Carol (2015)

New York, 1952: Therese Belivet, giovane commessa in un negozio di giocattoli, entra in contatto con un’affascinante ed elegante signora di mezza età, Carol Aird, per via di un regalo che la donna deve fare alla figlia. Da quel primo contatto, tra le due inizierà una relazione che va ben oltre la semplice amicizia: ma l’ex marito di Carol (che non si è rassegnato alla realtà) decide di mettere l’affido della figlia in mezzo alla relazione tra le due…

Non vedevo Todd Haynes su questi schermi dal lontanissimo 2002, quando uscì al Cinema Lontano Dal Paradiso (anche se il film l’ho recuperato in  seguito, circa 5-6 anni fa). La pellicola non mi fece completamente impazzire (sembrava una versione in sordina di American Beauty, per tanti aspetti), ma c’erano alcuni elementi interessanti: anzitutto una grande performance dei due attori principali (Dennis Quaid, ma soprattutto una straordinaria Julianne Moore); ma anche un’estetica davvero suadente, fatta di colori pastello e una luce innaturale che sembrava congelare ogni singolo fotogramma in una vecchia istantanea (un po’ una “piccola cosa di pessimo gusto” di gozzaniana memoria).

Carol recupera il precedente lavoro di Haynes sotto alcuni aspetti: la costruzione di un melodramma con forte opposizione tra l’individuo e la società in cui vive; l’essere incentrato su una coppia di personaggi; il fascino “glaciale” di una fotografia vintage. Ma Carol va anche decisamente oltre al film del 2002, e lo fa in virtù di un’esasperazione di alcuni elementi di Lontano Dal Paradiso (un po’ come Somewhere ha fatto con Lost In Translation): la lentezza della vicenda e la recitazione in sordina delle due protagoniste servono a creare una pellicola che si crogiola nelle eleganti atmosfere, salvo poi spezzarle di netto (ma senza “scene-madre”) scardinandone la freddezza con l’emozione.

La storia d’amore tra Carol e Therese è potente e devastante proprio in virtù di questo suo essere spesso taciuta, e molto “contenuta” (negli sguardi, nei silenzi, nei gesti, nei vestiti stessi…). Non c’è forzatura, non c’è ellissi: Haynes e la sceneggiatrice Phyllis Nagy si prendono tutto il tempo necessario a far entrare in contatto due corpi e due anime così diversi tra loro (quali quella di una 19enne e di una donna matura), per poi condurre la coppia lungo un crescendo di tensione emotiva che si scontra con la formale perfezione della pellicola (e della società). E non è il sesso ad essere apice del climax, ma i devastanti effetti della difficoltà di relazione tra le due – condensati nella scena del telefono e in quella (bellissima) che apre e chiude la pellicola in una duplice e sorprendente prospettiva (fino a quel “ti amo” che si svuota di ogni banalità per colpire diritto al cuore).

Non importa che la coppia sia omosessuale: Carol non è assolutamente dalle parti di un film retorico come Freeheld, nè al contempo si perde in lungaggini come La Vita Di AdeleHaynes torna all’essenziale per raccontarci dell’amore e della sua semplice complessità: lo fa tramite due attrici straordinarie (Cate Blanchett e Rooney Mara, entrambe da Oscar), un plot intelligente ma mai cervellotico o esagerato, una confezione inappuntabile ed un’emozione che non finirà mai di stupirci e di muovere il mondo.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Mi manchi… Mi manchi…

Lo Hobbit – La Battaglia Delle Cinque Armate (2014)

Rivendicato finalmente in possesso della montagna solitaria e delle sue ricchezze, i nani e Bilbo notano in Thorin un enorme cambiamento: il leale Scudodiquercia sembra infatti essere stato completamente accecato dall’immenso tesoro accumulato dai nani, e vaga come un disperato alla ricerca della preziosissima Arkengemma – il gioiello del re, che sembra valere per lui più di ogni altra cosa. Nel frattempo, gli elfi di Bosco Atro e gli umani di Pontelagolungo si alleano per assediare Erebor: rivendicano infatti una parte delle ricchezze, a causa di promesse fatte in precedenza da Thorin e dai nani. Oltre a questa possibile scintilla di guerra, in silenzio stanno sopraggiungendo anche gli orchi di Azog, condotti di nascosto attraverso i cunicoli scavati dai Mangiaterra…

