It (2017)

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1988. La piccola cittadina di Derry è sconvolta da una serie di inspiegabili sparizioni, che coinvolgono esclusivamente giovani ragazzi e bambini. Tra questi anche Georgie, il fratellino più piccolo del balbuziente Bill: insieme ai suoi amici “sfigati” (Richie, Stan, Ben, Eddie, Mike e la bella Beverly), Bill comincerà ad indagare sui misteriosi avvenimenti, scoprendo una realtà che va ben al di là di ogni immaginazione, e che forgerà il carattere dei sette ragazzini così come la loro amicizia.

A distanza di 27 anni dal celeberrimo film per la televisione It (nel quale i panni del clown “danzante” erano indossati dall’eccellente Tim Curry, in una delle sue performance attoriali più iconiche), tornano le avventure del pagliaccio mostruoso e dei ragazzini sfigati di Derry. Francamente a vedere chi fosse il nome dietro la macchina da presa c’era da tremare: Andrés Muschietti, autore del terribile pastrocchio noto come La Madre nella lontana Stagione 2012/2013.

Eppure questo nuovo It è decisamente ben realizzato e convincente, una delle maggiori sorprese che questa Stagione probabilmente mi riserverà.

Il cast è anzitutto ottimamente selezionato. La compagine dei “lucky seven” è interpretata con piglio, credibilità e fascino nostalgico dai giovani attori che ne incarnano i componenti (uno di loro, Finn Wolfhard, è – non a caso – uno dei protagonisti dell’altrettanto nostalgico e “revival”eggiante Stranger Things): segnalo, oltre a Wolfhard, anche il balbuziente Bill di Jaeden Lieberher e il cuore grassoccio del Ben di Jeremy Ray. Forse, paradossalmente, il meno convincente di tutti è il buon Bill Skarsgard/Pennywise: in parte per una certa somiglianza di espressioni con il Joker di Heath Ledger (ah, quanta influenza hai avuto nelle figure dei “villains” cinematografici, Heath mio…), in parte per un’eredità francamente mostruosa da gestire (Tim Curry, come già detto, è un’icona anche grazie a questo film).

Le atmosfere e le scelte visive, poi, sono altrettanto valide, in bell’equilibrio tra omaggio rispettoso (la scena ormai culto del tombino), rifacimento ammodernato (la sequenza dell’album fotografico trasformata in un proiettore di diapositive impazzito, con un meraviglioso squarcio della pellicola da parte di un It gigantesco, gommoso e spaventoso) e totale innovazione (l’inseguimento in biblioteca tra il decapitato It e Ben). Tutti i limiti del precedente film sono qui divenuti pregi: Muschietti stavolta gioca molto bene sui cliché e sul materiale originale, mixando anche efficacemente le venature horror con quadri di stupore puramente fantastico.

Viene inoltre dedicato, a livello di script, molto più spazio alle personalità dei bambini (pur se non di tutti, ad onor del vero) e al rapporto amoroso tra Ben, Beverly e Bill: la dotazione di un incrementato background fa sì che lo spettatore si interessi maggiormente alle disavventure che i nostri sono costretti a vivere, e che la tensione nell’ottima sequenza fognaria sia alle stelle (ci sentiamo, insomma, parte integrante di questo magnifico gruppo di amici, che forse ci ricorda terribilmente un’infanzia perduta o mai vissuta). Un plauso, dunque, anche agli sceneggiatori Chase Palmer, Cary Fukunaga e Gary Dauberman.

It è, insomma, un ottimo esempio di un trend recentemente molto di moda: la revitalizzazione degli anni ’80. Lo fa con giocosità, con credibilità e con un valido equilibrio tra horror e fantasy (seppur non sia esente da difetti, come le succitate mancanze di approfondimento psicologico e una paradossale debolezza nella performance centrale del film – che però, si noti bene, non è centrale come nell’originale televisivo). Applausi e valutazione più che positiva (con potenzialità di crescendo) in attesa di poter ammirare una (si spera e si crede) più che degna conclusione durante la prossima Stagione.

