Premi Oscar 2018

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Eccoci giunti al momento di maggior rilevanza mediatica nell’annata cinematografica: i Premi Oscar, statuette dal più che dubbio valore meritocratico ma dall’altrettanto indubbio potere suggestivo e fascino intramontabile: chiunque abbia a che fare con il mondo del Cinema (o anche chi sogna di averci a che fare) non può rimanere impassibile di fronte all’ormai storica premiazione, giunta alla sua 90esima edizione. Ecco dunque il mio personalissimo commento (relativo alle 8 categorie principali) sulla cerimonia svoltasi ad Hollywood durante la notte tra Domenica e Lunedì – come sempre, cliccando sul nome del film verrete re-indirizzati alla mia personalissima recensione, ove disponibile.

LEGENDA

GRASSETTO: Vincitore.

SOTTOLINEATO: Vincitore nella mia modestissima opinione.

ROSSO: Nome che avrei selezionato per la cinquina.

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Scott Frank, James Mangold e Michael Green (Logan – The Wolverine)

James Ivory (Chiamami Col Tuo Nome)

Scott Neustadter e Michael H. Weber (The Disaster Artist)

Dee Rees e Virgil Williams (Mudbound)

Aaron Sorkin (Molly’s Game)

È una sensazione dolce-amara quella che provo di fronte all’Oscar conquistato da James Ivory. Il “ragazzo” è uno dei miei favoritissimi di sempre, specie dopo la visione di Camera Con Vista e del filmone Quel Che Resta Del Giorno (per chi scrive, il più bel film sentimentale di sempre), eppure la sua Arte si manifesta soprattutto in campo registico, e non in quello compositivo: aggiungete il fatto che lo script di Chiamami Col Tuo Nome è decisamente troppo lento e indulgente nella prima parte, per poi finalmente accendersi solo sul finale (dove, però, presenta comunque un paio di “scivolini”), capirete che non mi trovo particolarmente d’accordo con questa statuetta. Non posso indicare un favorito, in quanto non ho visto ben tre dei candidati, ma sulla fiducia mi viene da azzardare l’ennesimo capolavoro scrittorio di Aaron Sorkin (l’uomo che ha vinto solo un Oscar per The Social Network, quando se lo sarebbe meritato almeno in altre due occasioni).

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

Guillermo del Toro e Vanessa Taylor (La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water)

Greta Gerwig (Lady Bird)

Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani (The Big Sick – Il Matrimonio Si Può Evitare… L’Amore No)

Martin McDonagh (Tre Manifesti A Ebbing, Missouri)

Jordan Peele (Scappa – Get Out)

A differenza di molti, non sono un detrattore del lavoro di Jordan Peele: Scappa – Get Out è, a mio avviso, uno degli horror/thriller più interessanti degli ultimi anni, con un’originale prospettiva (soprattutto poco moralistica) sul confronto razziale. È altrettanto indubbio, però, che il soggetto sia più forte dell’effettiva sceneggiatura, la quale presenta un paio di passaggi a vuoto ed un finale esageratamente affrettato. Tre Manifesti A Ebbing, Missouri è un ottimo saggio di scrittura (sia a livello di personaggi che come caratterizzazione socio-ambientale), e avrei decisamente preferito assegnare la statuetta a Martin McDonagh.

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Mary J. Blige (Mudbound)

Allison Janney (Tonya)

Lesley Manville (Il Filo Nascosto)

Laurie Metcalf (Lady Bird)

Octavia Spencer (La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water)

Una volta di più mi trovo costretto a sospendere il giudizio: non ho visionato la prova della vincitrice (il film, del resto, non è ancora uscito in Italia), né quella di altre tre candidate. Sono contento che la Janney (meravigliosa in Juno, nei panni della matrigna della protagonista) si sia portata a casa un riconoscimento, e in generale sono molto curioso di vedere questo Tonya – un sesto senso mi dice che potrebbe trattarsi della mia grande sorpresa Stagionale. Se mi è concesso un appunto, tuttavia, mi dispiace che non siano state nominate né Oona Laurence per L’Inganno, né Ana De Armas per Blade Runner 2049.

