Classifica Stagionale 2013/2014: TOP20 – Il Podio (3-1)

Ed ecco il momento più importante e prestigioso del Classificone Stagionale: abbiamo sopportato le esalazioni fetide del “Fondo Del Barile“; ci siamo affacciati a vedere la “Panca“, pur “guardando e passando”; e infine abbiamo iniziato a riveder le stelle con le prime 17 posizioni della Top20 (“Parte Bassa” e “Parte Alta“). Il premio per questo viaggio è il Podio Cinematografico della Stagione appena trascorsa,  i 3 titoli che si sono meritati il sommo plauso della mia personale Classifica, vincendo rispettivamente il bronzo, l’argento e l’oro del Cinemalato! Come sempre vi invito a leggere le recensioni, che potrete leggere semplicemente cliccando sul titolo della pellicola.

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3) Maps To The Stars, di David Cronenberg (2014)

Come accaduto la scorsa Stagione con Moonrise Kingdom del buon Wes Anderson, Maps To The Stars segna una felice intesa tra quello che è l’indubbio talento artistico del regista canadese e una certa “umanità”: l’equilibrio tra quelle che sono le tematiche cardine della poesia cinematografica cronenbergiana (psiche umana, rapporto uomo-tecnologia…), le sue atmosfere grottesche/surreali, e la “facilità” con cui la vicenda e i personaggi che l’animano arrivano a toccare le corde più intime dello spettatore, crea un mix vincente. Aggiungiamoci un cast di altissimo livello, e perfettamente centrato per i personaggi che interpreta (Wasikowska, Cusack, Bird e la strepitosa Julianne Moore, fresca di Prix a Cannes), e prepariamoci all’applauso inevitabile. Di fronte a questo, riesco a perdonare alcune “oscurità” (come la bambina annegata che va a visitare il baby-attore, non immediatamente spiegabile), che normalmente mi farebbero un po’ storcere il naso: alla fin dei conti, anch’esse sono tocchi “alla Cronenberg”, e concorrono a formare quelle magnifiche atmosfere di cui parlavo sopra.

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2) Nebraska, di Alexander Payne (2013)

Due stagioni or sono, Payne si era già piazzato altino con Paradiso Amaro, entrando nella parte alta della Top20 al #6. Ma Nebraska è di gran lunga superiore al precedente (pur insignito di Oscar alla Sceneggiatura), anche se lo spiegarlo è difficile: come del resto accade con molti film del regista, grandissimo “narratore”. Come si può infatti spiegare a parole l’impatto emotivo che la tenera e strana vicenda ti regala? Come si può esprimere la bellezza di volti anziani con rughe scalfite dal pianto nella roccia, perfettamente impressi in un morbido e malinconico bianconero? Come si può rendere l’idea di personaggi tanto commoventi nella loro semplicità, ma mai privi di un lato anche più ironico e leggero (perchè il dramma non è mai totale nella vita di un Uomo)? Come si può lodare la bellezza dei dialoghi di Payne e soci, la semplicità disarmante con cui sono resi dallo straordinario cast del film (Bruce Dern, premiato a Cannes, su tutti), senza far direttamente visionare la pellicola a chi ci ascolta? Ecco, questo è il consiglio: prendete e guardatene tutti. È cosa molto buona e giusta.

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1) Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson (2014)

Quando seriamente iniziavo a dubitare della possibilità che Nebraska non finisse (con gran merito, in questa Stagione un po’ sottotono) alla #1 del mio Classificone, la sera di Pasqua è avvenuto il miracolo (con perfetto tempismo). E colui che solo la scorsa Stagione, con il succitato Moonrise Kingdom, aveva occupato la piazza #5, mi ha regalato IL momento della Stagione, e uno dei momenti più alti di questo decennio ’10. Perchè non uscivo così ammaliato, sconvolto, commosso, divertito e soprattutto “vuoto” da una sala cinematografica da 4 lunghi anni: e Grand Budapest Hotel è stato uno di quei pochi film in grado di svuotarmi il cervello da ogni pensiero – appunto – e farmi soppesare la meravigliosa grandezza e potenza della Settima Arte, che tanto amo e che tanto significa per un Cinemalato come me. La summa di tutta la poetica Andersoniana, un vortice di immagini perfettamente strutturate, apparentemente radical chic – ma in realtà solamente molto bizzarre, fantasiose, pur cariche di un’umanità incredibile – registicamente inappuntabili: una favola “favolosa” sulla potenza della narrazione, del tramandare, della Storia, dell’amicizia, dell’Amore e anche della morte. Insomma, un Capolavoro. E nella stagione che ha segnato la prima locandina “Amore 14/Non-Cinema” era giusto che un “Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo/Capolavoro” riparasse lo sgarbo.