Il “viaggio inaspettato” de Lo Hobbit giunge a conclusione in questo 2014. Più che di “inaspettato” (come titolava il primo episodio della saga, a cui ha fatto seguito La Desolazione Di Smaug nella scorsa Stagione), verrebbe da parlare di “complicato”: come è ben noto, il progetto era stato inizialmente affidato alle mani di Guillermo Del Toro (Il Labirinto Del Fauno), e solo in un secondo momento Peter Jackson se ne è re-impossessato fino all’ultimo dettaglio. Questo ha portato effettivamente ad un processo di “ritorno al Signore Degli Anelli” impossibile da non notare.

Il primo episodio della serie è decisamente “fuori luogo” rispetto a quanto l’ha poi seguito: un’avventura decisamente più “fantasy”, con poche o nulle punte di epico, su cui aleggiava anche una certa vena ironica (la scena dei due troll tonti, e il perfetto Bilbo Baggins/Martin Freeman – antieroe impacciato e british al punto giusto). La deriva fiabesca della pellicola – che mi aveva molto incuriosito – si è però immediatamente andata a scemare nel secondo episodio, portando ad un indefinibile mix di epica e leggerezza – a tratti funzionale (l’inseguimento giù per le rapide) a tratti francamente “cartoonesco” nel senso più negativo del termine (lo stupidissimo combattimento con il drago). Questo terzo episodio, infine, è tutta farina del sacco di Jackson, e ci riporta direttamente agli anni tra il 2001  e il 2003 e alla Saga con la S maiuscola.

E sicuramente La Battaglia Delle Cinque Armate rappresenta un notevole passo avanti rispetto al deludente (seppure ben fatto) secondo episodio. Se mai ce ne fosse bisogno, Jackson ci ricorda che la sua bravura nell’impostare e nel dirigere le scene di guerra è pressochè impareggiabile: si offre allo sguardo dello spettatore uno scontro di notevoli proporzioni, probabilmente paragonabile a quello di Minas Tirith de Il Ritorno Del Re (secondo solo all’insuperabile Fosso di Helm de Le Due Torri). È davvero apprezzabile anche il lavoro di scavo psicologico effettuato su Thorin – sicuramente memore in parte dell’accidioso fantasma-Theoden – atto a rendere meno statico un personaggio centrale ma mai davvero sotto la luce dei riflettori (almeno finora). E l’osceno spunto di storia d’amore tra l’elfa Tauriel e il nano Kili viene invece sfruttato in maniera intelligente, portando ad una conclusione funzionale e non scontata.

Non a caso, bisogna far notare come il personaggio di Bilbo scompaia praticamente dalla scena. Certo, anche nel libro la sua centralità non rimane più tale al momento della guerra, ma non posso non pensare che Jackson non sia riuscito a relazionarsi troppo bene con un personaggio ideato per essere più “comico” e “basso” delle sue controparti “epiche” de Il Signore Degli Anelli: ed allora ecco che, nel momento in cui l’aria si colora nettamente delle tonalità di LOTR, Bilbo venga a mancare dalla scena molto spesso – Legolas, Thorin, Azog, Thranduil, Dain Piediferro: questi gli “eroi” che tanto si confanno a Peter Jackson e alla battaglia.

Questo Lo Hobbit, quindi, rimarrà impresso nella mia memoria cinefila accompagnato da un sapore dolceamaro. Per due motivi. 1) Perchè all’inedita bellezza che mi lasciò davvero soddisfatto dopo la prima visione, si è poi accompagnata una già testata efficacia – ormai però priva della passata potenza, anche a causa di un soggetto ben diverso –  che non mi ha più regalato quel brividino di piacere. 2) Perchè il pensiero che vada a calare definitivamente il sipario su un soggetto che tanto ha voluto significare per la mia (e di molti) adolescenza cinefila – e che vada a calare in maniera non magistrale, come accadde per la prima trilogia – è indubbiamente triste. Ma per questi due, preziosi (a loro modo entrambi) compagni di Cinema, sento comunque di dover ringraziare di cuore Peter Jackson una volta di più: grazie di tutto, è stato davvero un bel viaggio – a tratti “inaspettato”, a tratti “meraviglioso”, ma sempre e comunque importante.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Non ho alcun diritto di chiedervelo… ma mi seguireste, un’ultima volta?

