Lady Bird (2017) Vs Tonya (2017)

LO SCONTRO

Dopo molto tempo, un nuovo “Vs.”: le sfidanti sul ring del Cinemalato, questa volta, sono due pellicole accomunate dalla presenza centrale del personaggio femminile, dal racconto di quel difficile momento noto come adolescenza (e, susseguente ed intimamente collegato ad esso, dell'”età adulta”), dall’esplorazione del complicato e tensivo rapporto tra una figlia e i propri genitori (più specificamente tra madre a figlia).

Lady Bird è racconto più strettamente confinato nei margini di quei cinque, devastanti anni di “liceo” – anzi, ancora più “irrealisticamente” (è, del resto, una fiaba a tutti gli effetti) nell’ultima di queste cinque tappe – laddove Tonya ne tratta gli aspri contorni da cui si originerà la ventenne, esplosiva protagonista. Il primo è, inoltre, più delicatamente confezionato persino nei suoi (numerosi) drammi, mentre il secondo non sembra mai capace di acquietare gli animi, come un effetto domino di barilotti di dinamite.

Come già accennavo, un dato focale di entrambi i film è il rapporto tra la protagonista e la figura materna, esteso però – in generale – ad un continuo scontrarsi di Lady Bird (da una parte) e di Tonya Harding (dall’altra) con numerose altre esistenze, piombate in maniera più o meno stabile all’interno delle proprie vite. Ed è proprio qui, sul trattamento riservato a questi personaggi e alle loro tensioni con le protagoniste, che le due pellicole vedono un discreto divario.

In Lady Bird la galleria di anime che contribuiscono alla formazione della giovane liceale è molto ricca: non solo i genitori, ma anche la migliore amica brutta e infantile, il primo ragazzino che si rivelerà omosessuale, il secondo ragazzino e i suoi atteggiamenti da imberbe filosofo, il gruppo di teatro (un po’ da sfigati), il gruppo di amici ricconi (assolutamente fighi e già inseriti in una realtà fatta di feste in piscina e sesso). Ognuno di essi è compagno e nemico sulla strada della protagonista, secondo uno schema molto classico e un’idea di fondo già vista mille volte (per cui l’attaccamento ai valori della propria “semplicità” passata riesce infine a sconfiggere le nuove tentazioni di un decisissimo e snaturante cambiamento): eppure la sapienza di scrittura (una Greta Gerwig certo echeggiante il gioiellino di Diablo Cody Juno, ma con meno sarcasmo e maggior dolcezza) e la bravura del cast (Saoirse Ronan/Lady Bird e Laurie Metcalf/Marion su tutti) rende il percorso autentico, genuino, capace di generare un’empatia innegabile con il pubblico senza risultare mai davvero melenso (esemplare il finale, sospeso tra risentimento e malinconia, tra tristezza e letizia, dominato dall’arcigna ma emotiva figura della madre).

Questo percorso, questa tela intessuta a partire dai personaggi per sostenere il percorso della propria protagonista, purtroppo, non è altrettanto ben delineata in Tonya. La scelta di Steven Rogers (sceneggiatore del film) è quella di partire carichissimo fin da subito, a creare – infine – un climax quasi inesistente, tanto era alto il tiro fin dall’inizio: quello che però si perde all’interno di questa catena ad alta tensione è proprio il legame tra i personaggi, che sembra risolversi in uno scontro di corpi incapaci di aprirsi anche solo un minimo alla commozione (che viene mostrato, ma è solo isterico sfogo per un’insopportabile depressione). Certo, è un carosello di mediocri fanfaroni, di bugiardi e inveleniti relitti umani, tra cui si erge una Tony Harding dipinta a metà tra una vipera elettrica e una martire di certo femminismo “maschile”, ma non convince fino in fondo – non a caso, i momenti migliori sono quelli in cui viene data la possibilità all’ottima Margot Robbie di plasmare la propria maschera facciale in fiotti di rabbia o onde di pianto, gli unici istanti in cui davvero l’emozione sappia vibrare tra i suoni di uno script troppo rozzo e sbrigativo.

IL VERDETTO

È un peccato, indubbiamente, perché come “ambizione” non c’è paragone tra le due pellicole: ciò che viene narrato in Lady Bird è molto più comodo e “già visto” del rocambolesco ritratto femminile di Tonya. Eppure, talvolta, è proprio l’abilità nel dosare e restituire un vissuto “sentimentale” a saper pungere con maggior forza di qualunque violenza narrativa. Ed è, infine, proprio il rapporto madre-figlia a farsi specchio di questo scontro “femminista”: aspro e fortemente contraddittorio in entrambi i casi; lievemente striato di saccarosio nella prima pellicola, ma per questo capace di aprire certe porte e dare respiro e colore ad entrambi i personaggi; inossidabile e rigido come l’acciaio nel secondo film, ma proprio per questo irrisolto e a tratti poco comprensibile, quasi soffocato dall’indubbia forza dei suoi due poli umani.

