La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water (2017)


Siamo negli Stati Uniti, in piena guerra fredda. Elisa, una donna di mezza età affetta da mutismo, vive in un angusto appartamento che ha arredato come una piccolo regno magico: ha un amico nel vicino di casa, un pittore gay con il quale condivide la passione per il Cinema muto. Elisa, inoltre, lavora come addetta alle pulizie all’interno di un centro di ricerca governativo: un giorno, nel laboratorio, fa la sua comparsa un essere incredibile, metà uomo e metà pesce, che attira subito l’attenzione della donna…

Guillermo Del Toro (soprannominato affettuosamente “CiccioMessico” dal sottoscritto) è sempre stato un favorito, qui in casa Cinemalato: nonostante lo sciatto Crimson Peak di qualche Stagione fa, mi è impossibile non volere bene (artisticamente parlando) all’ideatore de Il Labirinto Del Fauno, nonché colui che stava dietro alla maggior parte del primo Lo Hobbit (e che, se fosse stato libero di procedere, avrebbe reso la saga un altro cult del genere).

Quando, dunque, ho saputo che il suo ultimo lavoro aveva vinto il Leone D’Oro a Venezia, ho subito pensato che CiccioMessico avesse nuovamente tirato fuori il coniglio dal polveroso cilindro: quando, invece, il ragazzo si è portato a casa il Golden Globe per la Miglior Regia e ha ricevuto tredici nomination agli Oscar, ho iniziato a temere di trovarmi di fronte ad un prodotto corretto, ma “americano”.

Fortunatamente non è questo il caso, perlomeno non con la temuta gravità. La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è una favola dall’impianto narrativo classico, dai tocchi registici talvolta lievemente derivativi da certo Cinema fantastico-surreale (Il Favoloso Mondo Di Amélie su tutti), ma con una sua forte identità DelToriana che mette in secondo piano gli echi stilistico-strutturali.

La realtà insudiciata e l’evasione monda si intrecciano costantemente, come in un valzer: alla polvere e alla vetustà dell’appartamento di Elisa, si contrappongono le surreali forme curvilinee del suo arredamento; alla leggerezza romantica della donna nel suo sognare un musicale tip-tap si contrappongono le sue deprimenti e meccaniche masturbazioni; alla delicatezza della storia d’amore, si contrappongono la violenza dell’omofobia e del razzismo, nonché il rosso carminio del sangue (che inonda lo schermo più volte). L’antinomia più forte, però, è quella tra parola e gesto: all’interno del film, le parole sono costantemente menzognere, deboli o violente, e creano ostacoli che complicano la vicenda; i gesti, al contrario, sono sinceri e risolutivi, capaci di generare amore o di salvare vite.

Il silenzioso sentimento che si instaura tra i due muti protagonisti della pellicola è costantemente segnato dalla presenza dell’acqua, fin da quella nella quale bollono le uova sode, primo motore dell’intera vicenda. Ed è un progressivo detergersi dell’acqua e nell’acqua: dallo squallore iniziale di una vasca sporca (di sangue e di solitudine), si passa all’inondazione di un’intera stanza che diventa pioggia d’amore per le persone circostanti, fino alla metamorfosi acquatica del lieto fine (dove le ferite dell’esclusione terrestre diventano branchia e lasciapassare per una nuova inclusione nell’acqua).

Al netto di alcuni momenti meno felici (la scena pre-finale del ballo in bianco e nero, un po’ leziosa e telefonata – anche se, rispetto ad un La La Land, molto meno tirata per le lunghe e dunque più facilmente digeribile; il finale, in generale un po’ affrettato nella sua rocambolesca risoluzione), la coerenza stilistico-tematica di La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water, nonché il suo cast eccellente (oltre ai soliti ottimi Shannon e Doug, si segnalano il delicato pittore di Richard Jenkins e la strepitosa Elisa di Sally Hawkins – di una delicatezza e risolutezza commoventi), ne fanno un titolo imperdibile per la Stagione in corso, un gioiellino di fiaba che riesce a far sognare ed emozionare senza zuccheri aggiunti né forzature: e riuscire, oggi, a concepire una favola (uno dei più antichi generi narrativi) che non sia piatta o scontata, non è impresa affatto facile.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Quando mi guarda, lui non vede quello che mi manca o quanto io sia incompleta.