Premi Oscar 2014

Oscar 2014: i favoriti secondo i bookmakers

Questa volta, invece del solito discorso su quanto gli Oscar siano importanti a livello mediatico e comunque – per un modo o per un altro – “affascinanti”, voglio proprio concedermi un angolo di campanilismo.

MA VIENI CHE LA GRANDE BELLEZZA HA VINTO L’OSCAR! ANDIAMO PAOLONE!

Finito il momento goduta nazional-popolare, vi invito:

1) a rileggervi la mia recensione di cotal vincitore.

2) a gustarvi la mia solita disamina delle 8 principali categorie – cliccando sui titoli dei film verrete rispediti alla mia recensione, qualora disponibile.

LEGENDA

GRASSETTO: Vincitore.

SOTTOLINEATO: Vincitore nella mia modestissima opinione.

ROSSO: Nome che avrei selezionato per la cinquina.

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Richard Linklater (Before Midnight)

Billy Ray (Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto)

John Ridley (12 Anni Schiavo)

Terence Winter (The Wolf Of Wall Street)

Steven Coogan (Philomena)

Purtroppo su entrambe i premi di sceneggiatura dovrò sospendere il giudizio. Picchiatemi pure, ma è così. Per quanto riguarda gli script adattati da precedenti lavori, il problema è che avendone visti solo 2 su 5 (tra cui il vincitore) non me la sento di esprimere un parere preciso. Onestamente dubito di essere troppo d’accordo, visto che già trovo la sceneggiatura di Winter  per The Wolf Of Wall Street superiore, ma comunque ai posteri eccetera…

John Ridley Best Adapted Screenplay - P 2014

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

Eric Singer e David O. Russell (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Woody Allen (Blue Jasmine)

 Spike Jonze (Lei – Her)

Bob Nelson (Nebraska)

Craig Borten e Melisa Wallack (Dallas Buyers Club)

Qua invece non è colpa mia, bensì della sempre più ottima distribuzione italiana, che non è riuscita a portare in tempo nelle sale il vincitore del premio. Ho visto gli altri quattro candidati, ma finchè non vedo il trionfatore della categoria non posso davvero permettermi di sparare a zero un parere (anche perchè io adoro Jonze, e sono pressochè certo che questo Her farà faville in casa Cinemalato).

Spike Jonze in the press room at the 86th Annual Academy Awards

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Sally Hawkins (Blue Jasmine)

Julia Roberts (I segreti Di Osage County)

Lupita Nyong’o (12 Anni Schiavo)

Jennifer Lawrence (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

June Squibb (Nebraska)

“Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire”. L’unica assente delle 5 alla mia visione è Julietta Roberts, che dubito possa smuovere troppo gli equilibri. Onestamente trovo non solo assurdo il premio alla Nyong’o (che appare davvero pochissimo – e quando una appare così poco solitamente mi infastidisce che riceva simili premi, seppur nella categoria di supporto), ma anche che la competizione fosse tra lei e la Lawrence di American Hustle: Sally Hawkins in Blue Jasmine e la vecchietta sprint di June Squibb in Nebraska erano decisamente le mie favorite – tutt’altro personaggio e tutt’altro modo di recitare, decisamente più di mio gradimento. Sto seriamente pensando a qualche possibile rimpiazzo, a qualche nome importante rimasto fuori dalla cinquina, ma non mi vengono in mente serie competitrici. Credo sia stata una delle annate “migliori” in quanto a nomination, nella storia dell’Academy.

Lupita Oscar Win - P 2014

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Barkhad Abdi (Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto)

Bradley Cooper (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Jonah Hill (The Wolf Of Wall Street)

Michael Fassbender (12 Anni Schiavo)

Jared Leto (Dallas Buyers Club)

Non so cosa pensare, onestamente. Leto è strepitoso in Dallas Buyers Club, ma quella che ritenevo la mia performance preferita nella categoria “sine dubio” è stata invece messa in questione dalla strepitosa prova di Fassbender in 12 Anni Schiavo (al più presto la recensione!). Credo che alla fine mi limiterò al plauso per il cantante dei 30 Seconds To Mars, sicuramente più bravo in campo cinematografico che non in quello musicale, e per la fragilissima (in tutti sensi) Drag Queen che incarna nel suddetto film. Bravo/a Jared/Rayon! (Anche qui non mi vengono in mente molti nomi utili per un rimpiazzo, onestamente)