“LOCANDIMETRO”

IL VINCITORE


 

 

Sin City (2005) Vs Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere (2014)

LO SCONTRO

Da molto, troppo tempo (ben un anno e passa), mancavano i “Vs.” del Cinemalato: l’uscita dell’episodio numero 2 del cinefumetto più cult di sempre mi permette di rispolverare questa categoria, finita un po’ nel dimenticatoio. Che lo scontro abbia inizio!

Quando Sin City uscì al cinema nel lontano 2005 io non lo vidi. Rappresentava una discreta novità, comunque, dal momento che si trattava di una sorta di “cine-comic”, vero e proprio “trasporto” – non trasposizione – di un fumetto (con tutte le sue atmosfere e “regole”) su pellicola. E a prescindere da questo suo merito, la qualità della pellicola era notevole (per quanto gli influssi tarantiniani, particolarmente Kill Bill, si facessero sentire). Ovviamente non tanto per merito dei personaggi/episodi rimasti più impressi nella memoria pubblica (ovvero il massacro della città vecchia con Clive Owen e Rosario Dawson, la “letale piccola Miho”, eccetera), quanto per il meraviglioso duetto Willis/Hartigan-Alba/Nancy sulle fumose note di un noir vecchio stampo, condito con una vitale modernità di stampo fumettoso e quel “bastardo giallo” così putrido e perfetto come cattivone di turno. Perchè il problema grosso di Sin City, l’unico vero problema, era quell’equilibrio instabile fra splatter e tamarro – fra eleganza e abuso nell’utilizzo di effettoni speciali, sangue, colore… -, che non sempre riusciva a mantenere.

Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere è invece uscito in un periodo ben diverso, mancando ormai di possedere quell’inedita forza aggiuntiva dell’originale (impossibile, dopo l’uscita di numerosi film del genere come il sopravvalutatissimo 300). Ma non è questo che conta, alla fine dei conti: vale molto di più l’approccio, totalmente diverso, che ho riscontrato e che rende la pellicola immensamente inferiore all’originale.

Qua la componente tamarra è diventata sovrana, si cerca solo e soltanto il sangue facile, l’uccisione spettacolare, la frase ad effetto, e lo si fa premendo esageratamente sul pulsante dell’irreale. Il bestione interpretato da Mickey Rourke (Marv) non era un sottospecie di robot invincibile nel primo Sin City, ad esempio: il suo scontro con Elijah Wood/Kevin aveva un che di sovrannaturale, eppure (senza eccessi di sangue, con una “sconfitta” a testa nel corso di due scontri) era ancora perfettamente credibile – esattamente quel genere di atmosfera “in precario equilibrio” di cui parlavo prima. Qua Marv mena le mani in maniera inarrestabile, schiva proiettili come neanche un pokemon che avesse usato doppioteam 6 volte, e sembra solo un bestione senza cervello – non quel rude e rissoso macellaio-gentiluomo che emergeva dal rapporto con Goldie nel primo film.

La tamarraggine, tuttavia, è fortemente collegata con l’elemento femminile. Parliamoci chiaro. Rosario Dawson che spara a manetta con un mitra roteando la lingua come una spiritata è figa, ma non cinematograficamente parlando: è figa perché la si tromberebbe molto volentieri. La presenza di donne killer nell’episodio di Clive Owen è forse il motivo principe per cui tale episodio sia il peggiore del primo Sin City: la pellicola del 2005 era “maschia”, ovvero l’azione era affidata all’uomo e la donna serviva come motore, come principessa indifesa – non c’era nulla di sessista in questo, era solo la formula adottata, e funzionava alla grande. Nel terzo episodio del primo film, le parti si invertivano, e il tutto assumeva proporzioni di tamarraggine e ridicolezza assolute. In Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere, in perfetto contrasto con il titolo, sono le donne a farla da padrona: ma Rosario Dawson è sempre tamarra, Eva Green un personaggio assolutamente scontato (per quanto più figa che mai), e Nancy-killer-dalla-mira-perfetta semplicemente non funziona (dov’è finito l’angelo biondo, indifeso simbolo di purezza che l’enorme Hartigan di Bruce Willis voleva preservare dal contagio con la corruzione di Sin City, incarnata dal bastardo giallo di Nick Stahl?).