Maps To The Stars (2014)

La famiglia Weiss: un terapeuta di star (il padre), un agente (la madre) di un giovane attore prodigio (il figlio) e una figlia apparentemente morta. Una vita sicuramente facoltosa (sono ricchi e famosi), ma piena di malcelate fragilità. E quando costei torna in città, al servizio di una cliente del padre (attrice finita da un po’ di tempo nel dimenticatoio, che sogna il ruolo che fu della madre nel remake di un suo film), si mette in moto un meccanismo senza ritorno.

Torna Cronenberg, torna di nuovo a Cannes (dopo Cosmopolis nel 2012), e torna – per quanto mi riguarda- a girare un film di livello. Lo voglio annunciare a gran voce, perchè mi dispiaceva che la doppietta di due stagioni fa (con Cosmopolis anche A Dangerous Method) fosse andata un po’ a vuoto: ma Cronenberg, lungi dall’essere bollito, mi ha subito rassicurato. E mi ha anche stupito, perchè – per quanto conosca il regista canadese – questo Maps To The Stars è un po’ come il Llewyn Davis dei Fratelli Coen: una pellicola che si discosta – in parte – dagli stilemi tipici della sua Cinematografia.

Per la carica di forte passionalità “umana” (e non legata a qualche intelligenza artificiale), Maps mi ha riportato alla mente il melò M.Butterfly: ma differentemente da questo, pur estremamente intrigante e commovente, qua Cronenberg si fa ancora più umano, ancora più legato in primis al sentimento e all’emozione che non allo scandaglio psicologico. Che c’è, ed è ben presente  (soprattutto nel personaggio di Julianne Moore), ma che si fa un attimo indietro per permettere allo spettatore una commozione ed un coinvolgimento superiore alla norma: forse è “giocare facile”, ma preferisco affermare che David abbia trovato un giusto equilibrio fra il suo amato cervello e il più “facile” cuore. Quell’equilibrio che non si era trovato in A Dangerous Method, dove la parte “sentimentale” risultava fredda e distaccata.

Rifacendosi a pellicole come Viale Del TramontoAmerican Beauty e simili (e forse al Lynch di Mulholland Dr. per l’atmosfera), Cronenberg ci parla di una Hollywood basata sull’utopia di vivere felici e (soprattutto) liberi – una libertà a cui inneggiano più volte i personaggi del film tramite la poesia che posto in MOVIEQUOTE. Libertà da una prigione impossibile da evadere, perchè basata su un loop infinito. I genitori di Agatha e Benjie sono in realtà fratello e sorella, che hanno portato avanti la loro incestuosa relazione: l’attrice fallita Havana si trova all’ossessivo inseguimento del ruolo che fu della madre.

Tutti i tentativi di fuga sono vani. Agatha – che aveva dato fuoco alla casa dei suoi – viene messa in un manicomio dal padre, così da evitare che possa tornare e appiccare nuovi incendi, ma dopo otto anni rientra ad Hollywood. Benjie esce dal tunnel della droga, ma ci ripiomba non appena mette piede sul set cinematografico, e da drogato uccide un cane e quasi soffoca un bambino. Havana fallisce in primis come attrice – e se ottiene la parte è solo perchè la sua avversaria perde il figlio in un incidente (guarda caso per anneggamento: l’acqua, contrapposta al fuoco con cui Havana aveva dato fuoco alla casa e ucciso la madre). Ma fallisce anche come “madre” nei confronti di Agatha, che prende a suo servizio: dapprima è tutta amorevole e disponibile, ma poi le sottrae orribilmente il fidanzato, e finisce uccisa proprio dalla sua stessa “figlioccia”. Infine Agatha. Era tornata per “fare ammenda” del gesto orribile verso la famiglia, eppure viene insultata e aggredita dal padre (e da Havana, madre posticcia), e tutti i suoi propositi annegano in un “odio” che è anche consapevolezza: la morte è l’unica via per l’agognata libertà. Da qui il matrimonio improvvisato con il fratello (e con gli anelli dei genitori/fratelli), e il tragico finale.