Fuocoammare (2016) Vs Non Essere Cattivo (2015)

LO SCONTRO

Tornano i “Vs.”, con uno scontro che sicuramente potrà sembrare un po’ bizzarro: Fuocoammare di Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, e Non Essere Cattivo di Claudio Caligari, ultimo film della trilogia del compianto regista. Ma non è solo la provenienza italiana ad accomunare questi due titoli, e a poterli mettere l’uno contro l’altro in un virtuale “ring” cinematografico.

Questo “Vs.” vuole essere l’affermazione definitiva della mia personale visione su un certo tipo di Cinema, che in Italia ha grande diffusione: il cinema realistico, chiaramente figlio del movimento neorealistico dell’immediato secondo dopoguerra. Ne ho già parlato spesso, soprattutto in questa Stagione cinematografica (vedi le recensioni di Per Amor VostroSuburra), e questa mi sembra l’occasione perfetta per ribadire il concetto.

Fuocoammare e Non Essere Cattivo sono entrambe pellicole fortemente acclamate, con un valido riscontro di critica e un discreto successo di pubblico: la prima ci racconta la realtà degli sbarchi di immigrati nelle acque di Lampedusa, e conseguentemente il contatto tra abitanti della città e i nuovi arrivati; la seconda ci racconta la realtà delle periferie romane, fatta di droga, crimine, amicizia, amore, speranze, sogni, morte. Penso che la netta differenza tra i due film si avverta già da questa mia prima, sommaria descrizione.

Fuocoammare è categorizzato come documentario, eppure è un documentario chiaramente “romanzato” nella linea narrativa del bambino Samuele (e, più in generale, quando parla della vita degli abitanti di Lampedusa): tuttavia tale processo è debole, e non porta davvero a nessun tipo di empatia con i protagonisti del film. Certo, la spigliatezza di Samuele fa sorridere: ma quale significato si nasconde sotto le sue disavventure (l’occhio pigro, il mal di mare, il gioco con la fionda, eccetera…)? Il tutto acquista le parvenze di un romanzo di formazione stiracchiato e deboluccio (il dover abituare la vista, il dover acquisire esperienza con i remi, eccetera…), nonostante alcune immagini siano suggestive (come il parallelismo tra i cactus e gli immigrati avvolti nel telo termico, bersagliati e poi successivamente “aiutati” alla bene e meglio dai propri assalitori). Non volendo poi parlare dell’inutilità di tutte le sequenze che involvono la radio locale, possiamo parlare del personaggio del medico, le cui prediche “umaniste” non sortiscono alcun tipo di effetto e vanno decisamente troppo per le lunghe: e anche le immagini degli immigrati – per quanto chiaramente più forti e decise di quelle che possono passare per le fonti di informazione mediatica – non riescono a smuovere alcun tipo di emozione.

Eppure c’era già stato, ben 5 anni fa, un film simile che mi aveva saputo coinvolgere, emozionare e far riflettere: sto parlando di Terraferma di Emanuele Crialese, un film con una storia davvero molto simile a quella della pellicola di Rosi. Unica differenza: Crialese si peritava di darmi una storia forte, con personaggi approfonditi ed interessanti. Perchè il Cinema, per me, è evasione e narrazione: non puoi farmi mancare entrambi questi elementi, altrimenti tanto vale che tu giri un videoclip da mandare al National Geographic o a History Channel.