IL VERDETTO

Solo in un piccolo episodio, uno solo, Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere si redime: guarda caso, l’episodio dove la donna torna di nuovo ad essere solo il motore dell’azione – guarda caso, l’episodio senza lieto fine (stesso caso del “Bastardo Giallo”). Uno statuario Gordon-Levitt ci porta a vivere il suo dramma personale, un dramma familiare crudelissimo con una risoluzione magnifica, ricordandoci cos’è Sin City: il luogo del peccato, dell’immondizia dell’anima, della vergogna morale eretta a statuario monito di grandezza per le generazioni future. E come Hartigan/Willis, Gordon-Levitt/ Johnny combatte la sua piccola (seppur parzialmente vana) crociata contro questo male assoluto, donando un barlume di sincera commozione allo spettatore così come un segno di speranza: purtroppo per lui, non c’è nessuna speranza che Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere batta il predecessore, molto più equilibrato e moderato nei toni, con personaggi e vicende di spessore palesemente maggiore, con una valenza estetica inedita e ben sfruttata (per quasi tutta la pellicola). E così si conclude questo primo “scontro”, dopo tempo immemore.

“LOCANDIMETRO”

IL VINCITORE

Philomena (2013)

Philomena Lee, anziana signora che vive nel Regno Unito, si decide (dopo 50 anni) ad andare in cerca del figlio, concepito quando alloggiava in un convento (a cui era stata in affidamento), che poi le suore avevano affidato ad una coppia. Nel suo viaggio alla ricerca della carne della propria carne, sarà accompagnata da Martin Sixsmith, un ex consulente politico che ora si è reinventato giornalista, nell’attesa di poter scrivere un libro sulla Storia della Russia. Durante il tragitto, i due impareranno a conoscersi e ad apprezzarsi, nonostante le differenze (non solo d’età).

Certe sere che non sai proprio che fare, quando dovresti tendenzialmente metterti sotto a recuperare grandi classici della Storia del Cinema che non hai ancora visto (oriente… sigh…), decidi invece di recuperare un film della Stagione per avere così poi qualcosa da pubblicare sul blog. Un film di quelli, s’intende, che non era assolutamente tra i tuoi obiettivi principali, e che non avresti assolutamente preso in considerazione, non fosse stato per il periodo di bonaccia e calma piatta che attraversa la distribuzione Italiana (meno male ora è arrivato Von Trier, con tutta la carrellata di discussioni che – as usual – si porterà dietro). Spesso comunque questi film si rivelano film assolutamente anonimi: voti insufficienti, ma non esageratamente – oppure voti sufficienti/buoni, senza troppe lodi da perderci sopra.

Philomena fa parte della categoria “sorpresa”, una categoria in cui raramente mi imbatto. Onestamente, viste locandine e trailer e ammoscata un minimo la trama, pensavo a quest’ultima fatica di Stephen Frears (Alta FedeltàThe Queen…) come appunto ad una sorta di The Queen (o, per esempio, The Iron Lady): storia mencia o banale, regia asettica, grandi prove attoriali su personaggi però visti e stravisti (o comunque molto istrionici). Invece questa pellicola è un po’ diversa da quelle che erano le mie aspettative.

Anzitutto, la regia non è affatto asettica, quanto discreta. Molto discreta. Mi ha ricordato, con le dovute proporzioni, quella di Payne in Nebraska: capace di accompagnare personaggi e attori con mano gentile, guidandoli con una certa fermezza ma senza far sentire in maniera ingombrante la propria presenza. E di delicatezza ce n’è davvero tanta in questo film, laddove non te l’aspetti – laddove sarebbe stato così facile indulgere su facili lacrime e sentimenti dispiegati con pornografia emotiva: in particolare è proprio il personaggio di Philomena, la vecchietta tutta casa e chiesa, ad essere perfettamente a fuoco, perfettamente commovente nella sua drammaticità tutta “inglese”.

Poi ci sono gli attori. Ora, chiunque ritenga che la Dench non sia capace di recitare è palesemente ignorante in materia: però davvero, questa è una delle sue migliori performance di sempre. Misurata, elegante, diretta come un macigno quando serve grazie ad un semplice sguardo, una semplice espressione del volto: potente ma con delicatezza (un ossimoro davvero poetico, che spero renda l’idea). Per quanto riguarda Steve Coogan, io non l’avevo mai sentito nominare, detta con tutta sincerità: ed è, al pari del film, una graditissima sorpresa. Anche lui sicuramente molto “inglese”, ma estremamente più umano e reattivo di Philomena, più sardonico, più “cattivo” quando serve, sicuramente più “ateo”: un’altra ottima prova, un altro bel personaggio reso con il giusto controllo.

Ma quello che davvero mi sorprende è la storia. Non c’è niente di quanto mi sarei aspettato, proprio niente di niente: non solo quelle lacrime e quei “sentimentacci” di cui parlavo sopra, ma neppure una svolta prevedibile o scontata. Mai avrei potuto pensare che in così poco tempo si scoprisse che il figlio era morto; mai avrei potuto pensare che la mamma non rimanesse minimamente sconvolta dallo scoprire che era gay (ma anzi, che lo immaginasse già!); mai avrei potuto pensare che il figlio fosse tornato a cercarla, allo spengersi della sua vita, venendo a sua volta ingannato dalle suore, come già la madre era stata ingannata per ben due volte.