All’interno di un’aura grottesca, dominata dall’apparentemente algida Agatha di Mia Wasikowska e dalla umanissima maschera dell’Havana di Julianne Moore (premiata a Cannes con un meritatissimo Prix de Interpration Feminine), Cronenberg ha saputo combinare il suo stile personale con un’inedita “facilità” emotiva. Maps To The Stars è il risultato: una storia che sicuramente non può ambire a toccare le vette di Videodrome, film seminale e miliare della Storia del Cinema, ma che conferma – se mai ce ne fosse stato bisogno – come Cronenberg sia un Autore vero, in grado di sorprendere anche dopo 30 anni passati di onorata carriera.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

E in virtù di una parola
ricomincio la mia vita.
Sono nato per conoscerti,
per chiamarti,
Libertà.

Classifica Stagionale 2011/2012: La Panca

Secondo appuntamento con la Classifica Stagionale del Cinemalato! Stavolta è il turno della “Panca“, ovvero tutte quelle pellicole che non hanno raggiunto la “TOP20“, ma che neanche sono scese sotto la sufficienza. I film in questione sono ben 17, anche stavolta elencati per ordine alfabetico, non per valutazione. Come sempre, cliccando sul titolo potrete leggere la recensione relativa alla pellicola, quando disponibile.

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Albert Nobbs, di Rodrigo Garcia (2011)

Non so perchè, ma riponevo molte speranze in questo film: il soggetto sembrava accattivante, e circolavano voci su una prova di alto livello da parte di Glenn Close. Purtroppo entrambe le aspettative non sono state ripagate; la Close è molto brava, ma è superata dalla straordinaria McTeer, e la storia viene mal gestita da regista e sceneggiatori, risultando troppo poco approfondita per toccare quelle corde emozionali che avrebbe potuto (e dovuto) toccare.

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Le Avventure Di Tintin – Il Segreto Dell’Unicorno, di Steven Spielberg (2011)

Un classico del fumetto francese, Tintin, il ragazzo dall’inconfondibile ciuffo rosso, sempre accompagnato dal suo cagnolino Milù, trasposto al cinema dal regista della tetralogia di Indiana Jones. Il risultato è un film di avventura che possiede un grande ritmo, con in più una grafica di grande impatto visivo. Spielberg non si scorda di essere un grande regista, e inserisce anche un paio di sequenze di livello (il borseggiatore inquadrato solo sui piedi e gli onirici e movimentati ricordi del capitano Haddock). Probabilmente Tintin si trova in panca perchè la lunga ombra della Disney-Pixar pesa troppo sulla qualità del prodotto d’Animazione, e un film prettamente “estetico” sbiadisce nel confronto con mostri sacri quali Up Wall-E.
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Bar Sport, di Massimo Martelli (2011)

Bar Sport è un titolo che molti hanno infamato, lamentando una comicità da Cinepanettone, un cast sprecato e una eccessiva frammentarietà degli eventi. Io dico che questi “molti” non conoscono l’opera da cui il film è tratto: l’omonimo libro di Stefano Benni usa una comicità bassa, caricaturale, grottesca, che descrive con occhio deformante tutta una serie di macchiette del “tipico Bar Italiano”; è inoltre diviso in episodi scollegati, ed è quindi per questo che la pellicola risulta spezzata. Poi è ovvio, non stiamo parlando di capolavoro, ma affossarlo peggio di un lavoro di Neri Parenti mi sembra ridicolo (considerando anche le due deliziose sequenze d’animazione, anch’esse decisamente “Benniane”).