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Willem Dafoe (Un Sogno Chiamato Florida)

Woody Harrelson (Tre Manifesti A Ebbing, Missouri)

Richard Jenkins (La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water)

Christopher Plummer (Tutti I Soldi Del Mondo)

Sam Rockwell (Tre Manifesti A Ebbing, Missouri)

Qui proprio non ci siamo. Rockwell è un onesto attore, e la sua performance è tutto fuorché scarsa, ma non capisco proprio questo premio: di fronte a due personaggi molto meno appariscenti, cullati sotto le righe dalle performance di Richard Jenkins e Woody Harrelson, premiare un’interpretazione veramente molto similare a quella di Christian Bale in The Fighter (e già quella statuetta non fu necessariamente meritata) mi lascia perplesso. So che a Hollywood le interpretazioni sopra le righe vanno per la maggiore, ma per me non c’erano proprio paragoni.

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Sally Hawkins (La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water)

Frances McDormand (Tre Manifesti A Ebbing, Missouri)

Margot Robbie (Tonya)

Saoirse Ronan (Lady Bird)

Meryl Streep (The Post)

Altra vittoria di cui sono ben poco contento. Rifletteteci un attimo: vi pare possibile che Frances McDormand (una che in quanto a versatilità non è esattamente superlativa) abbia due Oscar a casa? Ma al netto di simili considerazioni, che lasciano il tempo che trovano, siamo nuovamente di fronte ad un caso di performance molto “derivativa”: e qui non si tratta di recuperare da un altro attore, bensì di interpretare un personaggio molto similare a quello che già ci ha fatti trionfare nel lontano 1997 (Fargo), e di interpretarlo in maniera molto similare (con sardonica asprezza). Aggiungete che Sally Hawkins ne La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è magistrale, e che (sono convinto) le performance di Saoirse Ronan e Margot Robbie mi daranno molto di cui plaudire, che avrei indubbiamente nominato la schizofrenica Noomi Rapace di Seven Sisters o la possente Trine Dyrholm di Nico, 1988 (anche se mi rendo conto che è molto difficile vedere nominato un attore per un film non prodotto in USA, Australia o UK), e capirete come mai questo è forse il premio che mi ha lasciato più insoddisfatto dell’intera serata.

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

Timothée Chalamet (Chiamami Col Tuo Nome)

Daniel Day-Lewis (Il Filo Nascosto)

Daniel Kaluuya (Scappa – Get Out)

Gary Oldman (L’Ora Più Buia)

Denzel Washington (Roman J. Israel, Esq.)

Non ho visto Daniel Day-Lewis, premetto: e Day-Lewis (per quanto non sia da me troppo amato, “soggettivamente”) può sempre sparigliare le carte in tavola. Detto questo, voglio rischiare: oso dire che Gary Oldman abbia vinto con merito questa statuetta. Più che altro perché il nostro, ne L’Ora Più Buia, si è prodotto in una squisita performance british del buon Winston Churchill, perfettamente in equilibrio tra sopra e sotto le righe: considerando, poi, una strepitosa carriera che ha fruttato solamente due (due!) nomination da parte dell’Academy, mi sembra che i presupposti ci siano tutti.