E allora, mi dicevo, qual è mai il senso di questo film? Una semplice riflessione sulla vecchiaia? Sul rapporto madre-figlio? Sulle brutte cose che possono capitare nella vita? Sulla malvagità delle istituzioni, anche quelle da cui ti aspetteresti più amore di tutte? È questo che mi sconvolge. Non è niente di tutto questo: il viaggio è un pretesto per fare incontrare (e scontrare) due diversi punti di vista sulla vita, quello cristiano di Philomena e quello ateo di Martin. O meglio: quello “puro” di Philomena e quello più incline alle pulsioni di Martin. E tutto emerge con assoluta naturalezza: non è che i due stiano ore a discorrere su questo, ma sono pochi occasionali (e per questo molto realistici) dialoghi a raccontarcelo, mentre la vicenda principale rimane quella della “recherche” – una strada a fondo chiuso, perchè non è mai stata nell’idea degli sceneggiatori (lo stesso Coogan e Jeff Pope) la vera strada.

Basta la scena finale, a darci questa chiave di lettura: Martin che sbraita tutto il suo odio verso le Suore, per aver fatto soffrire inutilmente la sua amica; Philomena, pur avendo teoricamente tutte le ragioni del mondo, che perdona la Sorella con vera e propria pietà, imponendo a Martin di scusarsi. Ma niente di forzato, nessuna americanata o perfezione d’animo: solo due diversi modi di vivere la propria vita e la propria “anima”, nessuno dei due per forza giusto ma entrambi estremamente umani. Umanità, ecco di cosa tratta Philomena: e lo fa con una semplicità tale da passare quasi inosservato, quella semplicità che è anche capace di colpirti fino in fondo, se ci si arma della pazienza di Philomena e la si osserva con attenzione.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

“Ma io non voglio odiare le persone. Non voglio essere come te. Guardati.” “Sono arrabbiato.” “Dev’essere stancante.”

Classifica Stagionale 2011/2012: La Panca

Secondo appuntamento con la Classifica Stagionale del Cinemalato! Stavolta è il turno della “Panca“, ovvero tutte quelle pellicole che non hanno raggiunto la “TOP20“, ma che neanche sono scese sotto la sufficienza. I film in questione sono ben 17, anche stavolta elencati per ordine alfabetico, non per valutazione. Come sempre, cliccando sul titolo potrete leggere la recensione relativa alla pellicola, quando disponibile.

_______________________________________________________________________________________________________

Albert Nobbs, di Rodrigo Garcia (2011)

Non so perchè, ma riponevo molte speranze in questo film: il soggetto sembrava accattivante, e circolavano voci su una prova di alto livello da parte di Glenn Close. Purtroppo entrambe le aspettative non sono state ripagate; la Close è molto brava, ma è superata dalla straordinaria McTeer, e la storia viene mal gestita da regista e sceneggiatori, risultando troppo poco approfondita per toccare quelle corde emozionali che avrebbe potuto (e dovuto) toccare.

_______________________________________________________________________________________________________

Le Avventure Di Tintin – Il Segreto Dell’Unicorno, di Steven Spielberg (2011)

Un classico del fumetto francese, Tintin, il ragazzo dall’inconfondibile ciuffo rosso, sempre accompagnato dal suo cagnolino Milù, trasposto al cinema dal regista della tetralogia di Indiana Jones. Il risultato è un film di avventura che possiede un grande ritmo, con in più una grafica di grande impatto visivo. Spielberg non si scorda di essere un grande regista, e inserisce anche un paio di sequenze di livello (il borseggiatore inquadrato solo sui piedi e gli onirici e movimentati ricordi del capitano Haddock). Probabilmente Tintin si trova in panca perchè la lunga ombra della Disney-Pixar pesa troppo sulla qualità del prodotto d’Animazione, e un film prettamente “estetico” sbiadisce nel confronto con mostri sacri quali Up Wall-E.
_______________________________________________________________________________________________________

Bar Sport, di Massimo Martelli (2011)

Bar Sport è un titolo che molti hanno infamato, lamentando una comicità da Cinepanettone, un cast sprecato e una eccessiva frammentarietà degli eventi. Io dico che questi “molti” non conoscono l’opera da cui il film è tratto: l’omonimo libro di Stefano Benni usa una comicità bassa, caricaturale, grottesca, che descrive con occhio deformante tutta una serie di macchiette del “tipico Bar Italiano”; è inoltre diviso in episodi scollegati, ed è quindi per questo che la pellicola risulta spezzata. Poi è ovvio, non stiamo parlando di capolavoro, ma affossarlo peggio di un lavoro di Neri Parenti mi sembra ridicolo (considerando anche le due deliziose sequenze d’animazione, anch’esse decisamente “Benniane”).

