La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water (2017)


Siamo negli Stati Uniti, in piena guerra fredda. Elisa, una donna di mezza età affetta da mutismo, vive in un angusto appartamento che ha arredato come una piccolo regno magico: ha un amico nel vicino di casa, un pittore gay con il quale condivide la passione per il Cinema muto. Elisa, inoltre, lavora come addetta alle pulizie all’interno di un centro di ricerca governativo: un giorno, nel laboratorio, fa la sua comparsa un essere incredibile, metà uomo e metà pesce, che attira subito l’attenzione della donna…

Guillermo Del Toro (soprannominato affettuosamente “CiccioMessico” dal sottoscritto) è sempre stato un favorito, qui in casa Cinemalato: nonostante lo sciatto Crimson Peak di qualche Stagione fa, mi è impossibile non volere bene (artisticamente parlando) all’ideatore de Il Labirinto Del Fauno, nonché colui che stava dietro alla maggior parte del primo Lo Hobbit (e che, se fosse stato libero di procedere, avrebbe reso la saga un altro cult del genere).

Quando, dunque, ho saputo che il suo ultimo lavoro aveva vinto il Leone D’Oro a Venezia, ho subito pensato che CiccioMessico avesse nuovamente tirato fuori il coniglio dal polveroso cilindro: quando, invece, il ragazzo si è portato a casa il Golden Globe per la Miglior Regia e ha ricevuto tredici nomination agli Oscar, ho iniziato a temere di trovarmi di fronte ad un prodotto corretto, ma “americano”.

Fortunatamente non è questo il caso, perlomeno non con la temuta gravità. La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è una favola dall’impianto narrativo classico, dai tocchi registici talvolta lievemente derivativi da certo Cinema fantastico-surreale (Il Favoloso Mondo Di Amélie su tutti), ma con una sua forte identità DelToriana che mette in secondo piano gli echi stilistico-strutturali.

La realtà insudiciata e l’evasione monda si intrecciano costantemente, come in un valzer: alla polvere e alla vetustà dell’appartamento di Elisa, si contrappongono le surreali forme curvilinee del suo arredamento; alla leggerezza romantica della donna nel suo sognare un musicale tip-tap si contrappongono le sue deprimenti e meccaniche masturbazioni; alla delicatezza della storia d’amore, si contrappongono la violenza dell’omofobia e del razzismo, nonché il rosso carminio del sangue (che inonda lo schermo più volte). L’antinomia più forte, però, è quella tra parola e gesto: all’interno del film, le parole sono costantemente menzognere, deboli o violente, e creano ostacoli che complicano la vicenda; i gesti, al contrario, sono sinceri e risolutivi, capaci di generare amore o di salvare vite.

Il silenzioso sentimento che si instaura tra i due muti protagonisti della pellicola è costantemente segnato dalla presenza dell’acqua, fin da quella nella quale bollono le uova sode, primo motore dell’intera vicenda. Ed è un progressivo detergersi dell’acqua e nell’acqua: dallo squallore iniziale di una vasca sporca (di sangue e di solitudine), si passa all’inondazione di un’intera stanza che diventa pioggia d’amore per le persone circostanti, fino alla metamorfosi acquatica del lieto fine (dove le ferite dell’esclusione terrestre diventano branchia e lasciapassare per una nuova inclusione nell’acqua).

Al netto di alcuni momenti meno felici (la scena pre-finale del ballo in bianco e nero, un po’ leziosa e telefonata – anche se, rispetto ad un La La Land, molto meno tirata per le lunghe e dunque più facilmente digeribile; il finale, in generale un po’ affrettato nella sua rocambolesca risoluzione), la coerenza stilistico-tematica di La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water, nonché il suo cast eccellente (oltre ai soliti ottimi Shannon e Doug, si segnalano il delicato pittore di Richard Jenkins e la strepitosa Elisa di Sally Hawkins – di una delicatezza e risolutezza commoventi), ne fanno un titolo imperdibile per la Stagione in corso, un gioiellino di fiaba che riesce a far sognare ed emozionare senza zuccheri aggiunti né forzature: e riuscire, oggi, a concepire una favola (uno dei più antichi generi narrativi) che non sia piatta o scontata, non è impresa affatto facile.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Quando mi guarda, lui non vede quello che mi manca o quanto io sia incompleta.