MIGLIOR REGIA

Paul Thomas Anderson (Il Filo Nascosto)

Guillermo Del Toro (La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water)

Greta Gerwig (Lady Bird)

Christopher Nolan (Dunkirk)

Jordan Peele (Scappa – Get Out)

Sono molto contento per la vittoria (duplice) di Del Toro: come già detto nella mia recensione di La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water, il suo passato cinematografico basta da solo ad inserirlo nella mia personale cerchia dei favoritissimi. Oltre a questo, il suo trionfo va a scapito di Paul Thomas Anderson (che ho sempre trovato estremamente sopravvalutato) e di Christopher Nolan (che, come saprete tutti, ritengo Dio, ma che con Dunkirk confeziona, purtroppo, un film assolutamente minore nella sua personale storia cinematografica). Sono, semmai, deluso per un altro motivo: dalla cinquina sono infatti rimasti esclusi sia la tensiva morbidezza di Sofia Coppola nel dirigere L’Inganno, sia (soprattutto!) colui che avrebbe dovuto davvero vincere il premio, ovvero Denis Villeneuve per il suo clamoroso Blade Runner 2049.

MIGLIOR FILM

Chiamami Col Tuo Nome

Dunkirk

Il Filo Nascosto

La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water

Lady Bird

L’Ora Più Buia

The Post

Scappa – Get Out

Tre Manifesti A Ebbing, Missouri

Il film di Del Toro si porta a casa (come già anticipato) anche il premio per la miglior pellicola. Di nuovo, mi trovo molto triste nel vedere che il poderoso Blade Runner 2049 non sia nemmeno stato nominato (a pensare che Villeneuve si prese doppia nomina per quella mezza ciofeca di Arrival, un anno fa…), ma sono comunque soddisfatto per Guillermone: la sua ultima opera è stata accusata, con un’esagerazione a dir poco disumana, di plagio – il tutto perché, in un corto di tre anni fa, si parla di una donna che fa le pulizie e salva un uomo-pesce da un laboratorio (poco importa che nel suddetto corto il mondo sia post-apocalittico e non surreale, che la protagonista non sia muta, che l’acqua non abbia alcuna importanza, che non ci siano i personaggi di Jenkins, Spencer e Shannon…). Sarei stato contento anche di un’eventuale vittoria di Tre Manifesti A Ebbing – Missouri, ma La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è fiaba di rara preziosità, il che è raro in un genere talmente abusato da produrre spesso blandi risultati privi di forza. E per questo brindo a Guillermo, ai mostri marini, alla bellezza dell’Amore e all’Academy per la saggia decisione.

Questo è tutto: alla prossima edizione!

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La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water (2017)


Siamo negli Stati Uniti, in piena guerra fredda. Elisa, una donna di mezza età affetta da mutismo, vive in un angusto appartamento che ha arredato come una piccolo regno magico: ha un amico nel vicino di casa, un pittore gay con il quale condivide la passione per il Cinema muto. Elisa, inoltre, lavora come addetta alle pulizie all’interno di un centro di ricerca governativo: un giorno, nel laboratorio, fa la sua comparsa un essere incredibile, metà uomo e metà pesce, che attira subito l’attenzione della donna…

Guillermo Del Toro (soprannominato affettuosamente “CiccioMessico” dal sottoscritto) è sempre stato un favorito, qui in casa Cinemalato: nonostante lo sciatto Crimson Peak di qualche Stagione fa, mi è impossibile non volere bene (artisticamente parlando) all’ideatore de Il Labirinto Del Fauno, nonché colui che stava dietro alla maggior parte del primo Lo Hobbit (e che, se fosse stato libero di procedere, avrebbe reso la saga un altro cult del genere).

Quando, dunque, ho saputo che il suo ultimo lavoro aveva vinto il Leone D’Oro a Venezia, ho subito pensato che CiccioMessico avesse nuovamente tirato fuori il coniglio dal polveroso cilindro: quando, invece, il ragazzo si è portato a casa il Golden Globe per la Miglior Regia e ha ricevuto tredici nomination agli Oscar, ho iniziato a temere di trovarmi di fronte ad un prodotto corretto, ma “americano”.

Fortunatamente non è questo il caso, perlomeno non con la temuta gravità. La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è una favola dall’impianto narrativo classico, dai tocchi registici talvolta lievemente derivativi da certo Cinema fantastico-surreale (Il Favoloso Mondo Di Amélie su tutti), ma con una sua forte identità DelToriana che mette in secondo piano gli echi stilistico-strutturali.