Che poi è esattamente ciò che invece fa Claudio Caligari (assieme a Francesca Serafini e Giordano Meacci) nel suo Non Essere Cattivo: parlarmi di una realtà tanto strettamente legata alla vita vera, alla strada, alla società degli “ultimi”. Ma non sono solo ipotesi, non c’è una parvenza di linea narrativa: qui c’è una storia vera, la vicenda di un legame di amicizia costretto a piegarsi e distendersi continuamente sotto la spinta della realtà. Ai due poveri drogati/spacciatori (incarnati con bravura encomiabile dai due giovani attori-simbolo della Stagione, Luca Marinelli e Alessandro Borghi) io credo, io mi affeziono, io voglio bene: sto dalla loro parte, pur rendendomi conto di come entrambi abbiano fatto scelte di vita sbagliata – in gran parte dettate dall’ambiente e dall’origine. Questo mi porta a non vederli come modelli assoluti, ma come personaggi di carne e anima che – pur nella loro semi-negatività – mi sanno far riflettere su un problema che affligge una ampia fascia della popolazione: nel frattempo, paradossalmente, la storia non mi è stata col fiato sul collo (a volermi fare la morale), ma anzi mi ha fatto scordare del mio mondo reale, quella vita quotidiana da cui voglio poter evadere quando vado al cinema. E la scena del cimitero, quando Cesare/Marinelli legge l’ultimo messaggio della sua adorata nipotina sulla maglietta dell’orso che le aveva regalato, è uno dei momenti più commoventi della Stagione in corso.

IL VERDETTO

Per concludere (e ribadire): il Cinema per me non può prescindere dalla capacità di far evadere lo spettatore dalla realtà, o comunque da una solida linea narrativa/romanzesca. Fuocoammare non è un brutto film in assoluto, ma è capace perlopiù di annoiarmi, o di farmi pensare “ma se stavo a casa a guardare Discovery, non avrei forse ottenuto lo stesso risultato in termini di immagini/riflessione personale, risparmiando peraltro i soldi del biglietto?”. Non Essere Cattivo è in primis una fortissima storia di legami di sangue, amicizia, amore, violenza e droga, capace in seguito di farmi comunque riflettere su una certa realtà italiana (che poi è anche universale ). E io, dovendo fare da arbitro in una sfida del genere, alzerò sempre il braccio di colui che si è ricordato di non sottomettere la fiction al messaggio.

“LOCANDIMETRO”

IL VINCITORE

Classifica Stagionale 2014/2015: TOP20 – Parte Bassa (20-11)

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Nuova sezione della Classifica Stagionale 2014/2015: si entra nella TOP20, con le prime dieci posizioni dei magnifici 20 (qui quelle della Stagione passata), Non un grandissimo risultato, contando che solo 8 film sono rimasti fuori in questa specifica Stagione: accogliamoli comunque con un piccolo applauso, per il traguardo raggiunto (seppure minimo). As usual, cliccando sul nome della pellicola potrete leggere la recensione relativa, quando disponibile.

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20) La Teoria Del Tutto, di James Marsh (2014)

Quello che mi ha stupito di La Teoria Del Tutto è il fatto che la pellicola sia molto più incentrata sul personale di Hawking (e coinvolga molto la figura della moglie, Sally), andando a risultare più coinvolgente di quanto non avessi pensato. Tuttavia avrei gradito un maggior approfondimento della vicenda scientifica del protagonista – uscire dal cinema pensando ancora a Hawking come a “quello in carrozzina che appare nei Simpson con la voce robotica” non è il massimo. Si aggiunga che la costruzione è banalissima, vista e stravista in qualunque biopica all’americana, ed ecco spiegato il piazzamento.

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19) The Imitation Game, di Morten Tyldum (2014)

In perfetta antitesi al film di Marsh, The Imitation Game ci spiega benissimo chi fosse il professor Alan Turing, e quale sia stata la sua importanza nell’occasione della seconda guerra mondiale/per la scienza tutta. Anche qui, avrei però gradito un occhio di maggior riguardo alla parte privata/sentimentale della figura di Turing: dopotutto, il suo essere omosessuale è ciò che lo portò ad essere condannato e a suicidarsi, e sarebbe stato interessante dare una lettura più approfondita allo strano personaggio di Joan Clarke/Keira Knightley, invece di rimanere in superficie e lasciare molto in sospeso.