Godzilla (2014)

Nel 1999 viene scoperta la presenza di un fossile di M.U.T.O. (Massive Unidentified Terrestrial Object) con due crisalidi ancora vive, appartenenti ad una specie preistorica. Una delle due crisalidi, tuttavia, si è già schiusa, e la creatura si muove, andando ad attaccare una centrale nucleare in Giappone, facendola crollare ed uccidendo un alto numero di persone al suo interno – tra cui la moglie di un supervisore americano. Sarà proprio il supervisore, insieme al figlio ormai grande e con famiglia alle spalle, a scoprire – 15 anni dopo – la presenza di una delle due crisalidi, che è stata studiata per tutto questo tempo dalla M.O.N.A.R.C.H., nata dopo la scoperta del leggendario Godzilla nel 1954: e la creatura che emergerà dalla crisalide chiamerà all’azione proprio il temuto lucertolone.

Confesso che la mia conoscenza dell’ormai celeberrimo re Lucertola del Cinema (e non solo) è pressoché inesistente: lungi dall’esserne un grande fan (mai mi sono troppo interessato a questi mega-giocattoloni, anche quando ero più piccolo), non sono neanche un “piccolo” fan. Non fosse stato per il pompatissimo, ma pessimo, film omonimo del 1998 (diretto da Emmerich, e forse il peggiore di un regista che – solitamente – sa intrattenere decisamente bene), mi sarebbe mancata all’appello la minima conoscenza cinematografica di Godzilla. Dunque il mio approccio, certamente blasfemo, è stato lo stesso che avrei avuto con un qualsiasi altro film di  puro intrattenimento.

Eppure il Godzilla di Gareth Edwards, su sceneggiatura di Max Borenstein, mi ha colpito molto più del normale. Invece, infatti, di puntare tutto su mega effetti speciali e abuso strabordante dei bestioni preistorici, l’attesa è molto più lunga e palpabile dell’effettiva presenza: detto più banalmente, si gioca molto sul terrore e l’impotenza degli uomini di fronte ad una situazione palesemente più grande di loro (in tutti i sensi), e sono questi sentimenti a dominare gran parte della vicenda. Si gioca, dunque, anche sul “non mostrare”, sul far “percepire” la presenza ingombrante dei mostri, senza esagerare con ruggiti e attacchi dirompenti.

Altro pregio è quello inerente alla morale – sicuramente trita e ritrita – che risiede nella MOVIEQUOTE: l’uomo non è in controllo della natura. Questo “insegnamento” è in effetti una chiave per leggere una scelta del film, che lo rende molto poco “americano”: gli umani, effettivamente, non fanno quasi niente di davvero utile per debellare la minaccia delle crisalidi (Mothra, suppongo?), e gran parte della loro disfatta è dovuta alla natura stessa, e al loro predatore naturale, Godzilla. Stavolta non ci sono bombe atomiche che tengano, né piani improvvisati, bambini prodigio che trovano una soluzione “domestica” al problema, o altre puttanate a sorpresa all’americana. Senza Godzilla le crisalidi distruggerebbero tutto, e solo la natura stessa può porre fine alla piaga.