Jared Leto Onstage - P 2014

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Amy Adams (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Cate Blanchett (Blue Jasmine)

Sandra Bullock (Gravity)

Judi Dench (Philomena)

Meryl Streep (I Segreti Di Osage County)

CATE, CATE, CATE! L’altra vittoria, insieme a quella del buon Sorrentino, per cui “godo come un riccio” (cit. Tiziano Crudeli). Non solo Cate è una delle più grandi attrici della sua generazione (ma anche più in generale); non solo è stata defraudata almeno un paio di volte (mi vengono in mente Elizabeth agli Oscar 1999 e Io Non Sono Qui agli Oscar 2008); ma si prende la sua rivincita in un film dell’amatissimo Woody! E con una Signora Prestazione di tutto rispetto. Non ho visto due nomi importanti, ovvero la Dench di Philomena e la Streep di Osage County, ma qui mi sento di fare l’azzardo: trattasi di premio Strameritato! Grande Cate e grande Blue Jasmine! Anche qua non mi viene in mente un granchè nel reparto “panchina”: forse potevano almeno nominare le due strepitose attrici di La Vita Di Adele, ma era davvero difficile aspettarsi una simile nomination per due attrici straniere…

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

Bruce Dern (Nebraska)

Chiwetel Ejiofor (12 Anni Schiavo)

Christian Bale (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Leonardo DiCaprio (The Wolf Of Wall Street)

Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club)

LA gara della serata – difficilmente ricordo un così alto livello addirittura di 3 dei cinque candidati. E anche nel mio personale cuoricino la sfida tra McConaughey, DiCaprio e Dern è stata dura et ardua: ma alla fine il malinconicamente grandioso Woody/Bruce Dern dell’eccellente Nebraska ha trionfato. E speravo, come in un bel sogno, che potesse trionfare anche nella realtà – dove invece, a ricordarmi come mai non potrei mai essere un membro votante dell’Academy – ha vinto addirittura quello che ritengo il “peggiore” della terzina. Comunque lode all’ottimo McConaughey di Dallas Buyers Club, augurandomi che continui su questa ottima strada; un abbraccio di consolazione a Leo, che non riesce mai a vincerla ‘sta statuetta (nonostante la grande prova in The Wolf Of Wall Street); un inchino al già citato Dern e alla sua commovente performance; un “buu” di disapprovazione all’Academy per aver nominato il bolsissimo Bale di American Hustle invece del solitario Oscar Isaac per A Proposito Di Davis

MIGLIOR REGIA

Alfonso Cuarón (Gravity)

Steve McQueen (12 Anni Schiavo)

David O. Russell (American Hustle – L’Apparenza Inganna)

Martin Scorsese (The Wolf Of Wall Street)

Alexander Payne (Nebraska)

Tralasciando che adoro la posa che ha fatto Alfonsone con le sue due statuette – una anche per il montaggio -, credo che l’unico competitore serio al buon Cuarón fosse Alexander Payne per Nebraska: il vibrante Scorsese, per quanto mi riguarda, non era comunque al livello del delicatissimo tocco di Payne e della sorprendente e allucinante mezz’ora iniziale di Gravity – il senso di vuoto, paura e spaesamento che riesce a creare, al contempo però mantenendo intatto il fascino e la meraviglia dello spazio cosmico, è incredibile. E alla fine è giusto che il premio, tra la sensibilità emotiva e la perizia tecnica, vada alla seconda in questa categoria. Bravo Alfonso, e bravi giurati! Un po’ meno lo siete stati in fase di nomina, visto che il prevedibilissimo O. Russell di American Hustle ha tolto un posto ai fratellini Coen per A Proposito Di Davis.