La realtà insudiciata e l’evasione monda si intrecciano costantemente, come in un valzer: alla polvere e alla vetustà dell’appartamento di Elisa, si contrappongono le surreali forme curvilinee del suo arredamento; alla leggerezza romantica della donna nel suo sognare un musicale tip-tap si contrappongono le sue deprimenti e meccaniche masturbazioni; alla delicatezza della storia d’amore, si contrappongono la violenza dell’omofobia e del razzismo, nonché il rosso carminio del sangue (che inonda lo schermo più volte). L’antinomia più forte, però, è quella tra parola e gesto: all’interno del film, le parole sono costantemente menzognere, deboli o violente, e creano ostacoli che complicano la vicenda; i gesti, al contrario, sono sinceri e risolutivi, capaci di generare amore o di salvare vite.

Il silenzioso sentimento che si instaura tra i due muti protagonisti della pellicola è costantemente segnato dalla presenza dell’acqua, fin da quella nella quale bollono le uova sode, primo motore dell’intera vicenda. Ed è un progressivo detergersi dell’acqua e nell’acqua: dallo squallore iniziale di una vasca sporca (di sangue e di solitudine), si passa all’inondazione di un’intera stanza che diventa pioggia d’amore per le persone circostanti, fino alla metamorfosi acquatica del lieto fine (dove le ferite dell’esclusione terrestre diventano branchia e lasciapassare per una nuova inclusione nell’acqua).

Al netto di alcuni momenti meno felici (la scena pre-finale del ballo in bianco e nero, un po’ leziosa e telefonata – anche se, rispetto ad un La La Land, molto meno tirata per le lunghe e dunque più facilmente digeribile; il finale, in generale un po’ affrettato nella sua rocambolesca risoluzione), la coerenza stilistico-tematica di La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water, nonché il suo cast eccellente (oltre ai soliti ottimi Shannon e Doug, si segnalano il delicato pittore di Richard Jenkins e la strepitosa Elisa di Sally Hawkins – di una delicatezza e risolutezza commoventi), ne fanno un titolo imperdibile per la Stagione in corso, un gioiellino di fiaba che riesce a far sognare ed emozionare senza zuccheri aggiunti né forzature: e riuscire, oggi, a concepire una favola (uno dei più antichi generi narrativi) che non sia piatta o scontata, non è impresa affatto facile.

“LOCANDIMETRO”

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Quando mi guarda, lui non vede quello che mi manca o quanto io sia incompleta.

Star Wars: Gli Ultimi Jedi (2017)

Dopo aver finalmente individuato Luke Skywalker, Rey si prepara ad iniziare il suo apprendistato come Jedi: tuttavia, il leggendario eroe della resistenza non sembra predisposto a farle da mentore. L’Impero, nel frattempo, sta inseguendo le ultime, sparute navicelle della resistenza, che tentano una fuga disperata. La confusione nella testa di Kylo Ren sembra raggiungere un nuovo livello quando entra in contatto mentale con la sua acerrima nemica…

Dopo un buon esordio della serie sequel (Star Wars: Il Risveglio Della Forza), e dopo un totalmente trascurabile intermezzo dalla scrittura affrettata (Rogue One), la saga di Star Wars approda infine al suo ottavo capitolo, intitolato Gli Ultimi Jedi. E, purtroppo, il lato oscuro se n’è impossessato alla grande: anzi, non a sufficienza. Ma andiamo con ordine.