Ma questo punto è anche una debolezza del film: i personaggi, infatti, sono tutti di una futilità sconcertante – eccezion fatta per il supervisore Brody di Brian Cranston. Sì, d’accordo, il loro spessore assente è dovuto a quella “morale” di cui dicevo sopra, ma insomma… Non è che per far vedere l’impotenza dell’uomo si rende necessario trasformare i personaggi in figure prive di scopo. E neanche sono bene interpretate, queste figure! Il protagonista Taylor-Johnson ha mezza espressione in croce, le brave Juliette Binoche (Il Paziente Inglese, Chocolat) e Sally Hawins (Blue Jasmine) sono completamente sacrificate in ruoli da co-co-comprimarie,  David Strathairn (Good Night And Good Luck) deve essere stato pagato miliardi per accettare questa parte. E poi c’è Ken Watanabe, il giapponese noto ai più per L’Ultimo Samurai.

Mio Dio, Watanabe. La sua performance non è descrivibile con parole umane. Posso solo dirvi che riabilita Nicolas Cage nella qualifica di attore – e credo possa essere sufficiente! In combinazione con un personaggio che – pur responsabile della MOVIEQUOTE – non ha a sua volta spessore e rilevanza, e un doppiatore tragicamente erroneo (che cade nell’errore di rendere la voce di Watanabe una macchietta turistica giappo-cinese), Watanabe arriva a toccare il punto più basso dell intera pellicola quando pronuncia in giapponese il nome del bestio Godzilla. Capisco la correttezza folkloristica, ma quella roba è indefinibile per l’umana sapienza (purtroppo non sono riuscito a trovare una singola traccia audio/video della suddetta citazione-vergogna; chiedo venia per la mancanza).

In sostanza, ciò che fa Godzilla versione 2014 è intrattenere con un certo gusto, un certo ritmo (fuorchè i venti minuti finali, troppo frenetici e schizzoidi), e senza indugiare in puttanate all’americana. Ma si scorda di dare una motivazione a tutti gli umani che animano la sua vicenda, e tocca vette di comico involontario che non si possono perdonare. Peccato, perchè poteva entrare nella cerchia dei “gioellini”, ma si deve accontentare di un piazzamento più “mediocre”.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

L’arroganza dell’uomo è pensare che la natura sia sotto il nostro controllo e non il contrario.

The Amazing Spider-Man 2 – Il Potere Di Electro (2014)

Mentre Spider-Man è sempre più presente e acclamato nella città di Manhattan, il suo alter-ego Peter Parker si ritrova a dover fare i conti con il contrasto tra il suo amore per Gwen e la paura di metterla in pericolo di vita. Zia May, nel frattempo, gli rivela la verità sulla sparizione dei genitori, sconvolgendo il ragazzo. Il ritorno del suo vecchio amico Harry Osborn non migliora le cose: il ragazzo è infatti malato, ma spera che il veleno dei ragni radioattivi che hanno creato Spider-Man lo salvi. Peter sa tuttavia che l’operazione potrebbe essere pericolosa, e si rifiuta, attirandosi l’odio dell’amico. In tutto questo, un nuovo spaventoso nemico si fa largo: si chiama Electro, e ha il potere di controllare e manipolare l’elettricità. Ce la farà Spider-Man a sistemare tutto?

Il secondo episodio del re-boot della saga di Spider-Man è giunto a noi sempre per la regia di Marc Webb, con una nuova squadra di sceneggiatori (due dei quali – Roberto Orci e Alex Kurtzman – avevano lavorato con J.J Abrams per Into Darkness – Star Trek) e con lo stesso montatore (l’italiano Pietro Scalia). Questa composizione mi sembra significativa, perchè indica esattamente su cosa stia puntando la nuova serie delle avventure dell’uomo ragno: l’aspetto spettacolare-intrattenente. Stesso regista, stesso montatore. Il reparto script può anche modificarsi, tanto l’importante è rimanere il più possibile attenenti ad una precisa formula: sottomissione della storia e dei personaggi alla “visualità”, con conseguente adattarsi della sceneggiatura alla regia – molto ritmo, ma poco sugo.