MIGLIOR FILM

12 Anni Schiavo

American Hustle – L’Apparenza Inganna
Captain Phillips – Attacco In Mare Aperto
Dallas Buyers Club
Gravity
Lei – Her
Nebraska
Philomena
The Wolf Of Wall Street
Mi mancano ben 3 candidati (Captain Phillips, Her e Philomena), ma posso già dire un paio di cose.
1) 12 Anni Schiavo è il solito film di McQueen: bello, potenzialmente fortissimo, ma si perde in alcuni punti.
2) Dubito seriamente che Nebraska possa essere scalzato dalla cima del Podio di qui alla fine della Stagione (e ancora mancano quattro mesi).
Un posticino per A Proposito Di Davis e anche per il “buono” ma non “buonista” I Sogni Segreti Di Walter Mitty l’avrei onestamente cercato e trovato. A parte questo, sono contento che non abbia vinto lo scontatissimo American Hustle – L’Apparenza Inganna, come qualcuno aveva ventilato nei giorni precedenti la cerimonia (pericolo scampato!). E con la locandina del trionfante vincitore, vi saluto e vi dico “alla prossima edizione”!
Not for the faint of heart, and neither should it be, 12 Years A Slave is, befittingly considering the director's original vocation, a work of art

Blue Jasmine (2013)

Jasmine si è appena divorziata dal marito, un ricco imprenditore finito in carcere per illeciti e lì suicidatosi. Avendo perso la quasi totalità dei propri beni, Jasmine non ha più neanche un posto dove poter alloggiare: decide quindi di tornare a S.Francisco dalla sorella, che non è proprio uguale a lei – né conduce uno stile di vita paragonabile a quello ormai passato di Jasmine. Ce la farà la nostra protagonista a trovare un nuovo punto di partenza per la sua vita?

Io amo Woody Allen, ormai dovrebbe essere chiaro. Ho apprezzato, in maniera più o meno idolatra, la quasi totalità dei suoi film (salvo rare, terribili eccezioni – vedi To Rome With Love), perchè lo ritengo un grandissimo costruttore di dialoghi – in ogni suo lavoro sempre perfettamente funzionali e calibrati. Dovendo essere onesto, tuttavia, devo riconoscere che la qualità del dialogo non andava da un po’ di tempo al pari di quella dei personaggi: anche in Midnight In Paris, che pure ho adorato, le figure che animavano la vicenda erano decisamente stereotipate, sebbene non per questo meno funzionali. Per farla brava, era dai tempi di Match Point che Woody non costruiva dei personaggi così: anzi, quelli di Blue Jasmine sono superiori, perchè alla fin dei conti la pellicola del 2005 strizzava molto l’occhio ad un altro precedente di Woody (Crimini E Misfatti, 1989), mentre le sorelle Jasmine e Ginger non mi ricordano precedenti femminili della galleria Alleniana.

Stavolta sono dunque i personaggi a farla da padrona, e con essi ovviamente gli attori (anzi, le attrici) che li incarnano. E sia Cate Blanchett che Sally Hawkins si rivelano adattissime e bravissime: sensazionale Cate/Jasmine, una nevrotica lunatica di chiara matrice Alleniana, ma con un suo personale carico di tristezza e depressione arretrate su cui davvero non c’è niente da ridere; ottima anche Sally/Ginger, un’anima bella nel corpo di una donna bruttina e insicura, ancora un po’ ragazzina dentro e sicuramente ingenua – altro personaggio di chiara matrice Alleniana, ma anche qui illuminato da una pressochè inedita “drammaticità” insita nei suoi stessi difetti. Seriamente fatico a pensare a due attrici migliori per i ruoli, perfette sino dalla totale diversità fisico-somatica – che già a livello estetico sottolinea l’abisso che separa le due personalità.

E poi, ovviamente, le due sono state in grado di rendere, con assoluta naturalezza e credibilità, quella commistione di cui ho accennato: il “potenzialmente comico” che si fa anche “drammatico”. Le due sorelle fanno ridere lo spettatore con tutte le loro nevrosi e le loro esagerazioni (in un senso – Jasmine, che non riesce a vivere senza indossare o possedere qualcosa “di marca” – e nell’altro – Ginger, più eccitata di una ragazzina quando va a fare shopping nei negozi di NY con la sorella), ma fanno anche tanta pena. Si veda la scena, meravigliosa, dove il dentista da cui Jasmine è andata a lavorare tenta di baciarla: sicuramente viene da farsi una risata sentendo quanto Jasmine sia disgustata dalla cosa, ma ci si rende anche conto della spiacevolezza della sua situazione – già ha dei grossi problemi nervosi, già esce da una situazione familiare completamente disintegrata, e ora che le cose sembravano iniziare a stabilizzarsi questo le si getta addosso come una piovra. La stessa MOVIEQUOTE, frase simbolo di Jasmine, è sì divertente, ma nasconde anche un’incredibilmente triste consapevolezza.