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18) Il Nome Del Figlio, di Francesca Archibugi (2015)

Il Nome Del Figlio è una buona commedia di attori, ottimamente recitata da un valido cast (su cui spiccano un ritrovato Alessandro Gassman e lo stralunato Rocco Papaleo), con un paio di sequenze genuinamente commoventi. In linea di massima non si discosta molto dal cosiddetto “film d’attori”: buoni dialoghi senza troppo genio, impianto teatrale (una-due location e vicenda circoscritta a qualche ora di una serata tra amici), regia talmente invisibile da essere quasi inesistente. Non male, ma certo non siamo neppure lontanamente dalle parti di Venere In Pelliccia.

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17) Blackhat, di Michael Mann (2015)

Blackhat è un film schizofrenico: parte come un normalissimo thriller d’azione americano, ben strutturato e profondamente realistico. Proprio quando mi iniziavo ad annotare mentalmente la quasi totale mancanza di empatia con i personaggi/di emozione alcuna, ecco che (a 3/4 buoni dall’inizio della pellicola) assistiamo ad un crescendo emotivo e ad un colpo di scena a dir poco esplosivo, che mi hanno lasciato a bocca aperta. Arriva però il quarto finale di film a rovinare tutto: oltre ad una spiegazione davvero mencia per l’intrigo fino ad allora svelato, vediamo il cattivone del film (deludentissimo: un trippone medio-americano in camicia hawaiana) morire in una sequenza iper-coreografata/scenografata che ricorda più un Kill Bill venuto male, che non ciò che i primi 3/4 di pellicola lasciassero prevedere. Confuso ed infelice.

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16) Il Giovane Favoloso, di Mario Martone (2014)

La biografia del buon Giacomo Leopardi, firmata Mario Martone ed interpretata dal sempre efficace Elio Germano, avrebbe anche dei buoni momenti: le avventure onirico-grottesche di una Napoli dai sapori quasi felliniani, e la quasi sovrannaturale conclusione sui versi de La Ginestra, sono efficaci nel coniugare racconto biografico e magia poetica. Tuttavia, il film ha una prima parta costruita in maniera davvero blanda (se non altro rispetto alla magica seconda metà), con sprazzi di stupidità radical-chic nelle declamazioni ad alta voce del giovane Leopardi, e con momenti non troppo interessanti/approfonditi nell’incontro con Fanny. Un’occasione sfruttata solo a metà, insomma.

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15) Colpa Delle Stelle, di Josh Boone (2014)

So già che mi attrarrò critiche devastanti per aver messo la “Love Story del 2014” in Top20, ma bisogna essere onesti: per quanto sia un film sentimentale tra due giovani adolescenti, Colpa Delle Stelle non è per niente stupido nè melenso (salvo nel finale, ma uno scivolone glielo riesco anche a concedere). L’ottimo duo di protagonisti (Shailene Woodley e Ansel Elgort) regge due personaggi credibili e fragili, che sanno commuovere senza scadere in stupidi pietismi (nonostante la tematica di fondo). Certo, alla fine è solo una “Love Story”, ma sicuramente ben realizzata.
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14) Un Ragazzo D’Oro, di Pupi Avati (2014)

Il Pupi nazionale riesce finalmente a commuovermi un pochino, con un film in super-sordina, che fa del suo essere mencio e grigio il proprio punto di forza. In quella che mi sembra una pseudo-biografia del regista bolognese, emerge forte la paura della mediocrità, il forte legame con il passato (nostalgico, ma anche capace di portare a grandi risultati nel presente), e un’insolita tensione drammatica nella pazzia del protagonista (uno Scamarcio alla sua miglior prestazione di sempre). Applausi, per una volta.

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13) Lo Hobbit – La Battaglia Delle Cinque Armate, di Peter Jackson (2014)

Si chiude la trilogia del buon Bilbo Baggins, su una nota lievemente superiore alla precedente, ma purtroppo certamente non al livello del sorprendente primo capitolo. Nonostante una bella battaglia finale, preparata con un ottimo e tensivo climax, quell’interessante spunto sulla “grandezza delle piccole cose” di Un Viaggio Inaspettato si è persa per la via, lasciando il posto ad una talvolta inadeguata epicità: e in tal senso, Lord Of The Rings è destinato a rimanere su un altro livello e su un diverso pianeta.