“LOCANDIMETRO”

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Classifica Stagionale 2015/2016: TOP20 – Parte Bassa (20-11)

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Per la terza sezione della Classifica Stagionale si entra nella TOP20, con i dieci film che ne occupano la parte più bassa (qui quelle della Stagione passata): pur non avendo raggiunto le ambitissime prime dieci posizioni, queste pellicole si sono già sufficientemente distinte dalle 20 finora catalogate, e dunque si meritano un plauso ben maggiore (nonché l’onore di essere classificate propriamente, invece che elencate per ordine alfabetico). Come sempre, cliccando sul nome della pellicola potrete leggere la recensione relativa.

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20) Julieta, di Pedro Almodòvar (2016)

Julieta è il solito melodramma alla Almodòvar: tragiche morti, espressioni al limite del grottesco e pianti alla greca sono le tre principali caratteristiche di una vicenda quasi esclusivamente femminile, fatta di complicatissimi rapporti familiari e tentativi di psicanalisi. Nonostante un pessimo finale, la vicenda è scritta in maniera sufficientemente efficace, ci sono alcune sequenze davvero ispirate (il treno), e la bravura degli interpreti dona quel quid in più per aggiudicarsi (seppur di pochissimo) la “Top20”.

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19) Black Mass – L’Ultimo Gangster, di Scott Cooper (2015)

La pellicola di Scott Cooper sarebbe potuta essere molto di più: l’interessante rapporto che lega i due personaggi principali (un poliziotto che favorisce i criminali per un sincero slancio di riconoscenza) e la personalità di questo “Whitey” Bulger (che non sembra davvero cattivo, solo moralmente distorto) danno un tocco in più ad una banale vicenda di gangster, ma non sono sufficientemente approfonditi per far davvero spiccare il volo all’intero film. Plauso a Johnny Depp, che si libera dei fantasmi eccentrici di Jack Sparrow e mette nuovamente a segno (alleluia!) una valida performance.

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18) The Danish Girl, di Tom Hooper (2015)

Tom Hooper prende una vicenda interessantissima come quella del primo transessuale accertato della storia e ne ricava un perfetto biopic classicheggiante: purtroppo la pellicola è sin troppo lunga, e lo script che la sorregge perde colpi in maniera incredibile nella seconda metà (incredibile che manchino le idee con un personaggio tanto complesso da raccontare!), per poi chiudere in maniera quasi ridicola su un paio di scene melense e ricche di terribili frasi ad effetto. Plauso ai due attori protagonisti, davvero intensi.

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17) The Hateful Eight, di Quentin Tarantino (2015)

L’opus #8 di Quentin Tarantino è uno strano riciclaggio (quasi come se mancassero le idee) di pellicole precedenti (Le IeneDjango Unchained) dalla durata eccessiva (venti-trenta minuti meno non avrebbero guastato), con in più una moralina anti-razzista di fondo che produce l’effetto opposto a quello che dovrebbe nelle intenzioni del regista-sceneggiatore (facendoti odiare il comandante negro Warren, per il quale dovresti fare il tifo nella sua rivincita contro i bianchi). Ad ogni modo, un grande cast in pallissima e le solite validissime sequenze pulp portano agilmente il film nella “Top20”.

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16) Anomalisa, di Charlie Kuafman & Duke Johnson (2015)

Laddove Charlie Kaufman ha sempre eccelso (l’originalità delle pellicole), Anomalisa fallisce: questo non sarebbe assolutamente un male – alla fin dei conti un film realistico non è necessariamente peggiore di uno più originale, tutt’altro! – ma la nuova pellicola del geniale sceneggiatore sembra un po’ fine a sé stessa a livello di tematica morale, e presenta un finale debole e affrettato. Tuttavia le commoventi animazioni, i dialoghi perfettamente centellinati e la dolcissima sequenza della notte d’amore tra Michael e Lisa valgono da sole il prezzo del biglietto.