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Biancaneve E Il Cacciatore, di Rupert Sanders (2012)

Il tentativo di portare sugli schermi la favola di Biancaneve in chiave dark non è del tutto riuscito; ad un livello tecnico valido e ben realizzato (scenografie, effetti speciali, costumi…) si contrappongono una trama troppo semplicistica e prove attoriali non sempre brillanti (la Stewart e Hemsworth fanno meglio di Twilight Thor, ma non è che ci volesse poi molto). Comunque vedere sul grande schermo Charlize è sempre un piacere, in tutti i sensi.

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Carnage, di Roman Polanski (2011)

Carnage è un film di attori; un quartetto spettacolare (Jodie Foster, John C.Reilly, Christoph Waltz, Kate Winslet) ci fa vedere come, dietro la maschera del perbenismo e dell’educazione, l’essere umano sia spesso e volentieri portato alla violenza e al risentimento. I protagonisti mostrano tutto il loro talento, dalla partenza in sordina all’exploit finale sopra le righe, e la pellicola scorre rapida e godibilissima. Alla fine, però, il limite del nuovo titolo di Polanski è proprio questo: essere  “solo” un film d’attori.

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Cosmopolis, di David Cronenberg (2012)

Il 2° Cronenberg di Stagione, presentato in concorso al Festival Di Cannes, ha indubbi pregi; un ottimo cast (con un eccellente Paul Giamatti, un’efficace Samantha Morton e un sorprendente Robert Pattinson), un regista che sa il fatto suo (la lunga sequenza finale in un’unica stanza è gestita benissimo a livello di spazi e movimenti attoriali) ed una scenografia futuristica suggestiva ed evocativa. Purtroppo Cosmpolis presenta una sceneggiatura ad alto livello di concettosità, che alla fine suona però di già sentito, affossando parecchio il risultato finale. Se non altro resta negli occhi la già citata, lunga conclusione, e l’aver (ri)scoperto il vampiro di Twilight è una valida sorpresa.

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A Dangerous Method, di David Cronenberg (2011)

locandina.jpg (420×600)Cronenberg, Freud, Jung, la psiche umana. Fino a che la pellicola corre sul binario dell’eccesso, sopra le righe come poche altre, colpisce ed intriga con efficacia (molte sono state le critiche alla prova di Keira Knightley, critiche che non capisco; da quando in qua i pazzi devono essere interpretati con controllo?). Un ottimo Fassbender e un grandissimo Mortensen (più uno stralunato Cassel) completano il tutto. La narrazione, tuttavia, si fa sempre più fredda e distaccata mano a mano che passano i minuti, togliendo al film quella potenza di cui parlavo prima. Buona/ottima la ricostruzione scenografica dell’epoca.

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… E Ora Parliamo Di Kevin, di  Lynne Ramsay (2011)

Tralasciando un’improponibile (as usual) traduzione italiana del titolo (pare quello di una commedia con Ben Stiller e la Aniston … E Alla Fine Arriva Polly, quando invece si tratta di drammatico con venature horror), la pellicola di Lynne Ramsay narra la storia di una ragazza divenuta madre troppo in fretta, del suo rapporto amore-odio (soprattutto odio) con il figlio Kevin, di un terribile omicidio. Seppure con indubbi meriti (visivi, come nella scena di Halloween, ma anche recitativa grazie ad un’eccelsa Tilda Swinton ed un efficace Ezra Miller), il film si perde un pò a livello di trama: non chiarisce bene il rapporto fra i genitori e il figlio, nè spiega con sufficiente chiarezza la sua malvagità; il tutto accompagnato dal fatto che, purtroppo, le scelte registiche quasi “horror” della regista si accumulano al punto di risultare indigeste nella mezz’ora finale. Resta comunque un prodotto molto valido.

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The Help, di Tate Taylor (2011)

Per quanto il plot di base della pellicola di Tate Taylor (tratto dall’omonimo romanzo di Kathryn Stockett) sia stra-abusato, The Help è un titolo che sa colpire le corde emozionali dello spettatore senza eccedere nel miele o nel ricattino morale (salvo il pietoso finale, 100% saccarosio gratuito). Molto gradevole e poco retorica soprattutto la side-story fra la cameriera di colore Minny (la vincitrice dell’Oscar come Non Protagonista, Octavia Spencer) e la sua svampita (ma buona) padrona bianca (la bravissima Chastain, che conferma le sue doti dopo The Tree Of Life). Alla fine tutto già visto e già sentito, ma apprezzabile.