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12) Hunger Games: Il Canto Della Rivolta – Parte I, di Francis Lawrence (2014)

Nonostante sia solo una “prima parte”, nonostante lo split del finale mi ricordasse tantissimo l’amara conclusione di Harry Potter, Francis Lawrence e la sua omonima Jennifer ci regalano un ottimo preludio alla tempesta: nonostante tutti i limiti del caso, la pellicola è intrigante e ben congegnata, e con il duello propagandistico fra il distretto 13 e Capital City torniamo a vedere quella interessante critica ai mezzi di comunicazione di massa che già il primo capitolo aveva portato alla luce. Applausi, e stiamo a vedere come andrà a finire la saga.

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11) Guardiani Della Galassia, di James Gunn (2014)

Premendo fortemente il tasto della comicità e dell’ironia, Gunn porta a segno un ottimo film di supereroi che, non prendendosi sul serio, sa regalare momenti davvero originali per il genere (si pensi allo stupidissimo personaggio di Bautista o al tenerissimo finale con il germoglio di Groot che balla al ritmo dei Jackson 5). Le scene d’azione sono un po’ scontate, ma il ritmo è buono: manca, per il momento, un approfondimento dei personaggi (soprattutto il protagonista), che si suppone verrà rimandato in gran parte al prossimo episodio.

A Bischero Sciolto – Cinemalato #3 (22/01/2015)

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22/01/2015. Son già 3 anni, mi sento vecchio – ma che vecchio! DECREPITO! – e come tale ho proprio voglia di mettemi a borbottà e a rompe i coglioni a tutti quanti nei dintorni, nessuno escluso. Perchè oggi è il mio… come si dice, un mi rinvengo… onomastio no, qualcosa di simile… insomma, fo l’anni, ecco. Io, il Cinemalato, quello che morti di voi seguono così, tanto per sentì un bischero che ragiona un po’ sui films, e poi andagli di molto in culo alla sua opinione – tanto a voi Interstellar v’ha fatto caà, e un sentite santi.

Vi potrà stupire che un parli come al solito, ma il fatto è che m’andava di fà ‘sta osa un po’ a bischero sciolto. Sapete perchè? No, e un ve ne frega un cazzo, suppongo. Ma anche a me m’importa una bella sega, e dunque proseguo nello sproloquio, tanto il blog è mio e vi sfido a rompemmi l’ova nel paniere.

Come dicevo, dopo 3 anni – che poi son di molti mesi, settimane, giorni, ore, e giù via così fino all’unità di misura che dopo cinqu’anni di Lettere un mi riordo manco morto (maledetta la Fisica e chi l’ha inventata) – uno si mette un po’ a pensà al più e al meno: e si rende onto che, tra la sciatica e il reuma, tra una partita a scala e una a canasta, tra un liscio più al sabato e un moccolo alla domenica mentre guarda la Fiorentina (che quest’anno fa parecchio caà), qualcosa è cambiato. Sì, è cambiato e neanche di poco, no, no! Non che sia cambiato in peggio e in meglio, solo cambiato.

Anzi a tutto, ho più fans e followers – ora il numero di preciso un me lo riordo, ma almeno una diecina in più di siuro. Questo, come diceva l’omo ragnolo, che vol dì? Vol dì più responsabilità. Insomma, certo, un è che io sia chissàchi, ma magari la gente ci tiene ad avè un’opinione decente quando mi legge, e quindi mica posso scrive la prima cosa che mi passa per la mente! Devo ponderà, devo ragionà, devo sta attento a un offende la sensibilità di qualcheduno, eccetera… Insomma, un lavorone cari miei!