Perchè alla fine Blue Jasmine è un film sul passato, e sulla necessità (talvolta) di assimilarlo per poterlo dimenticare e ricominciare da capo. Jasmine non ci riesce: prova a ricostruire il rapporto con la sorella, ma lo fa in maniera malsana (cercando, cioè, di cambiare il suo stile di vita e pressandola affinchè lasci il ragazzo con cui Ginger aveva programmato di sposarsi); prova a buttarsi nel lavoro, ma questo inedito sforzo le fa aumentare le turbe nevrotiche, fino a che non si rende conto di aver bisogno di trovare un altro uomo ricco e affascinante a cui appoggiarsi per il resto della vita; quando trova un pretendente di tale calibro, si rifiuta di rivelargli il proprio triste passato, così che quando lui scopre tutto si sente tradito nella fiducia e la molla. Ginger, al contrario, ci riesce benissimo; il suo primo marito la picchiava, dunque lei l’ha lasciato e si è messa con un altro; la sorella l’ha trattata freddamente in passato, ma ora che ha bisogno di un aiuto Ginger capisce la gravità della situazione e l’accoglie a braccia aperte.

E quei flashback improvvisi, che spesso spaesano lo spettatore (seppure solo per un momento), sono un po’ una metafora della visione di vita di Jasmine, così irrimediabilmente bloccata nel suo passato. Una visione poco chiara, deprimente e irrealizzabile, che estrania dalla realtà e impedisce di affrontarla. E su questa semplice verità, Woody Allen è riuscito a costruire una pellicola valida, con due personaggi che entrano di diritto nella sua galleria storica, con l’aiuto di due attrici assolutamente e semplicemente strepitose: e tutto questo a 78 anni, e alla 46esima regia (visto che si parla tanto di dati anagrafici per Scorsese, mi sembra giusto non sottovalutare pure quelli di quest’altro gigante della Storia del Cinema). Chapeau, davvero.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Con chi dovrei andare a letto per avere un vodka Martini?

Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato (2012)

Bilbo Baggins, vecchio hobbit della Contea, decide di raccogliere le sue memorie in una specie di diario, da tramandare in seguito al nipote Frodo: da giovane ha infatti vissuto numerose avventure insieme ad una bizzarra compagnia, composta da 13 nani al servizio di Thorin Scudodiquercia, e da Gandalf, potente stregone grigio. Insieme affronteranno un cammino intricato e tortuoso per raggiungere il vecchio regno di Thorin, ormai da tempo possesso del temibile drago Smaug.

La trasposizione di un libro Fantasy non è mai affar semplice per un regista/sceneggiatore: all’ordinaria (si fa per dire) difficoltà di non sottrarre fascino a vicenda e personaggi commutando il linguaggio della narrativa in quello (fortemente diverso) dello script cinematografico, ed essere accorti nel non eliminare troppo o voler inserire troppo di proprio nella storia, si aggiunge quello della costruzione scenografica e della resa (tramite effetti speciali) dell’elemento magico. Troppo spesso, per dare risalto a quest’ultimo elemento, si finisce per puntarci troppo e perdere di vista quello che dovrebbe comunque rimanere basilare (vedi gli ultimi 4 capitoli di Harry Potter, episodi scollegati ed inanellati a casaccio, ma supportati da un valido impianto tecnico). In un caso, poi, che mi sta particolarmente a cuore (Eragon), per non rischiare la noia dello spettatore, si è puntato su un film troppo corto come minutaggio, con il risultato che non si riesce minimamente ad assaporare la bellezza delle vicende e dei personaggi inventati da Paolini.

E pensare che dal 2001 al 2003 qualcuno aveva dato l’esempio perfetto da seguire per conseguire l’obiettivo. Questo qualcuno risponde al nome di Peter Jackson, regista della trilogia de Il Signore Degli Anelli: scenari mozzafiato, effetti speciali di altissimo livello, colonna sonora celtica di alto fascino, vanno a supportare una storia con la S maiuscola, una vicenda epica ed emozionante, vissuta e interpretata da personaggi bellissimi nella loro personalità sfaccettata. E Jackson si è preso tutto il tempo che gli serviva, certo (e a ragione) che il pubblico preferisse vedere un’opera valida, sebbene della durata di tre ore e passa: in questo modo nessun dettaglio è trascurato, e si può assaporare ogni microframmento di questa trilogia, già pietra miliare della Cinematografia Mondiale.