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The Iron Lady, di Phyllida Lloyd (2011)

https://i0.wp.com/www.voto10.it/cinema/uploads/foto/locandina_the-iron-lady.jpg Mai locandina fu più azzeccata: il biopic della “Lady Di Ferro”, Margaret Thatcher, diretto dalla regista del musical-successone Mamma Mia!, è in realtà un “One-Man-Show” (o per meglio dire “One-Woman-Show”). Meryl Streep, in tutta la sua ormai ipercomprovata bravura, con una grande prova (e accompagnata da un ottimo trucco per quanto riguarda la vecchiaia della Iron Lady) segna un altro eccellente ruolo della sua incommensurabile carriera (stavolta sigillato anche dall’Oscar come Attrice Protagonista, la terza statuetta per la signora). Peccato che non bastino gli attori per fare un film: ed ecco che The Iron Lady si rivela una biografia troppo incentrata sulla vita personale della Thatcher, scombussolata e poco chiara  (non si capisce se si stia lodando o condannando l’operato della protagonista), alla lunga pesantemente elefantiaca.
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J. Edgar, di Clint Eastwood (2011)

Con questa recensione ho aperto le danze del Cinemalato. Purtroppo la prima review del blog non era decisamente relativa ad un film memorabile; il biopic del fondatore del Federal Bureau of Investigation (detto anche F.B.I.), nonostante la sapiente regia di Eastwood e il carisma di DiCaprio (che ha comunque fatto prove migliori, e che qui viene superato in bravura sia da Armie Hammer che da Naomi Watts), risulta freddo, distaccato, poco approfondito per quando riguarda la sfera del privato (soprattutto risulta troppo superficiale l’approccio alla figura di Miss Gandy). Ho inizialmente apprezzato il pesante trucco di DiCaprio e Hammer, ma alla lunga bisogna ammettere che il ridicolo è stato sfiorato e superato indubbiamente.

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Melancholia, di Lars Von Trier (2011)

Mettere Melancholia in questa sezione della Classifica è un vero e proprio dispiacere. Il film di Von Trier ha una prima sezione clamorosa, da applausi a scena aperta fino allo spellamento delle mani, un girotondo di sensazioni, visioni, emozioni da far girare la testa; Kirsten Dunst, bianca quasi diafana, ti entra fin dentro le viscere con intensità inesorabile (e non le sono da meno gli altri attori, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling…). Poi però arriva una seconda sezione a metà fra Emmerich (il peggior Emmerich) e un dramma teatrale di enfasi eccessiva ed elefantiaca; se non ci fossero gli stessi personaggi, non si capirebbe neanche il collegamento fra le due parti.  Melancholia, che fino ad allora era minimo da podio (forse anche da 1° posto), si ritrova così ridimensionato, con mio (ripeto) enorme dispiacere.

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La Pelle Che Abito, di Pedro Almodòvar (2011)

Altro film che mi scoccia davvero un sacco dover mettere in Panca è il nuovo Almodòvar. Un soggetto a dir poco superlativo; uno sviluppo valido, coinvolgente e corrotto al punto giusto (vedi la grottesca scena del “tigrotto”); virate nel melò (tanto caro allo spagnolo) misurate ed efficaci; attori in palla. Eppure a mezz’ora dalla fine Pedro perde le redini del gioco, e la pellicola perde il suo bell’equilibrio; finale melenso, esagerato e fuori dal mondo, che riduce il valore dell’intero lavoro.

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Quando La Notte, di Cristina Comencini (2011)

L’improponibile La Bestia Nel Cuore è una macchia che difficilmente si cancella dalla cinematografia Italiana (a pensare che riuscì ad arrivare nella cinquina dell’Oscar per il Film Straniero vien da ridere per non piangere); tuttavia la Comencini confeziona (da un suo romanzo) una pellicola su un amore strano, tanto violento quanto (quasi) privo di fisicità, fra un uomo e una donna (Timi e Pandolfi, bravissimi) più soli di quello che si possa pensare, uniti per caso dal pianto insopportabile di un bambino e da una follia notturna. Ma, dato che difficilmente ci si può smentire, la Comencini spreca tutto quanto di buono aveva costruito grazie ai venti minuti finali; ridicoli, al limite del bimbominkia-trash, sembrano quasi un altro film rispetto al resto della pellicola. Inizialmente avevo cercato di perdonare l’errore, ma purtroppo perdonare è qualità esclusivamente Divina.