E me ne rendo conto, eccome! Ci son tanti di quei giorni in cui mi dio “ohiohi, c’ho da scrive la recensione di quer filme!”, e la mia vocina dell’efficienza – che è di molto flebile, perchè io sarei un tipo che sta tutto il giorno abbioccato a buopillonzi! – inizia a fa “no, dai, almeno aumenti le visualizzazioni, che qui la cosa langue da un po’ di tempo”, e però poi piglia il sopravvento il culo peso e un fo nulla. O se fo, fo un po’ controvoglia: cioè, un è che mi faccia proprio schifo, ma insomma un è neanche che ci goda, ecco!

Però poi succede nella vita, che ci siano quelle cose… come le chiamava, il Giois?… non befane… Ah, epifanie, sì sì, ecco. L’epifanie! Cioè, quando ti rendi conto d’una osa che un ti rendevi conto ci fosse, ma invece c’era, e ti si spalanca un mondo. Perlomeno credo, insomma. Comunque, a me m’è successa l’altro giorno (che lo sapete, vero, che con “l’altro giorno” s’indica un tempo che spazia dal giorno prima fino al decennio scorso, no? Quindi di preciso un lo saprete mai quand’è stato!), quando un mio amico di quelli dei bei tempi andati del liceo s’è messo in testa d’aprì un blog pure lui.

E lo sapete cosa? A prima vista pare che un abbia un senso che uno. Voglio dì: quel che fa lullì è pratiamente di parlà in dialetto misto-toscano tutto il tempo, a ragionà di ose che un lo so tanto bene chi è che le vorrebbe davvero sta a sentì. Però mi ci son fatte delle grosse risate, lo devo ammette, e in più m’e giunta la befana ad aprimmi l’occhi. Per farla breve, che qui sennò poi un me lo leggete per nulla il post e io c’ho messo tutto il mi cuore e mi farebbe incazzà non poco, m’è tornato in bocca un gusto che un provavo da un po’: il gusto della semplicità, della osa fatta lì per lì di getto, del “bischero sciolto” perlappunto.

E allora ve lo voglio raccomandà questo coso qui… Il mio amico insomma. Lo fo come ringraziamento a lui perchè m’ha fatto ride e riflette al contempo, e a voi perchè seondo me vi ci divertite a legge di che ragiona il buon Carlo. Poi, se invece un vi diverte per un cazzo, e se questo post v’ha fatto schifo e un ne capite il senso, beh: un me ne potrebbe fregà di meno. L’ho fatto per tutti, ma l’ho fatto soprattutto per me! Perchè fa bene, ogni tanto, limitassi a fa du discorsi a bischero sciolto, e riscoprissi bravi a ragionà tanto per il gusto di fallo. E lui lo fa di morto bene (se un l’aveste capito, dovete cliccà sulla frase prima della parentesi per andà sur sito!)

(Di seguito, i soliti dati di cui un ve ne frega un cazzo, ma che mi fanno godè quando li leggo e li vedo belli ingrassati a son di visualizzazioni: grazie dumila a tutti!)

VISUALIZZAZIONI TOTALI: 20338 (7228 annuali)

POST PUBBLICATI: 164 (43 annuali)

FOLLOWERS: 49 (15 annuali)

TOP 5 POST 

1) Il Grande Gatsby Vs Il Grande Gatsby / 1289 Visualizzazioni

2) L’Esercito Delle 12 Scimmie / 729 Visualizzazioni

3) Il Lato Positivo – Silver Linings Playbook / 561 Visualizzazioni

4) Vita Di Pi / 502 Visualizzazioni

5) Don Jon / 434 Visualizzazioni

FLOP 5 POST 

1) Un Ragazzo D’Oro / 9 Visualizzazioni

2) Into Darkness – Star Trek / 11 Visualizzazioni

3) Annabelle / 12 Visualizzazioni

4) Lo Sciacallo – Nightcrawler / 14 Visualizzazioni

5) Sin City Vs Sin City 2 – Una Donna Per Cui Uccidere / 15 Visualizzazioni

 

Un Ragazzo D’Oro (2014)

Davide Bias è un creativo pubblicitario con aspirazioni letterarie: vorrebbe fare lo scrittore, ma nessun editore sembra interessato a pubblicare i suoi racconti (i romanzi sono più commerciabili). La morte del padre, uomo con cui Davide era in forte contrasto, lo mette in contatto con un’editrice (nonchè amante del padre) interessata ad un certa “biografia” che l’uomo stava scrivendo: sarà questa l’occasione per Davide di riscoprire la figura del padre e per riscattare il nome di entrambi.