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15) Room, di Lenny Abrahamson (2015)

Il film indie dell’annuale serata degli Oscar, Room presenta un’idea di base davvero accattivante e particolare, che porta in effetti ad una prima metà ottimamente realizzata sotto ogni punto di vista ed estremamente poetica. Peccato solo che la pellicola prenda nella seconda metà una direzione che personalmente non ho apprezzato molto (quella del rientro di madre e figlio nel mondo reale) e che trovo non sia neppure realizzata bene quanto la prima metà. Altra grande coppia di attori protagonisti, ai quali va il mio personale plauso.
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14) Star Wars: Il Risveglio Della Forza, di J.J. Abrams (2015)

J.J. Abrams prende la saga cinematografica più famosa di tutti i tempi e opta per un reboot nel segno del classico (molti hanno lamentato somiglianze con l’episodio IV, come se questo fosse effettivamente un male – non si tratta di pigro riutilizzo, ma di rivisitazione moderna del classico) con alcuni tocchi di moderna drammaticità (il cattivo Kylo-Ren, profondamente dilaniato e per questo più debole della protagonista – a mio avviso, una scelta veramente interessante). Peccato solo per alcuni mancati approfondimenti (soprattutto sul passato della  protagonista e sul personaggio del pilota), ma confido che saremo soddisfatti in tal senso dai prossimi episodi.

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13) Love & Mercy, di Bill Pohlad (2014)

Un arrivo in ritardo per la distribuzione italiana (il primo di due che si troveranno all’interno di questa Classifica), Love & Mercy è un efficace biopic sulla vita di Brian Wilson e sulla sua straordinaria capacità di fare musica: forse la pellicola necessitava di qualche minuto in più per approfondire meglio alcune tematiche (come il rapporto tra Wilson e il dottor Landy), ma le due storie narrate (quella della creazione di Pet Sounds e quella della relazione salvifica fra Brian e Melinda) sono efficacemente strutturate, presentano alcune sequenze davvero commoventi e possono contare sull’interpretazione di tre attori (Dano, Cusack e la Banks) davvero in grande spolvero.

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12) Veloce Come Il Vento, di Matteo Rovere (2016)

Veloce Come Il Vento è un film italiano che presenta un livello tecnico davvero molto alto: le scene di corsa e gli inseguimenti clandestini tra macchine sono davvero inappuntabili, e reggono il paragone con le più pompate produzioni a stelle e strisce. Tuttavia la trama del film è in gran parte molto banale, assolutamente non all’altezza della qualità tecnica. Ma grazie ad uno straordinario Accorsi (che recita in maniera molto meno compassata, gigioneggiando efficacemente in romagnolo) ecco che la pellicola di Matteo Rovere diventa capace di regalare momenti di alta intensità e commozione, ed è quindi meritevole di un piazzamento finale di tutto rispetto.

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11) Perfetti Sconosciuti, di Paolo Genovese (2016)

Nonostante mi sia un po’ scaduta con il tempo (forse anche a causa del riconoscimento come Miglior Film agli ultimi David Di Donatello, sinceramente eccessivo), l’ultima commedia di Paolo Genovese rispetta quelli che sono gli standard del regista: film meno stupidi di quanto il genere ci abbia abituato a vedere in Italia, che sanno far ridere ma tentano anche di far riflettere (amaramente) tra una risata e l’altra. Coadiuvato da un cast di tutto rispetto che incarna alla perfezione i protagonisti della vicenda, Perfetti Sconosciuti riflette efficacemente su un microcosmo fatto di apparente serenità, che in realtà nasconde segreti inconfessabili anche per coloro che dovrebbero essere i nostri più stretti confidenti.