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Quasi Amici, di Eric Toledano & Olivier Nakache (2011)

Secondo film per incassi al botteghino Francese (dopo Giù Al Nord), Quasi Amici è una commedia agile e scorrevole, con un affiatato duo di attori (Omar Sy e Francois Cluzet), una scrittura esperta e abile a schivare i luoghi comuni della retorica, una colonna sonora di sicuro impatto. Anche qua, però, il finale scade nel banale/forzato, rivelando la vera natura della commedia di Nakache e Toledano; un film per tutti i gusti, che però non raggiunge certo elevate vette qualitative.

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La Talpa, di Tomas Alfredson (2011)

Elegante, sofisticato, grigio; La Talpa è un thriller che soffoca lo spettatore, facendogli respirare quella che era l’aria ai tempi della Guerra Fredda. Registicamente impeccabile, presenta forse il cast più spettacolare dell’anno: Gary Oldman (eccellente), Tom Hardy (molto bravo), John Hurt (di gran mestiere), Colin Firth (ottimo), Mark Strong (sorprendente)… Dunque, qual è il problema? E’ presto detto: il montaggio. I vari flashback temporali sono troppo fumosi, troppo poco delineati, e anche i cambi “diatopici” (cioè di luogo geografico) non sono precisi. Questo, sommato alla lentezza (voluta, ma estenuante) della pellicola, fa sì che una trama non troppo complicata (a tratti anche banale) risulti intricatissima e difficilissima da seguire; e per un thriller, davvero non è il massimo.

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Warrior, di Gavin O’Connor (2011)

Non dovrei tirare fuori le posizioni nella sezione della Panca, ma è giusto dire che, fino a due settimane fa, Warrior era il mio personale #20. A differenza di The Fighter, film della scorsa stagione, la pellicola di O’Connor ha una maggiore genuinità ed una maggiore intensità (come del resto sono più intense le MMA della boxe); sulla locandina si parla di Million Dollar Baby, e seppure il filmone di Eastwood sia lontano anni luce, Warrior è crudo e diretto come l’antecedente del 2004. Ottimi attori (Tom Hardy, già sopracitato ne La Talpa, e il ruvido Nick Nolte, in una prova da applausi a scena aperta) e una trama semplice ma efficace, proprio come un cazzotto al mento ben diretto, Warrior vale davvero la visione, ed è tutta colpa delle distribuzioni Italiane se non ha raggiunto la TOP20 (prossimamente capirete il perchè).

Cosmopolis (2012)

In un futuro non ben precisato, il Capitalismo dominante sta percorrendo un forte momento di crisi. Il giovane e rampante Eric Packer, 28enne manager di successo, sposato (matrimonio di interesse fra famiglie) e ricco, si sta dirigendo a farsi tagliare i capelli da un suo vecchio amico di famiglia, un parrucchiere che opera nelle zone periferiche di Manhattan; con il passare del giorno, la crisi esteriore del sistema andrà sempre più in parallelo con quella interiore del giovane, fino alla surreale conclusione.

Presentato in concorso a Cannes 2012, il nuovo film di David Cronenberg (doppietta stagionale per lui, dopo A Dangerous Method, buon film in concorso a Venezia 2011) tratta temi molto cari al regista, quali il rapporto fra uomo e tecnologia e le crisi della mente umana. Basandosi sull’omonimo romanzo di Don DeLillo, il regista ci propone una storia di distruzione esterna ed interna: a livello sociale assistiamo alla sconfitta del Capitalismo, sempre più messo in discussione da imponenti forze anarchiche; a livello personale vediamo invece la parabola discendente del protagonista, il cui totale e matematico controllo sulle oscillazioni economiche e della borsa è stato eluso dallo Yuan, la moneta Cinese che sta acquistando sempre maggior valore.

