla sua (a volte) incredibile ambiguità. Rush strepitoso, il resto del cast non è da meno: se non fosse che si perde un po’ nel finale, troppo lungo/telefonato, avrebbe potuto sperare in una piazza più alta.

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9) Spring Breakers – Una Vacanza Da Sballo, di Harmony Korine (2012)

Una pellicola di un vuoto allucinante, perfetta per parlare del vuoto adolescenziale (e non) di un’intera generazione. Sicuramente “povera” a livello registico, e un po’ ripetitiva, ma Korine riesce a farsi forte di questa povertà (in tutti i sensi) di soggetto e di questo loop narrativo, usandoli come arma per aumentare la sensazione di noia e vuoto nello spettatore. Da vedere, soprattutto per mandare in culo i distributori italiani de ‘sto cazzo, che con il sottotitolo (orripilante e fuorviante) di Una Vacanza Da Sballo lo volevano far passare per una delle solite Commedie adolescenziali all’Americana.

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8) Django Unchained, di Quentin Tarantino (2012)

Tarantino in un folle e ironico omaggio al Western selvaggio degli Spaghetti-Western italiani (Django è film del 1966, diretto da Sergio Corbucci, tra l’altro con Franco Nero – che qui appare in un breve cameo – come protagonista). Tanto sangue, tante risate (epocale la cavalcata del Ku-Klux-Klan, interrotta sul più bello per farne vedere l’esilarante antefatto), un po’ troppo eccesso (tipico del buon Quentin, ma che non ho mai apprezzato quando gli sfugge di mano) nel finale: fino a quel momento, Django Unchained mi aveva ricordato la grazia dei Coen (irraggiungibile), ma che Tarantino sarebbe senza una “Tarantinata”?

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7) Pietà, di Kim Ki-Duk (2012)

Ed ecco qua l’unico film della Stagione a non aver una propria recensione. E me ne vergogno profondamente, perché l’ultima fatica di Kim è (pur non al livello dei meravigliosi Primavera, Estate, Autunno, Inverno… E Ancora Primavera Ferro 3 – La Casa Vuota) una struggente lirica sulla morte, e sull’Amore di una madre per il figlio (gli straordinari Cho Min-Soo e Lee Jung-Jin). Inizialmente la sua poetica Cinematografica, fatta di “sovrumani silenzi” di Leopardiana memoria, non mi aveva convinto troppo, visto l’estremo e crudo realismo in cui si ambienta la vicenda, ma alla lunga il valore artistico di un tale Autore emerge sempre: un altro grande centro della Mostra Veneziana, che ormai da 3 anni assegna in maniera esemplare il suo maggior riconoscimento (Leone D’Oro).

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6) Il Grande Gatsby, di Baz Luhrmann (2013)

Quest’ultimo lavoro del buon Luhrmann è stato stroncato da molti, cosa che ad oggi non capisco: sembra a me, difatti, che la vicenda narrata da Fitzgerald sia perfetta per essere portata sugli schermi con i modi e lo stile di Baz, così luccicanti e plasticosi (ai limiti del trash), esattamente come lo è la società descritta nel cartaceo. Con una grande colonna sonora contemporanea, scenografie immensamente kitch, e un Attore (Di Caprio) che in questa Stagione ha tirato fuori una doppietta clamorosa (oltre a questo, anche Django Unchained), Il Grande Gastby entra di diritto nella mia personale TOP10.

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5) Moonrise Kingdom – Una Fuga D’Amore, di Wes Anderson (2012)

Prendete la solita favola intellettual-radical-chic-iper-colorata di Wes Anderson, un cast stellare (Bruce Willis, Frances McDormand, Edward Norton, Tilda Swinton…) con i suoi attori feticci (Bill Murray), due protagonisti strepitosamente accattivanti. Ci siete? Bene, ora aggiungete Cuore e Genuinità, un’ironia meravigliosamente paradossale (la recita “L’arca di Noè” annullata per diluvio: genio allo stato puro!), e una delle scene più belle (la più bella?) dell’anno, e otterrete un signor film: da servire in una giornata uggiosa, per scacciare via tutte le preoccupazioni (questo commento mi sa molto di Melevisione…).

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4) La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino (2013)

Dopo  che la scorsa Stagione il suo This Must Be The Place era finito ad ingrossare le fila del Fondo Del Barile, tanto deludente da diventare addirittura il simbolo della “Delusione D’Autore” nel mio personale “Locandimetro”, ecco che Paolo si riscatta alla grandissima, firmando uno dei suoi migliori film (ad oggi, solo Le Conseguenze Dell’Amore si trova sopra, per quel che mi riguarda). Ispirato in maniera palese alla Felliniana Dolce Vita, ne reinterpreta la vicenda e le cifre stilistiche con grande intensità e senso dell’Arte, avvalendosi inoltre di un enorme Attore (Toni Servillo, attualmente il più bravo tra gli Italiani, peraltro presente in altri due film nella Stagione in esame) da cui Sorrentino riesce sempre a tirare fuori il meglio. Fosse stato un pelino più corto, soprattutto nella parte finale, sarebbe sicuramente andato a medaglia: ma la priorità era ritrovare subito questo grande Regista Italiano, e l’obiettivo è stato pienamente conseguito.

La Grande Bellezza (2013)

Spaccato nella vita di Jep Gambardella, 65enne scrittore (di  un solo libro, in verità) e giornalista, affascinante nel suo cinismo controllato, decisamente inserito nella vita mondana di Roma: la sua esistenza si trascina stancamente, tra cose che non ha voglia di fare, e altre che piano piano gli sfuggono dalle mani, scompaiono alla sua vista. E torna la voglia di tentare un ultimo trucco: scrivere un secondo romanzo.