Pupi Avati, solitamente, possiede una caratteristica abbastanza terribile (a mio modesto punto di vista): l’impalpabilità. Perlomeno in questi ultimi anni di carriera (diciamo post Il Nascondiglio, 2007) roba come Il Papà Di Giovanna Il Cuore Grande Delle Ragazze ha letteralmente annoiato i miei pomeriggi/sere cinefili. È un “vizio” decisamente deprecabile, quello di girare tanto per girare, e Avati sembra possederlo da un po’ di tempo a questa parte: sarebbe molto meglio, per intendersi, se il regista bolognese avesse tirato fuori una pellicola immonda derivata però da un’idea interessante, invece di pellicole assolutamente innocue e superflue sotto ogni punto di vista.

Quello che dunque mi sorprende in Un Ragazzo D’Oro, lavoro non del tutto assente da tale “difetto”, è come Avati abbia quasi giocato con tale impalpabilità, tirando fuori una vicenda che potrebbe essere la propria biografia degli ultimi anni da regista. Il film, difatti, parte esattamente dove avevamo lasciato Il Cuore Grande Delle Ragazze (2011): personaggi senza spessore, vicenda buttata lì (quasi sbadigliata), regia inesistente (niente a che vedere con Il Nascondiglio). Ma non appena Davide/Riccardo Scamarcio torna dalla madre, ecco che qualcosa si muove, magicamente.

Perchè lo scoglionato Bias Junior, privato di ogni energia vitale possibile (da una ragazza che non lo ama davvero, da una quantità notevole di psicofarmaci che deve assumere, dalla vita in generale), grazie ad un semplice ritrovamento (la statuetta di una gara di salto in alto – vinta in cordata con il padre) riesce a scuotere tutto quanto dalle fondamenta: non torna a Milano e diventa, letteralmente, suo padre – mettendo i suoi stessi vestiti, finendo (anzi, scrivendo) la sua biografia, amando la stessa donna. Ma non c’è nulla di cronenberghiano in questa tara familiare (come in Maps To The Stars) e il regista non tenta strade non sue: al contrario, esalta quella “poesia” che deriva dalle cose semplici e dal proprio passato – sebbene rinnegato o sepolto nella memoria.

Dunque il personaggio del figlio/padre Bias, in questa sua meravigliosa evoluzione, dona improvvisamente bellezza e vita alla vicenda, incarnato alla perfezione da uno Scamarcio che conferma un discreto talento – perfetto contraltare dei personaggi femminili, estremamente secondari sia da un punto di vista “strutturale” che da quello recitativo. Si possono perdonare, allora, momenti francamente non necessari (il bacio a Sharon Stone, pura operazione di marketing; la scena del Cinepanettone, sicuramente gradevole per ogni Cinefilo che si rispetti ma troppo “rabbiosa” nel contesto), che non sembrano poter mancare mai del tutto nel Cinema di Avati.

Chissà se questo Un Ragazzo D’Oro, con tutta l’atmosfera di fallimento che si porta appresso, sia una dichiarazione biografica del regista stesso: certo i punti di contatto con la sua recente filmografia sono tanti, e la bella suggestione rimane valida. E pensarlo dona ancora maggior forza al riscatto di Davide/Achille e del loro ultimo libro, se solo s’immagina che anche Pupi faccia parte dell’accoppiata, se solo s’immagina che sia lui ad aver pensato “non riesco più a scrivere niente… è finita…” e che una qualche voce interiore gli abbia detto “so che io e te ce la possiamo fare”. E – in parte – è stato così.

“LOCANDIMETRO”

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Mi costerà una fatica enorme, ma so anche che io e te ce la possiamo fare.