E qui va però evidenziato il problema principale della pellicola; il soggetto. Un ammasso di clichè così elevato, ricordo raramente di averlo visto; fra personaggi “estraniati” dalla realtà perchè non reggono il meccanico ritmo sociale (Tempi Moderni), crisi del Capitalismo, personaggi che non danno più valore alle cose e spendono “tanto per”, matrimoni basati su convenienza e non sull’Amore, la morte e i funerali dei cantanti sfruttati per ottenere popolarità post-mortem (la triste vicenda del Re del Pop, Michael Jackson, letteralmente inglobato da tutti i bimbominkia che lo ignoravano fino a Giugno 2009), il ritorno alle origini (il negozio di parrucchiere anni ’50 e la rivoltella a pallottole) come conseguenza della crisi tecnologica/futuristica… E anche il modo in cui viene trattata la materia narrativa non è esente da questa pecca; ad una prima sezione molto statica (piena di dialoghi filosofeggianti decisamente troppo logorroici, quasi a mascherare la poca originalità semantica che possiedono), ne succede una decisamente più dinamica (ben realizzata da Cronenberg) che porta alla resa dei conti finale.

Il problema del finale è il seguente: interessante per il fatto che non esistano buoni e cattivi, che entrambi i personaggi siano visti nella loro debolezza e nel loro smarrimento psicologico, è inoltre ben gestito a livello di movimenti attoriali (in un’unica stanza Cronenberg crea un notevole dinamismo); ma i dialoghi dei due sono (ancora una volta) ricchi di clichè, e lo stesso istante finale (non si vede se l’assassino spari o meno ad Eric) è di una banalità allucinante. Anche qua si ha la stessa sensazione, cioè che Cronenberg abbia cercato di coprire la povertà (o comunque la poca originalità) del soggetto con una serie di “sovrastrutture”, che a loro volta però sanno altrettanto di “già visto”.

Bravi gli attori, con una menzione speciale allo squilibrato assassino/vittima-sociale di Giamatti (pochi attori furono sottovalutati come il buon Paul), alla concettosa e meccanica “consulente di teoria” di Samantha Morton, e soprattutto (mai pensavo che avrei detto una cosa del genere nella mia intera esistenza) al buon EdwardCullen/Robert Pattison, che nel ruolo del protagonista confeziona una prova statuaria ma di ottimo livello. Dopo aver anche visionato, proprio ieri sera, Come L’Acqua Per Gli Elefanti, posso dire che forse il buon Pattinson è molto più bravo di quello che gli orridi capitoli della serie di Twilight lasciano intravedere.

Fra trovate geniali nella loro assurdità (la prostata asimmetrica del protagonista, che in fondo si rivela una metafora della decandenza del Capitalismo, accentuando ancor di più il dualismo società/persona) e altre che invece non si salvano dal ridicolo (l’attentato con la torta in faccia, oppure i surreali dialoghi con la mogliettina), il film si trascina lentamente in mezzo ad una selva di clichè, che nonostante la recitazione del buon cast e la “solita” convincente prova del buon Cronenberg con la macchina da presa (che crea ed evoca atmosfere molto suggestive), affossano Cosmopolis, facendolo finire dritto dritto nella categoria “peccato, potevi fare meglio”. Peccato davvero.

VOTO: 2,5/5

MOVIEQUOTE

Il futuro è impaziente: accadrà presto qualcosa… Forse oggi.

LEGENDA VOTI

5/5=10  4,5/5=9  4/5= 8  3,5/5=7,5  3/5=7  2,5/5=6  2/5=5  1,5/5=4  1/5=3  0,5/5=2  0/5=0

M. Butterfly (1993)

Renè Gallimard è un diplomatico francese inviato in Cina per lavoro; durante una serata di gala gli capita, per puro caso, di ascoltare la versione di Un Bel Dì Vedremo cantanta da una misteriosa cantante cinese, che immediatamente cattura la sua attenzione. Ammaliato, Renè s’incontrerà più volte con ella, fino a che i due non si scambieranno un primo, fugace bacio a casa di lei. In seguito Renè, impegnatissimo sul lavoro, non si fa sentire per molto tempo, causando la disperazione di Song Liling (così si chiama la cantante), che tramite missiva gli comunica la sua passione e la sua totale sottomissione. Lui, atratto con ogni fibra da quella schiavetta ubbidiente, perde completamente la testa; lei, però, è una spia di Mao, e tramite le informazioni ricevute dal diplomatico giocherà una parte importante nella sconfitta U.S.A.-Occidentale in Vietnam. E questo non è l’unico segreto della donna…