_______________________________________________________________________________________________________

Biancaneve E Il Cacciatore, di Rupert Sanders (2012)

Il tentativo di portare sugli schermi la favola di Biancaneve in chiave dark non è del tutto riuscito; ad un livello tecnico valido e ben realizzato (scenografie, effetti speciali, costumi…) si contrappongono una trama troppo semplicistica e prove attoriali non sempre brillanti (la Stewart e Hemsworth fanno meglio di Twilight Thor, ma non è che ci volesse poi molto). Comunque vedere sul grande schermo Charlize è sempre un piacere, in tutti i sensi.

_______________________________________________________________________________________________________

Carnage, di Roman Polanski (2011)

Carnage è un film di attori; un quartetto spettacolare (Jodie Foster, John C.Reilly, Christoph Waltz, Kate Winslet) ci fa vedere come, dietro la maschera del perbenismo e dell’educazione, l’essere umano sia spesso e volentieri portato alla violenza e al risentimento. I protagonisti mostrano tutto il loro talento, dalla partenza in sordina all’exploit finale sopra le righe, e la pellicola scorre rapida e godibilissima. Alla fine, però, il limite del nuovo titolo di Polanski è proprio questo: essere  “solo” un film d’attori.

_______________________________________________________________________________________________________

Cosmopolis, di David Cronenberg (2012)

Il 2° Cronenberg di Stagione, presentato in concorso al Festival Di Cannes, ha indubbi pregi; un ottimo cast (con un eccellente Paul Giamatti, un’efficace Samantha Morton e un sorprendente Robert Pattinson), un regista che sa il fatto suo (la lunga sequenza finale in un’unica stanza è gestita benissimo a livello di spazi e movimenti attoriali) ed una scenografia futuristica suggestiva ed evocativa. Purtroppo Cosmpolis presenta una sceneggiatura ad alto livello di concettosità, che alla fine suona però di già sentito, affossando parecchio il risultato finale. Se non altro resta negli occhi la già citata, lunga conclusione, e l’aver (ri)scoperto il vampiro di Twilight è una valida sorpresa.

_______________________________________________________________________________________________________

A Dangerous Method, di David Cronenberg (2011)

locandina.jpg (420×600)Cronenberg, Freud, Jung, la psiche umana. Fino a che la pellicola corre sul binario dell’eccesso, sopra le righe come poche altre, colpisce ed intriga con efficacia (molte sono state le critiche alla prova di Keira Knightley, critiche che non capisco; da quando in qua i pazzi devono essere interpretati con controllo?). Un ottimo Fassbender e un grandissimo Mortensen (più uno stralunato Cassel) completano il tutto. La narrazione, tuttavia, si fa sempre più fredda e distaccata mano a mano che passano i minuti, togliendo al film quella potenza di cui parlavo prima. Buona/ottima la ricostruzione scenografica dell’epoca.

_______________________________________________________________________________________________________

… E Ora Parliamo Di Kevin, di  Lynne Ramsay (2011)

Tralasciando un’improponibile (as usual) traduzione italiana del titolo (pare quello di una commedia con Ben Stiller e la Aniston … E Alla Fine Arriva Polly, quando invece si tratta di drammatico con venature horror), la pellicola di Lynne Ramsay narra la storia di una ragazza divenuta madre troppo in fretta, del suo rapporto amore-odio (soprattutto odio) con il figlio Kevin, di un terribile omicidio. Seppure con indubbi meriti (visivi, come nella scena di Halloween, ma anche recitativa grazie ad un’eccelsa Tilda Swinton ed un efficace Ezra Miller), il film si perde un pò a livello di trama: non chiarisce bene il rapporto fra i genitori e il figlio, nè spiega con sufficiente chiarezza la sua malvagità; il tutto accompagnato dal fatto che, purtroppo, le scelte registiche quasi “horror” della regista si accumulano al punto di risultare indigeste nella mezz’ora finale. Resta comunque un prodotto molto valido.

_______________________________________________________________________________________________________

The Help, di Tate Taylor (2011)

Per quanto il plot di base della pellicola di Tate Taylor (tratto dall’omonimo romanzo di Kathryn Stockett) sia stra-abusato, The Help è un titolo che sa colpire le corde emozionali dello spettatore senza eccedere nel miele o nel ricattino morale (salvo il pietoso finale, 100% saccarosio gratuito). Molto gradevole e poco retorica soprattutto la side-story fra la cameriera di colore Minny (la vincitrice dell’Oscar come Non Protagonista, Octavia Spencer) e la sua svampita (ma buona) padrona bianca (la bravissima Chastain, che conferma le sue doti dopo The Tree Of Life). Alla fine tutto già visto e già sentito, ma apprezzabile.