Love & Mercy (2014)

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La storia di Brian Wilson – leader di uno dei gruppi fondamentali per la musica Pop mondiale (i Beach Boys) – raccontata in due diversi momenti: le travagliate eppure magnifiche composizioni dei grandi capolavori nella seconda metà dei ’60 – all’ombra di un successo difficile da gestire e di una famiglia vissuta come opprimente (nella figura del padre) ma anche come unico vero rifugio e sicurezza (nella figura dei fratelli); la malattia mentale negli anni ’80, mal gestita dallo psicologo di fiducia Eugene Landy, e la flebile speranza di tornare a vivere una vita piena grazie all’amore per la venditrice di Cadillac, Melinda Ledbetter.

Love & Mercy è stato un film davvero istruttivo, per quanto mi riguarda: ignoravo completamente le turbe psichiche di Brian Wilson, e – pur sapendo che Pet Sounds fosse universalmente considerato un “album di Brian Wilson” più che “un album dei Beach Boys” – non riuscivo a percepire questa base “solitaria”, quasi titanica dietro a quello che probabilmente è il più grande album Pop di tutti i tempi. La pellicola di Bill Pohlad (scritta da Oren Moverman e Michael A. Lerner) riesce ad esperire questi due “compiti” in maniera più che soddisfacente.

La parte relativa agli anni ’60 ci spiega bene l’insorgere della malattia mentale, e la sua influenza decisamente positiva sulla produzione del giovane Brian Wilson: la scena in cui nella mente di Brian affiora la frase “I know there’s an answer” – il secondo e definitivo testo dell’originale “Hang on to your ego” – è semplice, ma efficace, in tal senso. Inoltre il film non tralascia di prestare la giusta attenzione ai rapporti tra i vari componenti dei Beach Boys, e alla tensione costante che regge il legame tra Brian e suo padre – un uomo diviso tra una sorta di invidia per il talento del figlio, e il risentimento per essere stato allontanato dalla band dopo aver fatto loro da manager per i primi anni. Paul Dano si porta sulle spalle un personaggio fragile ma conscio delle proprie idee, che si allontana dalla realtà a causa delle sue turbe e dell’eroina, e come sempre risulta magistrale nella propria interpretazione.

La sezione sul “presente” (la finestra sugli anni ’80) è sicuramente più “banale”: una storia di amore e salvezza, una sorta di parafrasi moderna del concetto della donna-angelo dello Stilnovo. Nonostante questo il film non perde troppi colpi neppure in questa fase: la costruzione del rapporto tra Brian e Melinda è ben congegnata in una naturale progressione di intimità sempre maggiore (nonostante il poco tempo a disposizione), ed è impossibile non rimanere commossi dall’improvvisata dedica pianistica di Brian alla sua nuova “amica”. È questo un elemento interessante che emerge all’interno della sezione: Melinda non cura improvvisamente le turbe di Brian, ma semplicemente mette ordine al loro interno, per cui in sua compagnia egli torna ad essere in grado di comporre le melodie dei tempi andati; al contrario il dottor Landy agisce sulle turbe di Brian peggiorandole, e creando intorno all’uomo un mondo troppo rigido per la sua anima fragile. Anche qui buona parte del risultato finale è merito del cast: John Cusack, Elizabeth Banks e Paul Giamatti incarnano alla perfezione i propri personaggi e i vizi/virtù da essi portati all’interno della vicenda.

Non che Love & Mercy sia un film perfetto: come detto, entrambe le sezioni (soprattutto quella inerente agli anni ’80) hanno una certa “banalità” di fondo, e alcune tematiche non sono state abbastanza approfondite in virtù di un minutaggio abbastanza ridotto (il rapporto con l’eroina negli anni ’60, e quello con il dottor Landy negli ’80). Ma la bravura del cast, alcune scene semplici ma non banali, e l’interessante ricostruzione delle registrazioni di Brian e del suo gruppo per Pet SoundsGood Vibrations, fanno di questa pellicola un interessante documento sulla vita di un grandissimo artista e dell’uomo che sta dietro ad esso.