Madama Butterfly è un titolo che chi apprezza l’opera conosce alla perfezione; le tristi vicende della giovane geisha giapponese, innamorata di un ufficiale Americano di marina, che si toglie la vita, straziata dal dolore e dalla crudele fine delle sue illusioni d’amore (accompagnate da arie celebri come Un Bel Dì Vedremo o il celebre Coro A Bocca Chiusa), hanno commosso chiunque si sia prestato alla sua visione (ed al suo ascolto). E Cronenberg, genialmente, recupera questa trama per attualizzarla, ma soprattutto per condurre i suoi due protagonisti ad uno scambio di ruoli che conduce ad un finale “patetico” ed intenso. E allora non si tratta più solo di amore, ma anche di sottomissione, di confronto fra culture, di seducente perversione, e tutto contribuisce a trascinare la vicenda in una spirale di disperata e fragile follia.

Ma qui il recupero è duplice e comporta un’operazione inter-artistica; infatti, se per la vicenda Cronenberg costruisce un anti-Puccini, per le caratteristiche intrinseche dei personaggi si rifà ad un film girato l’anno precedente, La Moglie Del Soldato di Neil Jordan. Là una storia d’amore intensa ed atipica, inserita in un dramma-thriller da manuale, qua una storia altrettanto particolare, ma  sensibilmente più melodrammatica; là Stephen Rea e Jaye Davidson, malinconici e raffinati, qua Jeremy Irons e John Lone, tanto potenti da sembrare quasi irreali (un plauso particolare ad Irons, più commovente della stessa geisha Pucciniana, soprattutto nel poetico finale).

Il film è stato trattato con una certa freddezza da parte della critica (è stato addirittura attaccato il fatto che nella sequenza del furgone blindato i due prigionieri non siano controllati da alcuna guardia). Per quanto è innegabile che nelle scene “realistiche”, quelle relative al contesto socio-politico, Cronenberg non possieda lo stessa fascino che imprime alla vicenda principale, è altrettanto vero che solo tramite la sezione “processuale” si può accettare l’improvvisa rivelazione sulla vera identità di Song (e dunque anche il consecutivo trauma di Renè). Per quanto riguarda la scena del blindato, la critica qui è stata davvero fuori luogo; non conta il realismo, conta invece lo spogliarello di Song (il massimo desiderio carnale di Renè, mai appagato fino ad allora, che si muta in motivo di shock e disgusto) che sarebbe sembrato ridicolo e ingiustificato in presenza di altre persone.

Un film tanto geniale ed imprevisto da togliere il fiato, dalla prima delicata scena fino alla straordinaria sequenza finale; una storia senza speranza fin dall’inizio, che consuma i protagonisti e devasta le loro esistenze; un doppiaggio italiano da denuncia, che scopre metà delle carte in tavola prima del tempo, ma che non riesce ad intaccare la magia di questa pellicola. Questo è M. Butterfly; opera di rilettura, di sangue e disperazione, di fascino immenso.

VOTO: 4,5/5

MOVIEQUOTE

… io, René Gallimard, ho conosciuto e sono stato amato dalla perfezione fatta donna […] Questa visione è diventata per me ragione di vita. Il mio errore è stato semplice e assoluto. L’uomo che amavo non era degno, non meritava nemmeno un altro sguardo. E invece gli ho dato il mio amore, tutto il mio amore. L’amore ha ottenebrato il mio giudizio, accecato i miei occhi, tanto che ora, guardando nello specchio, io non mi vedo.

LEGENDA VOTI

5/5=10  4,5/5=9  4/5= 8  3,5/5=7,5  3/5=7  2,5/5=6  2/5=5  1,5/5=4  1/5=3  0,5/5=2  0/5=0