Perchè indubbiamente The Amazing Spider-Man 2 è spettacolare sotto questo aspetto: si veda la MOVIEQUOTE, lo scontro tra Spidey e il Goblin o anche solo la pompatissima sequenza d’inizio film – e il prologo stesso, con i genitori di Peter sull’aeroplano. La colonna sonora e gli effetti speciali vanno di pari passo: ritmo incalzante dei fiati e di una linea di basso da dub-step (la collaborazione tra Hans Zimmer e Pharrell Williams ha funzionato alla grande, come tutto quello che il buon Pharrell ultimamente tocca) accompagnano effetti speciali “sintetici” –  esaltati da un ottimo 3D. E che le oltre 2 ore di film volino è innegabile.

Ma quel prologo di cui parlavo segnala anche l’abnorme limite del film, che sta nell’approfondimento pressochè inesistente dei personaggi. L’intro con la storia dei genitori di Peter è adrenalinico e commovente al contempo, e sembrava far presagire un film dal buon equilibrio tra le due componenti: ma rispetto a quanto fatto da Raimi e Nolan, Webb sposta subito l’attenzione sulla superficie. Così, per esempio, non si capisce praticamente per niente la motivazione per cui Electro prima e Goblin poi vadano ad odiare Spider-Man: davvero due dei principali nemici del ragnetto ce l’avrebbero con lui perché ad uno ha sottratto popolarità (ma dove poi?) e ad un altro ha negato il suo sangue (che era praticamente veleno puro, e infatti lo muta in un mostro?). Non è tanto la futilità della motivazione a turbarmi, quanto il fatto che tale motivazione sia una mia personale interpretazione: niente di certo o approfondito giunge infatti dalle mani di Orci, Kurtzman e Pinkner.

E un’ulteriore problematica la si può intuire dalla mia sinossi del film: in questo secondo capitolo del re-boot si mette troppa, troppa, troppa carne al fuoco. 4 diverse sottotrame! E tre di queste sono poco approfondite! Ma che meraviglia! In particolare quello che mi fa girare le palle è il trattamento riservato alla sottotrama dei genitori: ma come?! Prima fai tutto il prologo incentrato su loro due, poi fai scoprire a Peter il laboratorio segreto del padre, e poi chiudi tutto così?! Non si vede più nulla, non si dice più niente? Ma non potevi non parlarne proprio allora, e con i minuti avanzati spiegare un po’ meglio i due nemici di turno? Se non altro la trama d’amore – con finale tragico – tra i due giovani protagonisti è ben strutturata, e si apprezzano i continui mutamenti di idea e gli stati d’animo contrastanti di Gwen e Peter. Merito degli sceneggiatori o degli attori?

Il cast è valido – anche se Garfield,  sicuramente più bravo di Maguire, non è altrettanto perfetto come physique du role – ma anche qui ci sono degli errori, come l’improponibile Electro di Jamie Foxx (ma in quale mondo parallelo si potrebbe credere ad un Jamie sfigato ed escluso dalla società?). E comunque non si può sempre sperare nella prova attoriale per mascherare un minimo le insipidezze di storia: come detto più volte, ormai mi aspetto ben altro che giocattoloni perfettamente confezionati da un film sui supereroi. Prendetevela pure con Raimi e con Nolan, ma al contempo guardatene i film e imitateli: altrimenti sarete solo dei bravi artigiani, e non farete la Storia di questo genere.

“LOCANDIMETRO”

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Blue Jasmine (2013)

Jasmine si è appena divorziata dal marito, un ricco imprenditore finito in carcere per illeciti e lì suicidatosi. Avendo perso la quasi totalità dei propri beni, Jasmine non ha più neanche un posto dove poter alloggiare: decide quindi di tornare a S.Francisco dalla sorella, che non è proprio uguale a lei – né conduce uno stile di vita paragonabile a quello ormai passato di Jasmine. Ce la farà la nostra protagonista a trovare un nuovo punto di partenza per la sua vita?