“LOCANDIMETRO”

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Sin City (2005) Vs Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere (2014)

LO SCONTRO

Da molto, troppo tempo (ben un anno e passa), mancavano i “Vs.” del Cinemalato: l’uscita dell’episodio numero 2 del cinefumetto più cult di sempre mi permette di rispolverare questa categoria, finita un po’ nel dimenticatoio. Che lo scontro abbia inizio!

Quando Sin City uscì al cinema nel lontano 2005 io non lo vidi. Rappresentava una discreta novità, comunque, dal momento che si trattava di una sorta di “cine-comic”, vero e proprio “trasporto” – non trasposizione – di un fumetto (con tutte le sue atmosfere e “regole”) su pellicola. E a prescindere da questo suo merito, la qualità della pellicola era notevole (per quanto gli influssi tarantiniani, particolarmente Kill Bill, si facessero sentire). Ovviamente non tanto per merito dei personaggi/episodi rimasti più impressi nella memoria pubblica (ovvero il massacro della città vecchia con Clive Owen e Rosario Dawson, la “letale piccola Miho”, eccetera), quanto per il meraviglioso duetto Willis/Hartigan-Alba/Nancy sulle fumose note di un noir vecchio stampo, condito con una vitale modernità di stampo fumettoso e quel “bastardo giallo” così putrido e perfetto come cattivone di turno. Perchè il problema grosso di Sin City, l’unico vero problema, era quell’equilibrio instabile fra splatter e tamarro – fra eleganza e abuso nell’utilizzo di effettoni speciali, sangue, colore… -, che non sempre riusciva a mantenere.

Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere è invece uscito in un periodo ben diverso, mancando ormai di possedere quell’inedita forza aggiuntiva dell’originale (impossibile, dopo l’uscita di numerosi film del genere come il sopravvalutatissimo 300). Ma non è questo che conta, alla fine dei conti: vale molto di più l’approccio, totalmente diverso, che ho riscontrato e che rende la pellicola immensamente inferiore all’originale.

Qua la componente tamarra è diventata sovrana, si cerca solo e soltanto il sangue facile, l’uccisione spettacolare, la frase ad effetto, e lo si fa premendo esageratamente sul pulsante dell’irreale. Il bestione interpretato da Mickey Rourke (Marv) non era un sottospecie di robot invincibile nel primo Sin City, ad esempio: il suo scontro con Elijah Wood/Kevin aveva un che di sovrannaturale, eppure (senza eccessi di sangue, con una “sconfitta” a testa nel corso di due scontri) era ancora perfettamente credibile – esattamente quel genere di atmosfera “in precario equilibrio” di cui parlavo prima. Qua Marv mena le mani in maniera inarrestabile, schiva proiettili come neanche un pokemon che avesse usato doppioteam 6 volte, e sembra solo un bestione senza cervello – non quel rude e rissoso macellaio-gentiluomo che emergeva dal rapporto con Goldie nel primo film.

La tamarraggine, tuttavia, è fortemente collegata con l’elemento femminile. Parliamoci chiaro. Rosario Dawson che spara a manetta con un mitra roteando la lingua come una spiritata è figa, ma non cinematograficamente parlando: è figa perché la si tromberebbe molto volentieri. La presenza di donne killer nell’episodio di Clive Owen è forse il motivo principe per cui tale episodio sia il peggiore del primo Sin City: la pellicola del 2005 era “maschia”, ovvero l’azione era affidata all’uomo e la donna serviva come motore, come principessa indifesa – non c’era nulla di sessista in questo, era solo la formula adottata, e funzionava alla grande. Nel terzo episodio del primo film, le parti si invertivano, e il tutto assumeva proporzioni di tamarraggine e ridicolezza assolute. In Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere, in perfetto contrasto con il titolo, sono le donne a farla da padrona: ma Rosario Dawson è sempre tamarra, Eva Green un personaggio assolutamente scontato (per quanto più figa che mai), e Nancy-killer-dalla-mira-perfetta semplicemente non funziona (dov’è finito l’angelo biondo, indifeso simbolo di purezza che l’enorme Hartigan di Bruce Willis voleva preservare dal contagio con la corruzione di Sin City, incarnata dal bastardo giallo di Nick Stahl?).