Il film si apre all’insegna di uno strano equilibrio: se le scene iniziali sono sin troppo facilone ed infantili (il classico schema “i cattivi sparano di tutto ai buoni, ma muoiono solo un paio di comparse sacrificabili e il piano dei buoni va a buon fine”), la successiva operazione di bombardamento si muove su una credibilità maggiore e un’ottima tensione registica (nonostante non cambi l’esito, perlomeno non più di tanto). Questo incremento di maturità e “realismo” sembra proiettarsi sulle vicende isolane di Rey, Luke e Kylo. Lo scontro tra diverse generazioni, differenti punti di vista sulla vita e sulla Forza (entrambi ampiamente motivati e supportati) e diversi stati d’animo, genera un intrigante intreccio di relazioni: i due giovani si convincono di essere molto più simili di quanto sembri, e di poter portare l’uno dalla parte dell’altro; Rey, nel frattempo, sente crescere un’angosciante solitudine dentro sé, mentre il nero ululato del lato oscuro la richiama; Luke, poi, è costretto a fare i conti con un passato tutt’altro che limpido.

Il grande problema de Gli Ultimi Jedi  nasce proprio da questo interessante crogiolo sviluppatosi nella parte centrale: ad una premessa tanto succosa, infatti, non corrisponde una conseguenza minimamente degna. Rey, infatti, giunta a cospetto della sua controparte Ren, riesce (senza una motivazione valida, visti i dubbi e il senso di abbandono che ha in precedenza sperimentato) a resistere alla chiamata del lato oscuro, e – come la più banale e spenta eroina votata al bene da manuale degli stereotipi – a scappare dalle grinfie del figlio di Han Solo. Per quanto riguarda Kylo Ren, poi, dopo averne mostrato una maturazione convincente nell’oscurità (la rabbia e il risentimento per l’umiliazione subita da Rey nel settimo episodio, combinata con le continue umiliazioni patite da Snoke, lo portano ad acquisire un potere tale da schermare le sue intenzioni minacciose al sith stesso, e ad elaborare un complesso piano di sostituzione del vecchio ordine oscuro con uno nuovo), il film si permette di farlo nuovamente regredire allo status di cattivo dubbioso e irruento: se ne Il Risveglio Della Forza questa caratterizzazione era molto interessante, reiterarla (soprattutto dopo averlo fatto apparentemente maturare) serve solamente ad ottenere un antagonista mai davvero pericoloso o credibile, un isterico piagnucolone che si fa gabbare come un tonto da chiunque.

L’apoteosi di Trash, tuttavia, la si raggiunge con altri due personaggi. Luke Skywalker, dopo un’ottima parentesi isolana, decide di proiettare un suo ologramma mentale per affrontare Kylo Ren: volendo anche tralasciare la ridicolaggine di questo scontro (il cui apice è la scena in cui Ren spara con tutte le armi dei suoi mezzi armati sul jedi, il quale esce indenne dal fuoco incrociato e si spolvera la spalla – momento al cui confronto i film con The Rock sono intelligenti), non si capisce perché Skywalker debba fare tutta questa menata  della proiezione mentale per poi sparire comunque nella Forza (certo, “il suo compito era compiuto: era in pace”: se il risultato dev’essere comunque la morte, fatelo morire per mano di Ren come a suo tempo Obi-Wan si era fatto uccidere da Anakin, ottenendo così anche un certo sottotesto di espiazione e rinnovamento). La new entry cinese, poi, è insopportabile: petulante, buonista, pseudo-vegana, interpretata malissimo, e neppure capace di sacrificarsi come si deve (infatti non muore, ma rimane ahimè in vita per deliziarci nuovamente con il suo background da bambina povera nel prossimo episodio).