Questa pellicola è densa di situazioni, di piccoli episodi, di personaggi: e proprio per questo, per questa recensione voglio provare a partire dai nomi, quelli che stanno alla base del film, dentro al film e “dietro” al film, perchè alla fine sono loro i 3 grandi personaggi da cui muove tutto.

1) Federico Fellini. Il nome del Cineasta Romagnolo è legato, indubbiamente, alla sua Opera Omnia (di cui, personalmente, ritengo 8 1/2 rappresentarne l’apice assoluto), e dunque isolare un singolo film potrebbe sembrare blasfemo o poco generoso: tuttavia lo farò ugualmente, perchè La Dolce Vita qui è modello e precursore (fin dalla condivisa partecipazione al Festival di Cannes). È una Roma decadente, quella che ci viene dispiegata di fronte agli occhi, decadente perchè annoiata, svogliata, impigrita: i party sono l’unico modo per far finta che tutto vada alla grande, che la vita sia divertente e piena di eventi, di emozioni, di novità. Inutile dire che tutto questo è già presente nell’Opera che vinse la Palma D’Oro al Festival del 1960, ormai 53 anni or sono, andando proprio a smascherare un’epoca, una società, una città fatte di splendore, ma che sottintendevano un’atmosfera di inquietudine e vacuità a dir poco spaventosa. E anche le venature grottesche si richiamano al surrealismo Felliniano (la direttrice nana, tutta vestita di blu; la giraffa e i fenicotteri assolutamente “fuori luogo”, geograficamente parlando…). 

2) Toni Servillo. Toni è ENORME. Punto, e a capo. In primis è enorme come Attore in generale, ipotesi facilmente comprovabile vedendolo in film “mediocri” (quando non brutti) come La Ragazza Del Lago, È Stato Il Figlio, Bella Addormentata, dove da solo risolleva la pellicola, dando spessore a personaggi non sempre così convincenti su carta; in secundis, è Enorme quando è diretto dal regista de La Grande Bellezza, che l’ha guidato anche in L’Uomo In PiùLe Conseguenze Dell’AmoreIl Divo, prove che (soprattutto quest’ultima) entrano di diritto nell’Olimpo della recitazione Italiana (e non); è poi ENORME in questo specifico film, nella parte del “mondano” Jep (che tanto mondano non è, bloccato com’è a Roma dalla sua pigrizia fisica e intellettuale), che incarna dotandolo di una grande, malleabile maschera di cinismo, malinconia, tristezza, speranza, ironia, amore, odio, umanità, tanto che solo vederlo camminare, respirare, pensare, parlare, osservare diventa (di per sè) motivo di grande interesse. E se questo non denota ancora l’ENORMITA’ dell’arte recitativa di Toni Servillo, vuol dire che le parole non sono sufficientemente adeguate a farlo.

3) Paolo Sorrentino. Se lo spunto della narrazione, palesemente ripreso dal regista riminese, potrebbe far dire ai più “bella forza, bello sforzo creativo”, il terzo nome della lista può mettere a tacere (in gran parte) critiche di questo tenore. Perchè Sorrentino sa scrivere e sa dirigere come pochi in Italia, e questo fatto innegabile (nonostante il mega-capitombolo con quella “Delusione D’Autore” che è This Must Be The Place) è ancor più evidente dopo la visione de La Grande Bellezza: il regista crea un itinerario vasto e universale, spaziando da momenti di grottesca inquietudine (i già citati fenicotteri e giraffa) e da slanci di cruda satira (la “messinscena” di Jep al funerale, che si rifà alle atmosfere de Il Divo, fa quasi paura da tanto è fintamente e programmaticamente melodrammatica) ad altri di intimistica commozione (la “storia d’amore” tra Toni e un’intensa Sabrina Ferilli, magnifica e seducente come mai) o di fiabesco incanto (la scoperta dei palazzi Romani, di cui un uomo solo possiede tutte le chiavi); lo sceneggiatore riesce a dare un’accezione diversa all’idea Felliniana, spostando l’attenzione sul percorso esistenziale-personale di ognuno, rivelatosi infine agli occhi di Jep come “trucco”, invenzione romanzata, nel momento in cui anche la possibilità di un dialogo soprannaturale e spirituale con un Dio svanisce, data la vacuità delle stesse figure religiose che Jep frequenta (non riesco a vedere, come molti, la Santa Maria in qualità di guida che apre gli occhi al protagonista). Sorrentino, insomma, spezza e frantuma ben più di quanto Fellini non avesse fatto, dona una maggior consapevolezza drammatica ai suoi personaggi, fa di Roma un modello universale e non un caso particolare.

In sintesi, siete avvertiti: La Grande Bellezza è un’esperienza da considerare assolutamente nuova, tutta da vivere e scoprire fotogramma dopo fotogramma. Di sicuro è una pellicola con i suoi difetti narrativi, fin troppo lunga (data l’esile trama), e comunque fortemente ispirata ad un grande soggetto già usato nel passato: ma permettetemi di aggiungere un quarto nome al mio elenco, un nome decisamente minore rispetto ai tre sopraelencati, la cui dichiarazione mi sembra però utile per chiudere in “bellezza” questo excursus recensorio.

4) Guido Giovannetti (Il Cinemalato). Recensore/Appassionato, sostiene che La Grande Bellezza è un film che rimarrà nella Storia Cinematografica nostrana.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

È solo un trucco. È solo un trucco. È solo un trucco.