IL VERDETTO

Solo in un piccolo episodio, uno solo, Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere si redime: guarda caso, l’episodio dove la donna torna di nuovo ad essere solo il motore dell’azione – guarda caso, l’episodio senza lieto fine (stesso caso del “Bastardo Giallo”). Uno statuario Gordon-Levitt ci porta a vivere il suo dramma personale, un dramma familiare crudelissimo con una risoluzione magnifica, ricordandoci cos’è Sin City: il luogo del peccato, dell’immondizia dell’anima, della vergogna morale eretta a statuario monito di grandezza per le generazioni future. E come Hartigan/Willis, Gordon-Levitt/ Johnny combatte la sua piccola (seppur parzialmente vana) crociata contro questo male assoluto, donando un barlume di sincera commozione allo spettatore così come un segno di speranza: purtroppo per lui, non c’è nessuna speranza che Sin City – Una Donna Per Cui Uccidere batta il predecessore, molto più equilibrato e moderato nei toni, con personaggi e vicende di spessore palesemente maggiore, con una valenza estetica inedita e ben sfruttata (per quasi tutta la pellicola). E così si conclude questo primo “scontro”, dopo tempo immemore.

“LOCANDIMETRO”

IL VINCITORE

Grand Budapest Hotel (2014)

Una ragazza sta leggendo il libro di uno scrittore, la cui storia gli venne raccontata a sua volta da un vecchio ospite del Grand Budapest Hotel, negli anni ’60. Costui, Zero Moustafa, era il Lobby Boy, un’apprendista al servizio dello stimato concierge del Grand Budapest Hotel, Gustave H. La loro storia e le loro incredibili e fantastiche peripezie vengono innescate dalla morte di una delle “amiche” del concierge, che decide di lasciargli in eredità un dipinto dall’inestimabile valore, causando le ire del figlio e del suo perfido e brutale scagnozzo…

Wes Anderson, e il suo magico mondo. Ricordo ancora quando ci siamo incontrati la prima volta, e di quali siano state le mie impressioni: I Tenenbaum mi colpì per tantissime cose (in primis il surrealismo “realistico” della vicenda e la caratterizzazione dei personaggi – nonchè la scelta del cast), ma al contempo tutto appariva insopportabilmente “radical chic”, e la vicenda stessa finiva per essere un pretesto, utile solo a mostrare quella galleria di personaggi così affascinanti e bizzarri. Dopo Moonrise Kingdom – Una Fuga D’Amoretuttavia, Wes mi aveva finalmente mostrato il suo cuore e la sua anima: e quando in seguito ho visionato anche Il Treno Per Il Darjeeling, pellicola precedente a Moonrise e nuovamente permeata di radicalchiccismo galoppante, mi sono convinto che sia stato proprio il lavoro del 2012 quello con cui Anderson ha fatto il passo avanti – quello che gli ha permesso di tramutare le sue vicende radical chic in vere e proprie fiabe.

La premessa, sebbene ridondante, era doverosa: sinceramente, infatti, dubitavo che Wes potesse fare molto di più, a questo punto. Non che i suoi film siano brutti, ma parliamoci chiaro: per quanto ben costruite (sia registicamente che a livello di script) e divertenti, le sue sono appunto fiabe – pellicole che di per sè non hanno ambizione o potenziale da voto importante (oltre al fatto che, insomma, il surrealismo e i colori saturi non sono certo una sua prerogativa nella Storia del Cinema).