_______________________________________________________________________________________________________

The Iron Lady, di Phyllida Lloyd (2011)

https://i0.wp.com/www.voto10.it/cinema/uploads/foto/locandina_the-iron-lady.jpg Mai locandina fu più azzeccata: il biopic della “Lady Di Ferro”, Margaret Thatcher, diretto dalla regista del musical-successone Mamma Mia!, è in realtà un “One-Man-Show” (o per meglio dire “One-Woman-Show”). Meryl Streep, in tutta la sua ormai ipercomprovata bravura, con una grande prova (e accompagnata da un ottimo trucco per quanto riguarda la vecchiaia della Iron Lady) segna un altro eccellente ruolo della sua incommensurabile carriera (stavolta sigillato anche dall’Oscar come Attrice Protagonista, la terza statuetta per la signora). Peccato che non bastino gli attori per fare un film: ed ecco che The Iron Lady si rivela una biografia troppo incentrata sulla vita personale della Thatcher, scombussolata e poco chiara  (non si capisce se si stia lodando o condannando l’operato della protagonista), alla lunga pesantemente elefantiaca.
_______________________________________________________________________________________________________

J. Edgar, di Clint Eastwood (2011)

Con questa recensione ho aperto le danze del Cinemalato. Purtroppo la prima review del blog non era decisamente relativa ad un film memorabile; il biopic del fondatore del Federal Bureau of Investigation (detto anche F.B.I.), nonostante la sapiente regia di Eastwood e il carisma di DiCaprio (che ha comunque fatto prove migliori, e che qui viene superato in bravura sia da Armie Hammer che da Naomi Watts), risulta freddo, distaccato, poco approfondito per quando riguarda la sfera del privato (soprattutto risulta troppo superficiale l’approccio alla figura di Miss Gandy). Ho inizialmente apprezzato il pesante trucco di DiCaprio e Hammer, ma alla lunga bisogna ammettere che il ridicolo è stato sfiorato e superato indubbiamente.

_______________________________________________________________________________________________________

Melancholia, di Lars Von Trier (2011)

Mettere Melancholia in questa sezione della Classifica è un vero e proprio dispiacere. Il film di Von Trier ha una prima sezione clamorosa, da applausi a scena aperta fino allo spellamento delle mani, un girotondo di sensazioni, visioni, emozioni da far girare la testa; Kirsten Dunst, bianca quasi diafana, ti entra fin dentro le viscere con intensità inesorabile (e non le sono da meno gli altri attori, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling…). Poi però arriva una seconda sezione a metà fra Emmerich (il peggior Emmerich) e un dramma teatrale di enfasi eccessiva ed elefantiaca; se non ci fossero gli stessi personaggi, non si capirebbe neanche il collegamento fra le due parti.  Melancholia, che fino ad allora era minimo da podio (forse anche da 1° posto), si ritrova così ridimensionato, con mio (ripeto) enorme dispiacere.

_______________________________________________________________________________________________________

La Pelle Che Abito, di Pedro Almodòvar (2011)

Altro film che mi scoccia davvero un sacco dover mettere in Panca è il nuovo Almodòvar. Un soggetto a dir poco superlativo; uno sviluppo valido, coinvolgente e corrotto al punto giusto (vedi la grottesca scena del “tigrotto”); virate nel melò (tanto caro allo spagnolo) misurate ed efficaci; attori in palla. Eppure a mezz’ora dalla fine Pedro perde le redini del gioco, e la pellicola perde il suo bell’equilibrio; finale melenso, esagerato e fuori dal mondo, che riduce il valore dell’intero lavoro.

_______________________________________________________________________________________________________

Quando La Notte, di Cristina Comencini (2011)

L’improponibile La Bestia Nel Cuore è una macchia che difficilmente si cancella dalla cinematografia Italiana (a pensare che riuscì ad arrivare nella cinquina dell’Oscar per il Film Straniero vien da ridere per non piangere); tuttavia la Comencini confeziona (da un suo romanzo) una pellicola su un amore strano, tanto violento quanto (quasi) privo di fisicità, fra un uomo e una donna (Timi e Pandolfi, bravissimi) più soli di quello che si possa pensare, uniti per caso dal pianto insopportabile di un bambino e da una follia notturna. Ma, dato che difficilmente ci si può smentire, la Comencini spreca tutto quanto di buono aveva costruito grazie ai venti minuti finali; ridicoli, al limite del bimbominkia-trash, sembrano quasi un altro film rispetto al resto della pellicola. Inizialmente avevo cercato di perdonare l’errore, ma purtroppo perdonare è qualità esclusivamente Divina.

_______________________________________________________________________________________________________

Quasi Amici, di Eric Toledano & Olivier Nakache (2011)

Secondo film per incassi al botteghino Francese (dopo Giù Al Nord), Quasi Amici è una commedia agile e scorrevole, con un affiatato duo di attori (Omar Sy e Francois Cluzet), una scrittura esperta e abile a schivare i luoghi comuni della retorica, una colonna sonora di sicuro impatto. Anche qua, però, il finale scade nel banale/forzato, rivelando la vera natura della commedia di Nakache e Toledano; un film per tutti i gusti, che però non raggiunge certo elevate vette qualitative.