Se aggiungiamo a tutto questo che il personaggio del pilota di caccia non è ancora stato sviluppato in maniera minimamente interessante (abbiamo solo imparato che è un impulsivo del cazzo, uno di quelli che “le cose te le dice in faccia”), che l’ex storm-trooper non fa ridere né riesce a creare un minimo di empatia con lo spettatore (a meno che uno non abbia meno di 7 anni, o trovi un personaggio così insopportabilmente buono e fortunato minimamente interessante), che il machiavellico codificatore viene abbandonato a se stesso senza un’uscita di scena decente (povero Del Toro, che fine), che Leia vola nello spazio come Superman, e che l’unico personaggio davvero valido dell’intero film (il vice-ammiraglio Holdo, legato ad un interessante valore strategico del sacrificio, un misto irrisolto tra cuore e razionalità – interpretato, peraltro, benissimo dalla valida Laura Dern) passa quasi del tutto in secondo piano in mezzo a questa miriade di inutili peripezie, cosa rimane di Gli Ultimi Jedi? Una regia indubbiamente capace di creare due-tre momenti di alta tensione e gran dinamismo, ed una sezione centrale dalle ottime atmosfere e dall’elevato potenziale. Ma non è sufficiente per salvarsi dalle grinfie del lato oscuro.

P.s. È surreale che una vicenda (e una saga, più in generale) tanto incentrata sul tema “partire dal vecchio per andare verso il nuovo” (come il saggio Yoda suggerisce all’allievo Skywalker) non sia veramente in grado di superare il trito manicheismo dei personaggi e i plot-armor dei protagonisti, o – più semplicemente – di ispirarsi a quell’icona chiamata Darth Vader per regalarci un cattivo tormentato di tutto rispetto.

“LOCANDIMETRO”

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Noi siamo il terreno su cui essi crescono. Questo è il vero fardello di tutti i maestri.

Classifica Stagionale 2015/2016: Il Fondo Del Barile

E così anche quest’anno è arrivata la personalissima (ed opinabilissima) Classifica Stagionale del Cinemalato. I film presi in considerazione non si riferiscono all’anno di produzione, quanto a quello di distribuzione nelle sale italiane: nella competizione sono dunque ammesse tutte le pellicole uscite nel periodo compreso fra l’1 Agosto 2015 ed il 31 Luglio 2016 che il sottoscritto è riuscito a visionare.

È stata una Stagione complessivamente interessante: il numero di pellicole visionate ammonta a 40 (si torna a livelli decisamente più accettabili, dopo l’infimo numero di 28 della scorsa Stagione). Devo però dire che la mia personale opinione si è mediamente scostata molto da quella generale: troverete quasi sicuramente dei titoli spesso lodati ad occupare posizioni davvero basse, mentre potreste trovare film considerati “normali” nelle zone più alte della Top20.

Come ogni Stagione, 5 saranno i post di cui si comporrà la classifica: ecco un veloce riassunto, per quelli di voi che non hanno buona memoria.

Si parte con “Il Fondo Del Barile”, ovvero tutti i film che non hanno raggiunto la sufficienza nella valutazione (da Insufficiente” in giù); si prosegue con “La Panca”, ovvero quelle pellicole che hanno raggiunto almeno la sufficienza, ma non hanno avuto sufficiente peso specifico da meritarsi l’ingresso in TOP20; si passa poi alla TOP20 vera e propria, suddivisa in “Parte Bassa (20-11)“, “Parte Alta (10-4)“,  ed infine “Il Podio (3-1)“.

Il primo appuntamento è quello con il marcio, con le occasioni mancate, con le pellicole che non sono riuscite ad agguantare nemmeno la sufficienza, insomma con “Il Fondo Del Barile”. Questi film non sono stati ordinati per valutazione – classificare il peggio non ha molto senso – ma semplicemente per ordine alfabetico. Cliccando sul titolo potrete leggerne la relativa recensione, quando disponibile.

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Le Confessioni, di Roberto Andò (2016)

Roberto Andò dirige una pellicola che avrebbe velleità di risultare profondamente morale e ammonitrice, ma si rivela un pastrocchio di momenti da coma profondo, lampi casuali di figaggine radical-chic e personaggi scritti malissimo o assenti. Di quello che dal trailer sembrava un interessante giallo dalle tinte cupe si salvano solo le performance di Servillo e Auteuil.