Io amo Woody Allen, ormai dovrebbe essere chiaro. Ho apprezzato, in maniera più o meno idolatra, la quasi totalità dei suoi film (salvo rare, terribili eccezioni – vedi To Rome With Love), perchè lo ritengo un grandissimo costruttore di dialoghi – in ogni suo lavoro sempre perfettamente funzionali e calibrati. Dovendo essere onesto, tuttavia, devo riconoscere che la qualità del dialogo non andava da un po’ di tempo al pari di quella dei personaggi: anche in Midnight In Paris, che pure ho adorato, le figure che animavano la vicenda erano decisamente stereotipate, sebbene non per questo meno funzionali. Per farla brava, era dai tempi di Match Point che Woody non costruiva dei personaggi così: anzi, quelli di Blue Jasmine sono superiori, perchè alla fin dei conti la pellicola del 2005 strizzava molto l’occhio ad un altro precedente di Woody (Crimini E Misfatti, 1989), mentre le sorelle Jasmine e Ginger non mi ricordano precedenti femminili della galleria Alleniana.

Stavolta sono dunque i personaggi a farla da padrona, e con essi ovviamente gli attori (anzi, le attrici) che li incarnano. E sia Cate Blanchett che Sally Hawkins si rivelano adattissime e bravissime: sensazionale Cate/Jasmine, una nevrotica lunatica di chiara matrice Alleniana, ma con un suo personale carico di tristezza e depressione arretrate su cui davvero non c’è niente da ridere; ottima anche Sally/Ginger, un’anima bella nel corpo di una donna bruttina e insicura, ancora un po’ ragazzina dentro e sicuramente ingenua – altro personaggio di chiara matrice Alleniana, ma anche qui illuminato da una pressochè inedita “drammaticità” insita nei suoi stessi difetti. Seriamente fatico a pensare a due attrici migliori per i ruoli, perfette sino dalla totale diversità fisico-somatica – che già a livello estetico sottolinea l’abisso che separa le due personalità.

E poi, ovviamente, le due sono state in grado di rendere, con assoluta naturalezza e credibilità, quella commistione di cui ho accennato: il “potenzialmente comico” che si fa anche “drammatico”. Le due sorelle fanno ridere lo spettatore con tutte le loro nevrosi e le loro esagerazioni (in un senso – Jasmine, che non riesce a vivere senza indossare o possedere qualcosa “di marca” – e nell’altro – Ginger, più eccitata di una ragazzina quando va a fare shopping nei negozi di NY con la sorella), ma fanno anche tanta pena. Si veda la scena, meravigliosa, dove il dentista da cui Jasmine è andata a lavorare tenta di baciarla: sicuramente viene da farsi una risata sentendo quanto Jasmine sia disgustata dalla cosa, ma ci si rende anche conto della spiacevolezza della sua situazione – già ha dei grossi problemi nervosi, già esce da una situazione familiare completamente disintegrata, e ora che le cose sembravano iniziare a stabilizzarsi questo le si getta addosso come una piovra. La stessa MOVIEQUOTE, frase simbolo di Jasmine, è sì divertente, ma nasconde anche un’incredibilmente triste consapevolezza.

Perchè alla fine Blue Jasmine è un film sul passato, e sulla necessità (talvolta) di assimilarlo per poterlo dimenticare e ricominciare da capo. Jasmine non ci riesce: prova a ricostruire il rapporto con la sorella, ma lo fa in maniera malsana (cercando, cioè, di cambiare il suo stile di vita e pressandola affinchè lasci il ragazzo con cui Ginger aveva programmato di sposarsi); prova a buttarsi nel lavoro, ma questo inedito sforzo le fa aumentare le turbe nevrotiche, fino a che non si rende conto di aver bisogno di trovare un altro uomo ricco e affascinante a cui appoggiarsi per il resto della vita; quando trova un pretendente di tale calibro, si rifiuta di rivelargli il proprio triste passato, così che quando lui scopre tutto si sente tradito nella fiducia e la molla. Ginger, al contrario, ci riesce benissimo; il suo primo marito la picchiava, dunque lei l’ha lasciato e si è messa con un altro; la sorella l’ha trattata freddamente in passato, ma ora che ha bisogno di un aiuto Ginger capisce la gravità della situazione e l’accoglie a braccia aperte.