In una Stagione come questa, dove già Nolan e Scott hanno deluso alla grande, ho però seriamente pensato che anche Peter Jackson potesse  rendersi colpevole di alto tradimento: locandine e trailer de Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato, primo capitolo di una nuova trilogia (prequel della precedente, esattamente come è successo per Star Wars), non sembravano prospettare niente di buono. E poi come si può tirare fuori una trilogia da un singolo libro di neanche 400 pagine? Ovviamente devo chiedere perdono al sommo Jackson: questo primo capitolo, se non altro, sembra già far intuire una nuova saga più che degna dell’illustre predecessore.

Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato è infatti completamente un’altro mondo rispetto a Il Signore Degli Anelli. Avendo letto il libro, già in passato notai la differenza: più Fantasy, più avventuroso, meno epico e commovente ma altrettanto avvincente. Ed è proprio da qui che Jackson riparte, per creare una nuova avventura, diversa eppure indiscutibilmente legata al passato Cinematografico del regista. La frase che posto in MOVIEQUOTE potrebbe quasi essere una sua dichiarazione: la grandiosità epica della vicenda di Frodo, Sam, Aragorn, Sauron, l’Anello, si risolve in una maggiore “semplicità”, in una narrazione più distesa e rilassata, ma non per questo priva di spessore, di potere di intrattenimento (quello vero ed intelligente), di importanza.

Quando ci si riallaccia a Il Signore Degli Anelli lo si fa sempre con una certa vena di nostalgia, in un’atmosfera più pacata, diversa: Granburrone è un paradiso idilliaco, l’elfa Galadriel non presenta ambiguità legate al potere, lo stesso Gollum sembra più svitato che corroso dal Male dell’Anello. Ma non tutto punta sull’effetto nostalgico, ci sono anche molte novità. Fra i personaggi, i nani sono molto spassosi, soprattutto nell’incipit caciarone (forse un po’ troppo lungo), ma non per questo si riducono a figurine comiche senza un’anima, anzi: basti vedere la profondità del loro capo, Thorin Scudodiquercia, un bellissimo e nuovo personaggio che recupera qualcosa di Aragorn (il ruolo di leader militare) e qualcosa di Boromir (l’apparente scontrosità). Per non parlare dello stregone bruno, Radagast, sospeso fra comicità surreale ed echi di druidi, un nevrotico mago che parla agli animali e si muove su una slitta trainata da lepri. E che dire di Azog il Profanatore, orco albino resuscitato dai morti, carico di sanguinaria sete di vendetta? Anche gli attori si muovono benissimo: tralasciando i volti già noti,  Richard Armitage (Thorin) e Manu Bennett (Azog) sono bravissimi nel dare spessore ai loro personaggi, rendendo al meglio le loro caratteristiche principali; soprattutto encomiabile è Martin Freeman, che giostra benissimo un Bilbo Baggins molto comico ed impacciato, riuscendo a preservare la genuinità del personaggio.

Magia e cuore, questo è il binomio vincente che possedevano le fascinose pellicole della trilogia de Il Signore Degli Anelli, e si tratta dello stesso elemento che risulta predominante nel primo capitolo di questa nuova saga. “Noblesse oblige”, ovvero la nobiltà obbliga: Peter Jackson si conferma uno dei più Nobili registi della Settima Arte, perlomeno nel campo del Fantasy, e rende onore al sangue blu Cinematografico che possiede con un film di intrattenimento di livello assoluto, una boccata di ossigeno per un genere trattato troppo spesso in maniera fiacca e commerciale.

VOTO: 4,5/5

MOVIEQUOTE

Saruman crede che soltanto un grande potere è in grado di tenere a bada l’oscurità. Io invece ho fiducia nelle piccole cose, nei gesti che rendono importante il quotidiano.

LEGENDA VOTI

5/5=10  4,5/5=9  4/5= 8  3,5/5=7,5  3/5=7  2,5/5=6  2/5=5  1,5/5=4  1/5=3  0,5/5=2  0/5=0