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Crimson Peak, di Guillermo Del Toro (2015)

Una pellicola horror fatta di trucco, scenografie ed effetti speciali troppo colorati/manieristici: si aggiunga a tutto questo una storia che per metà è troppo lunga (introducendo e approfondendo personaggi dei quali poi non ci viene più detto niente) e che per metà è troppo poco approfondita (la relazione passata dei due fratelli manca di quell’intensità che sarebbe stata necessaria). Ennesimo passo falso di Del Toro dopo la produzione di quell’orrore di La Madre.
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Dark Places – Nei Luoghi Oscuri, di Gilles Paquet-Brenner (2015)

Nonostante parta da una base autoriale della stessa penna di Gone Girl – L’Amore BugiardoDark Places – Nei Luoghi Oscuri non si avvicina minimamente al risultato del suo predecessore (posizione #5): purtroppo la pellicola diretta da Paquet-Brenner lascia la sensazione di non avere una vicenda forte né una morale davvero interessante da lasciare allo spettatore, e il tutto finisce sperso in un mare di rammarico.

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Dio Esiste E Vive A Bruxelles, di Jaco Van Dormael (2015)

Il film “occasione mancata” della Stagione: un’idea davvero interessante ed un incipit accattivante vengono quasi completamente buttati alle ortiche da uno script superficiale (che rifiuta di prendere posizione moral-teologiche importanti) e una serie di idee davvero stupidine/radical-chic (che debilitano le capacità di intrattenimento della pellicola). La storia d’amore tra Catherine Deneuve e il gorilla e il finale con effetti alla Power Point 97 sono tra i momenti più desolanti di questo 2015/2016.

 

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Revenant – Redivivo, di Alejandro Gonzalez Inarritu (2015)

La cagata travestita da filmone, Revenant – Redivivo  è puro ricatto morale (DiCaprio ha mangiato bisonte pur essendo vegetariano) volto a coprire ore di lunghe inquadrature di montagne e foreste innevate. La vicenda è sconnessa a livello stilistico (“ruba” a piene mani da Malick, per poi incrociarlo con momenti alla Tarantino e un finale alla Io Vi Troverò completamente ad minchiam), le motivazioni dei personaggi sono fiacche (nessuno può credere che a DiCaprio freghi qualcosa di quel figliolo, e Hardy è semplicemente una macchietta), la morale è ridicolmente spicciola (ci mancava il messaggio ecologista/moralista a favore dei pellerossa). Gli Oscar ad Inarritu e DiCaprio gridano vendetta.

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Sopravvissuto – The Martian, di Ridley Scott (2015)

Ridely Scott si rivela ancora più cotto di quanto non pensassi già da tempo, e confeziona una roba che non so in quale modo mi abbia addirittura strappato un “5” tanto è ridicola: una storia americana nel peggior senso del termine, fatta di effettoni speciali e superomismo dei più retorici, condita da personaggi secondari completamente inutili o ridicoli nel loro atteggiamento (il capo della NASA che lancia sonde senza fare controlli pre-lancio, LOL!). E la colonna sonora anni ’80? Semplicemente patetico.
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Southpaw – L’Ultima Sfida, di Antoine Fuqua (2015)

Una perfetta lezione di “storia all’americana sul pugilato”, Southpaw è una vicenda di risalita dal fango prevedibile fino al midollo. A ciò si aggiunga un turning point ridicolo (la morte della moglie di Gyllenhaal è inaccettabile), la presenza di personaggi secondari ai quali si vuole dare rilevanza emotiva sulla base di una scena di 15 secondi, un Forest Whitaker servito da un personaggio bolso e stupido, e la frittata è fatta.

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The Visit, di M.Night Shyamalan (2015)

Shyamalan prosegue in quella parabola discendente che è la sua carriera.  The Visit parte bene, ma lungo la via decide di adottare le stesse stupide tattiche di troppi film del genere “found footage” (personaggi che reggono la telecamera in momenti e angolazioni impensabili, solamente perché così potremo vedere il mostro spuntare dall’angolino e farcela sotto): il problema principale, tuttavia, non sono i cliché, ma l’orrendo ed inaccettabile colpo di scena finale, che fa praticamente cadere ogni possibile sospensione dell’incredulità e con essa le braccia e le palle dello spettatore.