E quei flashback improvvisi, che spesso spaesano lo spettatore (seppure solo per un momento), sono un po’ una metafora della visione di vita di Jasmine, così irrimediabilmente bloccata nel suo passato. Una visione poco chiara, deprimente e irrealizzabile, che estrania dalla realtà e impedisce di affrontarla. E su questa semplice verità, Woody Allen è riuscito a costruire una pellicola valida, con due personaggi che entrano di diritto nella sua galleria storica, con l’aiuto di due attrici assolutamente e semplicemente strepitose: e tutto questo a 78 anni, e alla 46esima regia (visto che si parla tanto di dati anagrafici per Scorsese, mi sembra giusto non sottovalutare pure quelli di quest’altro gigante della Storia del Cinema). Chapeau, davvero.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Con chi dovrei andare a letto per avere un vodka Martini?

Lincoln (2012)

Con la Guerra di Secessione che si avvia alla sua conclusione, il presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, cerca con ogni mezzo possibile di far passare un emendamento sulla Costituzione per abolire la schiavitù dei neri in America. La fine delle ostilità diventa però una minaccia: molti Repubblicani e Democratici acconsentirebbero a dire “sì” all’emendamento solo nell’ottica che questo possa accelerare i processi di Pace fra le due fazioni. Lincoln sarà costretto ad affrontare una “guerra” politica su due diversi fronti, in lotta contro il tempo e i pregiudizi del Paese.

Spielberg: dopo Tornatore un altro regista dalla doppia anima. Da un lato, Steven è uno dei pochi continuatori di Meliès come regista della Fantasia, dell’Immaginazione, della Narrazione (E.T.Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo, la saga di Indiana Jones, ma anche Lo Squalo e Duel); dall’altro ha sempre avuto un occhio per la Storia e la Società (Schindler’s ListSalvate Il Soldato Ryan, due Capolavori sulle battutissime tematiche dell’Olocausto e della Seconda Guerra Mondiale, ma anche Il Colore Viola, sulla vita difficile e problematica dei neri d’America). Nel suo ultimo lavoro riesce a fondere, come in Schindler’s List, la tematica Sociale (abolizione Schiavitù) con la descrizione di una figura Storica importante quale il presidente U.S.A. Abraham Lincoln.

Lincoln è proprio un classico film alla Spielberg. Questo Autore ha infatti sempre posseduto un grande pregio: la capacità di non essere mai troppo stucchevole o insopportabile quando effettua virate (immancabili) nella retorica o nella semi-agiografia. Questa pellicola è un ottimo esempio di tale qualità. La descrizione e la caratterizzazione del personaggio principale sono solide, nette, ben definite: pur essendo spudoratamente “buono”, riusciamo a empatizzare con Lincoln e la sua incommensurabile (eppure pacata) volontà di sfruttare la sua posizione privilegiata per sistemare la problematica della schiavitù. Questa compattezza di fondo ci fa perdonare quelle virate di cui parlavo sopra: spesso e volentieri partiranno “momenti-citazione”, dove Lincoln si spara un mega-monologo/citazione “figo” con tanto di querulo flauto commovente/epico in sottofondo, eppure tutte queste ruffianate risultano molto più tollerabili di quanto non lo siano in numerosissimi altri film.