E qui voglio scomodare un certo Big Fish – Le Storie Di Una Vita Incredibile, pellicola di Tim Burton a cui spesso ho già fatto riferimento. Perchè Grand Budapest Hotel è il Big Fish di Wes Anderson. Cosa accadde nel lontano 2003? Tim Burton, non certo il primo pivellino e non certo un regista poco considerato, aveva già girato un discreto numero di pellicole (tutte le sue migliori, inclusi Ed Wood e Edward Mani Di Forbice): per quanto chiunque si potesse aspettare, e con diritto, un altro bel film da parte del Tim nazionale, dubito che molti potessero aspettarsi una tale prova, una summa così incredibilmente perfetta di tutto ciò che per Burton il Cinema è (e, paradossalmente, senza il fido Johnny Depp). Big Fish era Il Testamento cinematografico di Burton, una meravigliosa sintesi di tutto quello che l’Artista Burton era, è e sarà: con, in particolare, una bellissima ode al potere della fantasia e della narrazione, capaci anche di farsi panacea per la morte nello straordinario finale.

Grand Budapest Hotel è questo: La Summa Andersoniana. Surrealismo (ma con una bella dose “di cuore”) nella caratterizzazione dei personaggi, perfette simmetrie di spazi e figure umane nelle inquadrature (fateci caso perchè sono davvero perfettamente “orchestrate” durante l’intera pellicola), colori saturi e meravigliosi di Robert Yeoman, musiche di Alexandre Desplat invadentissime ma perfettamente sognanti (mi sono venute in mente i perfetti “commenti sonori” di Chaplin), costumi impossibili e “fantastici” di Milena Canonero, cast Abnorme (Ralph Fiennes, Tilda Swinton, Saoirse Ronan, Tom Wilkinson, F. Murray Abraham, Jude Law, Adrien Brody, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Léa Seydoux, il feticcio Bill Murray, Edward Norton, Owen Wilson, Jason Schwartzman, Jeff Goldblum, Harvey Keitel). La scena che posto in MOVIEQUOTE spero renda giustizia a quanto esplicitato finora. Ma quel quid che rende la pellicola degna di nota e assolutamente stravolgente è proprio il suo essere Big Fish fino all’ultimo.

Perchè Grand Budapest Hotel riesce, con quella leggerezza e apparente superficialità fiabesca propria di Anderson, a parlarci di tante cose – anche mentre ridiamo di gusto alle tante trovate umoristiche della vicenda: la guerra mondiale e la violenza che ne scaturì, appena accennata ma fondamentale per alcuni “plot points”; il razzismo, collegato al punto precedente (nella figura di Zero); la morte di una persona cara, e le asperità della vita (sia Agatha – la donna amata da Zero – che Gustave H. non riusciranno a godere dei frutti ottenuti con tutte le peripezie di cui la storia si compone); la crudeltà delle persone (perchè gli omicidi “surreali” di Willem Dafoe sanno anche farti venire i brividi all’immaginare tanta freddezza e veemenza in una persona umana).

E infine, ma non per importanza, il valore dei tempi passati e della loro memoria – e dunque del “raccontare” come modo per tramandare quello che è accaduto, per collegare tra loro diverse epoche e diverse generazioni. Non era casuale, la mia sintesi della trama. È quel sistema a scatole cinesi, a cornici “Bocaccesche”, che conta davvero: perchè Zero racconta al giovane scrittore, che da vecchio riporta la sua storia e ne fa un libro di successo, che a sua volta è di ispirazione per la giovane ragazza, che in realtà ha condiviso l’intera vicenda con noi spettatori. Ed è forse anche una speranza del regista, perchè lo stesso Grand Budapest Hotel sia tramandato con quella cura e rilevanza in futuro. Dunque Anderson come Burton, un narratore di fiabe cinematografiche che finalmente hanno congiunto il cuore alla bellezza estetica; e Grand Budapest Hotel come Big Fish – Le Storie Di Una Vita Incredibile, la summa di un’idea di Cinema così meravigliosamente “fantastica”. E, ovviamente, un Capolavoro.

“LOCANDIMETRO”

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