 

Crimson Peak (2015)

Edith Cushing, giovane ragazza americana aspirante scrittrice, si innamora di Thomas Sharpe, un giovane baronetto inglese (la cui nobiltà è ormai in decadenza) giunto negli Stati Uniti per cercare finanziamenti per il progetto di una macchina scavatrice di argilla. Quando Thomas, fallito il suo tentativo, decide di tornare in Inghilterra, Edith diventa sua moglie e lo segue in Europa: ma Thomas non ha raccontato tutta la verità alla ragazza.

Guillermo Del Toro si era già trovato in primo piano sulle pagine del Cinemalato qualche Stagione fa, in veste di produttore: La Madre, film horror che tentava incursioni nel fantasy e nel drammatico fallendo miseramente, e venendo stroncato pesantemente dal sottoscritto (con il voto di 4 su 10). Tuttavia Guillermo è pur sempre il regista del gioiellino fantasy/horror Il Labirinto Del Fauno, e temo che si meriterà sempre una chance a causa di quel film: e davvero, vorrei che non fosse così.

Purtroppo questo Crimson Peak non è niente di clamorosamente superiore al succitato obbrobrio. Anche qui ci troviamo di fronte ad una pellicola che prova disperatamente a mixare generi, per creare qualcosa di interessante: ad una prima parte sentimentale “leggera” con punte di giallo, succede una seconda parte decisamente più horror e sentimentalmente tragica. Peccato che nessuna delle componenti sia strutturata a dovere.

L’innamoramento dei due giovani della prima parte si scontra con un ostacolo talmente ridicolo (un divieto del padre, aggirato nell’arco di due scene e sessanta secondi di film) da non appassionare, e il mistero aleggiante intorno a Thomas è talmente evidente che persino il sottoscritto aveva capito tutto all’intervallo. Nella seconda parte, gli elementi horror sono un continuo clichè, che non solo rimanda al succitato La Madre ma anche all’altrettanto pessimo Dark Shadow di Tim Burton, e la tragedia amorosa del triangolo di protagonisti è un malriuscito tentativo di approdare ad un melodrammatico potente come quello dei film di un Almodòvar.

Tutto questo insuccesso nell’ottenere un film forte e d’impatto è dovuto, secondo me, ad un semplice errore degli sceneggiatori (lo stesso Del Toro, insieme a Matthew Robbins): il “turning point” della storia, il momento in cui l’equilibrio iniziale si infrange, arriva troppo tardi nel plot. Finora ho parlato di due parti in cui la pellicola è suddivisa: ebbene, la prima è praticamente un’introduzione alla vicenda ed ai personaggi, niente di più, ma talmente “stiracchiata” da diventare lunga quarantacinque minuti circa su meno di due ore. Questo porta a dare eccessiva attenzione a personaggi che poi saranno “sacrificati” nel corso della storia (il padre e il dottore della città di Edith), e a sottrarre tempo prezioso che sarebbe stato utile per approfondire le figure di Thomas, della sorella e soprattutto della loro storia passata.

Non so se tutto questo sarebbe servito, ad essere onesti. Penso che un maggior peso ed una maggiore attenzione ai personaggi più importanti avrebbe giovato, ma alla fine Crimson Peak è strutturato secondo un intreccio così banale (con echi di Psyco e di Hitchcock in generale da ogni parte) ed animato da scenografie, trucco e parrucco ed effetti speciali così visti e stravisti, da possedere pochissimo mordente già in partenza. È un film, mi viene da dire, che dovrebbe essere cassato già alla fase del soggetto, e che certamente non mi aspetto firmato da un regista che in passato abbia dimostrato di essere estremamente originale ed efficace nel dirigere il Cinema di genere.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Quando sarà il momento… guardati da Crimson Peak!