Un’altra bella caratteristica di Lincoln è il suo equilibrio: la figura centrale del presidente non soffoca la narrazione, nè viceversa la vicenda riduce Abraham ad un misera pedina della Storia, ma ne fa apprezzare il peso e l’importanza. Peccato che se, come detto prima, il ritratto caratteriale sia venuto molto bene allo sceneggiatore Tony Kushner, non altrettanto si può dire relativamente allo sviluppo della vicenda. Intendiamoci, non ci sono errori grossolani, ma la parte centrale è un po’ troppo difficile e lenta da seguire con attenzione, e il finale è troppo agiografico: perchè far vedere la morte di Lincoln? È davvero necessario, o serve solo a creare un finale falso-commovente? Non bastava “limitarsi” a mettere in evidenza la grande Opera di convincimento politico alla base dell’abrogazione Schiavista, senza dover tirare fuori la fine “leggendaria” con attentato in Teatro?

Anche sui personaggi secondari ho delle riserve. Molto bello, equilibrato e commovente, il character di Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones); è di gran lunga il più a rischio “melenso”, eppure anche il suo rientro finale a casa, dal suo unico vero Amore, risulta emozionante e genuino, solo sfiorato da una patina di melassa sentimentale. Al contrario, tuttavia, ho trovato poco chiari (come descrizione, ma anche come funzione narrativa) i personaggi della moglie di Lincoln (Mary, interpretata da Sally Field) e di suo figlio maggiore (Robert, con le fattezze di Joseph Gordon-Levitt): la prima è sostanzialmente una semi-nevrotica, con crisi isteriche e strabuzzìo di occhi a sprazzi; il secondo è il classico bimbetto che “voglio fare la Guerra perchè è giusta, e io sono buono, e i cattivi vanno puniti, e non me lo perdonerò mai se…”, ovvero una superflua pedina gonfia di retorica.

I problemi e la forza dei personaggi vanno di pari passo con l’attore che dà loro vita. Daniel Day Lewis (Lincoln) è, come al solito, estremamente calato dentro al character, intenso ed efficace, simpatico ed estremamente positivo (alle prese, fra l’altro, con una prova molto controllata e “sotto le righe” per i suoi standard); Tommy Lee Jones sta invecchiando decisamente bene e, dopo la prova tutt’altro che trascurabile in Il Matrimonio Che Vorrei, riesce per la seconda volta ad evitare che il suo personaggio scada nel “visto-stravisto”, con una recitazione ruvida e coinvolgente. Non riescono ad essere troppo convincenti, invece, Sally Field (Mary) e Joseph Gordon-Levitt (Robert): lei è palesemente troppo vecchia per DDL, risultando non-credibile già in partenza e accentuando questo problema quando deve affrontare i momenti di pazzia isterica del suo personaggio (strabuzzare gli occhi e muoversi come un frullatore non è tutto); pure lui è palesemente ridicolo, con quei baffoni finti, e nonostante l’indubbia bravura non può donare spessore ad un tipo tanto trascurabile come Robert Lincoln.

Lincoln è insomma un film con alcuni “bassi”, indubbi ed inevitabili, ma che sa risultare nel complesso solido e potente, ben recitato e (in parte) intelligentemente narrato. Le solite musiche del solito John Williams, molto commoventi-toccanti, sono ormai il marchio di fabbrica di una produzione Autoriale che sa essere retorica senza essere melensa o stucchevole: Spielberg sa il fatto suo, ed è uno dei pochi a cui (perlomeno il sottoscritto ce la fa) si riesce a perdonare un eccesso di “buonismo” e di “patriottismo cieco”, perchè la genuinità che trasuda dalle sue pellicole è indubbia. E allora il nostro cervello può per un momento sospendere la sua volontà Critica, lasciarsi coinvolgere dall’ardore di un uomo e di una vicenda che hanno sicuramente qualcosa da insegnare anche al giorno d’oggi, godersi un buon, vecchio, solido film alla Spielberg.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

La prima legge di Euclide dice: cose uguali ad una stessa cosa sono uguali tra loro. Questa è una regola di matematica ed è vera perché funziona, ha sempre funzionato e sempre lo farà. Nel suo libro, Euclide dice che questa è una cosa evidente. Vedete? Anche in quel libro vecchio di 2000 anni di legge meccanica è evidente che cose uguali ad una stessa cosa sono uguali tra loro.