_______________________________________________________________________________________________________

La Talpa, di Tomas Alfredson (2011)

Elegante, sofisticato, grigio; La Talpa è un thriller che soffoca lo spettatore, facendogli respirare quella che era l’aria ai tempi della Guerra Fredda. Registicamente impeccabile, presenta forse il cast più spettacolare dell’anno: Gary Oldman (eccellente), Tom Hardy (molto bravo), John Hurt (di gran mestiere), Colin Firth (ottimo), Mark Strong (sorprendente)… Dunque, qual è il problema? E’ presto detto: il montaggio. I vari flashback temporali sono troppo fumosi, troppo poco delineati, e anche i cambi “diatopici” (cioè di luogo geografico) non sono precisi. Questo, sommato alla lentezza (voluta, ma estenuante) della pellicola, fa sì che una trama non troppo complicata (a tratti anche banale) risulti intricatissima e difficilissima da seguire; e per un thriller, davvero non è il massimo.

_______________________________________________________________________________________________________

Warrior, di Gavin O’Connor (2011)

Non dovrei tirare fuori le posizioni nella sezione della Panca, ma è giusto dire che, fino a due settimane fa, Warrior era il mio personale #20. A differenza di The Fighter, film della scorsa stagione, la pellicola di O’Connor ha una maggiore genuinità ed una maggiore intensità (come del resto sono più intense le MMA della boxe); sulla locandina si parla di Million Dollar Baby, e seppure il filmone di Eastwood sia lontano anni luce, Warrior è crudo e diretto come l’antecedente del 2004. Ottimi attori (Tom Hardy, già sopracitato ne La Talpa, e il ruvido Nick Nolte, in una prova da applausi a scena aperta) e una trama semplice ma efficace, proprio come un cazzotto al mento ben diretto, Warrior vale davvero la visione, ed è tutta colpa delle distribuzioni Italiane se non ha raggiunto la TOP20 (prossimamente capirete il perchè).

Premi Oscar 2012

https://i0.wp.com/www.filmofilia.com/wp-content/uploads/2011/12/84toscar.jpg

Eccoci giunti al momento “clou” della stagione, i Premi Oscar. Certo, l’Academy in passato ha compiuto oscenità atroci (fra i non premiati spiccano nomi del calibro di Stanley Kubrick, Alfred Hitchcock e Tim Burton, solo per dirne 3), ed indubbiamente esistono altri premi significativi (Palma, Leone ed Orso D’Oro su tutti). Eppure è indubbio: l’ambita statuetta è il riconoscimento di maggior impatto mediatico, e vincerne una significa segnare un punto fondamentale per la propria carriera. Ecco dunque il mio personalissimo commento (relativo alle 8 categorie principali) sulla cerimonia svoltasi due giorni or sono in quel di Hollywood.

LEGENDA

GRASSETTO: Vincitore.

SOTTOLINEATO: Vincitore nella mia modestissima opinione.

ROSSO: Nome che avrei selezionato per la cinquina.

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Alexander Payne, Nat Faxon e Jim Rash (Paradiso Amaro)

John Logan (Hugo Cabret)

George Clooney, Grant Heslov e Beau Willimon (Le Idi Di Marzo)

Steven Zaillian, Aaron Sorkin e Stan Chervin (L’Arte Di Vincere)

Bridget O’Connor e Peter Straughan (La Talpa)

Si parte con quello che è stato, indubbiamente, il premio più ciofeca della serata. Da queste parti mi sono espresso con grande favore nei confronti del vincitore; eppure la forza di The Descendants non è la scrittura, quanto la delicata regia di Payne. Al contrario, nella mia recensione de L’Arte Di Vincere, ho evidenziato come il punto forte della pellicola fosse proprio la sceneggiatura di ferro (la coppia Zaillian/Sorkin ha già una statuetta a casa, e non l’ha ottenuta per caso). La nomina di Hugo Cabret in questa categoria è scandalosa, e anche quella de La Talpa rasenta lo schifo (il film è estremamente caotico a livello di trama narrativa).

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

Woody Allen (Midnight In Paris)

Michel Hazanavicius (The Artist)

Annie Mumolo e Kristen Wiig (Le Amiche Della Sposa)

J.C. Chandor (Margin Call)

Asghar Farhadi (Una Separazione)

Forse farei meglio a non esprimere un parere, avendo visto solo Midnight In Paris e The Artist, ma la quarta statuetta di Woody mi ha regalato un momento di pura gioia, e visto che Basta Che Funzioni era stato snobbato agli Oscar 2010 questo mi sembra un giusto e meritato risarcimento.

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Bérénice Bejo (The Artist)

Jessica Chastain (The Help)

Melissa McCarthy (Le Amiche Della Sposa)

Janet McTeer (Albert Nobbs)

Octavia Spencer (The Help)

Non c’è troppo dispiacere per la vittoria della Spencer (qui ho parlato della sua performance), ma speravo nell’improbabile ribaltone di fronte della McTeer; la sua prova in Albert Nobbs è la miglior cosa di una pellicola che, nonostante tutti i difetti, avrei voluto veder premiata in una delle Major. Ci sono almeno altre 5 prove che avrei preso in considerazione nella categoria: Marion Cotillard (Midnight In Paris), Kate Winslet (Carnage), Shailene Woodley (Paradiso Amaro), Cate Blanchett (Hanna), Mia Wasikowska (Albert Nobbs).

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Kenneth Branagh (My Week With Marilyn)

Jonah Hill (L’Arte Di Vincere)

Nick Nolte (Warrior)

Christopher Plummer (Beginners)

Max Von Sydow (Molto Forte, Incredibilmente Vicino)

Sospendo il giudizio: ho visto solo Nolte e Hill, e il secondo non era manco da nomina per me. Fra i nomi che avrei preso in considerazione ci sono Viggo Mortensen (A Dangerous Method), Tom Hardy (La Talpa) e Armie Hammer (J. Edgar); anche Brad Pitt per The Tree Of Life sarebbe potuto rientrare nella cinquina.

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Glenn Close (Albert Nobbs)

Viola Davis (The Help)

Rooney Mara (Millenium – Uomini Che Odiano Le Donne)

Meryl Streep (The Iron Lady)

Michelle Williams (My Week With Marilyn)

Meryl ha vinto: quanto godo da 1 a 10 secondo voi? Terza statuetta su 17 nomine per la signora Streep (che si piazza a parimerito con Jack Nicholson, Ingrid Bergman e Walter Brennan per numero di vittorie); dispiace per Glenn Close, un’altra delle grandissime escluse dell’Academy, mentre non dispiace affatto per Viola Davis, a cui io non avrei dato manco la nomination (la sua vittoria avrebbe avuto un retrogusto di “contentino” per il mancato successo nel 2009, quando venne nominata per Il Dubbio come Non Protagonista). Perchè invece non nominare la bravissima Saoirse Ronan per la favola pop-urban Hanna? E Bérénice Bejo andava nominata in questa categoria per The Artist, non in quella di supporto.

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

Demián Bichir (A Better Life)

George Clooney (Paradiso Amaro)

Jean Dujardin (The Artist)

Gary Oldman (La Talpa)

Brad Pitt (L’Arte Di Vincere)

La vittoria del Francese è meritata e condivisibile. Fra l’altro questa era una cinquina di tutto rispetto (anche se non ho visto la prova di Bichir), eppure anche qui ci sono altri nomi che avrei preso in considerazione; Tom Hardy (Warrior), Rhys Ifans (Anonymous. Sì, è un film di Roland Emmerich, eppure è ben congegnato e recitato; vedere per credere), Sean Penn (This Must Be The Place, film osceno dove però Penn si comporta decisamente bene).

MIGLIOR REGIA

Michel Hazanavicius (The Artist)

Alexander Payne (Paradiso Amaro)

Martin Scorsese (Hugo Cabret)

Woody Allen (Midnight In Paris)

Terrence Malick (The Tree Of Life)

La vittoria di Hazanavicius va decisamente meno di traverso di quella dell’anno scorso (Tom Hooper per Il Discorso Del Re batte Aronofsky e i Coen; Nolan e Sofia Coppola non vengono manco nominati), ma l’intenso sguardo di Payne meritava (finalmente) un giusto riconoscimento; comunque Michel è “responsabile” della scena Cult dell’anno, di cui ho parlato nella recensione di The Artist, quindi tanto di cappello. Fra i registi che avrei nominato annovero Joe Wright (Hanna) e Bennett Miller (L’Arte Di Vincere).

MIGLIOR FILM

The Artist

Paradiso Amaro

Molto Forte, Incredibilmente Vicino

The Help

Hugo Cabret

Midnight In Paris

L’Arte Di Vincere

The Tree Of Life

War Horse

Avendo visto 7 dei 9 candidati credo di essermi fatto un’idea precisa, un’idea che voleva vincitore uno dei tre film sottolineati, e che invece è stata delusa nelle sue aspettative; nuovamente, rispetto ai trionfi di The Millionaire, The Hurt Locker e Il Discorso Del Re, la vittoria di The Artist è decisamente più sopportabile, dal momento che lo si può definire come il mio personale outsider. Anche qui la presenza di Hugo Cabret crea in me un notevole disgusto. Fra le pellicole che avrei preso in considerazione vi sono Hanna, Warrior e Anonymous.

Questo è tutto: alla prossima edizione!

https://i0.wp.com/www.silenzio-in-sala.com/locandina-the-artist.jpg