La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water (2017)


Siamo negli Stati Uniti, in piena guerra fredda. Elisa, una donna di mezza età affetta da mutismo, vive in un angusto appartamento che ha arredato come una piccolo regno magico: ha un amico nel vicino di casa, un pittore gay con il quale condivide la passione per il Cinema muto. Elisa, inoltre, lavora come addetta alle pulizie all’interno di un centro di ricerca governativo: un giorno, nel laboratorio, fa la sua comparsa un essere incredibile, metà uomo e metà pesce, che attira subito l’attenzione della donna…

Guillermo Del Toro (soprannominato affettuosamente “CiccioMessico” dal sottoscritto) è sempre stato un favorito, qui in casa Cinemalato: nonostante lo sciatto Crimson Peak di qualche Stagione fa, mi è impossibile non volere bene (artisticamente parlando) all’ideatore de Il Labirinto Del Fauno, nonché colui che stava dietro alla maggior parte del primo Lo Hobbit (e che, se fosse stato libero di procedere, avrebbe reso la saga un altro cult del genere).

Quando, dunque, ho saputo che il suo ultimo lavoro aveva vinto il Leone D’Oro a Venezia, ho subito pensato che CiccioMessico avesse nuovamente tirato fuori il coniglio dal polveroso cilindro: quando, invece, il ragazzo si è portato a casa il Golden Globe per la Miglior Regia e ha ricevuto tredici nomination agli Oscar, ho iniziato a temere di trovarmi di fronte ad un prodotto corretto, ma “americano”.

Fortunatamente non è questo il caso, perlomeno non con la temuta gravità. La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è una favola dall’impianto narrativo classico, dai tocchi registici talvolta lievemente derivativi da certo Cinema fantastico-surreale (Il Favoloso Mondo Di Amélie su tutti), ma con una sua forte identità DelToriana che mette in secondo piano gli echi stilistico-strutturali.

La realtà insudiciata e l’evasione monda si intrecciano costantemente, come in un valzer: alla polvere e alla vetustà dell’appartamento di Elisa, si contrappongono le surreali forme curvilinee del suo arredamento; alla leggerezza romantica della donna nel suo sognare un musicale tip-tap si contrappongono le sue deprimenti e meccaniche masturbazioni; alla delicatezza della storia d’amore, si contrappongono la violenza dell’omofobia e del razzismo, nonché il rosso carminio del sangue (che inonda lo schermo più volte). L’antinomia più forte, però, è quella tra parola e gesto: all’interno del film, le parole sono costantemente menzognere, deboli o violente, e creano ostacoli che complicano la vicenda; i gesti, al contrario, sono sinceri e risolutivi, capaci di generare amore o di salvare vite.

Il silenzioso sentimento che si instaura tra i due muti protagonisti della pellicola è costantemente segnato dalla presenza dell’acqua, fin da quella nella quale bollono le uova sode, primo motore dell’intera vicenda. Ed è un progressivo detergersi dell’acqua e nell’acqua: dallo squallore iniziale di una vasca sporca (di sangue e di solitudine), si passa all’inondazione di un’intera stanza che diventa pioggia d’amore per le persone circostanti, fino alla metamorfosi acquatica del lieto fine (dove le ferite dell’esclusione terrestre diventano branchia e lasciapassare per una nuova inclusione nell’acqua).

Al netto di alcuni momenti meno felici (la scena pre-finale del ballo in bianco e nero, un po’ leziosa e telefonata – anche se, rispetto ad un La La Land, molto meno tirata per le lunghe e dunque più facilmente digeribile; il finale, in generale un po’ affrettato nella sua rocambolesca risoluzione), la coerenza stilistico-tematica di La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water, nonché il suo cast eccellente (oltre ai soliti ottimi Shannon e Doug, si segnalano il delicato pittore di Richard Jenkins e la strepitosa Elisa di Sally Hawkins – di una delicatezza e risolutezza commoventi), ne fanno un titolo imperdibile per la Stagione in corso, un gioiellino di fiaba che riesce a far sognare ed emozionare senza zuccheri aggiunti né forzature: e riuscire, oggi, a concepire una favola (uno dei più antichi generi narrativi) che non sia piatta o scontata, non è impresa affatto facile.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Quando mi guarda, lui non vede quello che mi manca o quanto io sia incompleta.

Premi Oscar 2017

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Eccoci giunti al momento di maggior rilevanza mediatica nell’annata cinematografica: i Premi Oscar, statuette dal più che dubbio valore meritocratico ma dall’altrettanto indubbio potere suggestivo e fascino intramontabile: chiunque abbia a che fare con il mondo del Cinema (o anche chi sogna di averci a che fare) non può rimanere impassibile di fronte all’ormai storica premiazione, giunta alla sua 89esima edizione. Ecco dunque il mio personalissimo commento (relativo alle 8 categorie principali) sulla cerimonia svoltasi ad Hollywood durante la (per noi europei) tarda serata di ieri – come sempre, cliccando sul nome del film verrete re-indirizzati alla mia personalissima recensione, ove disponibile.

LEGENDA

GRASSETTO: Vincitore.

SOTTOLINEATO: Vincitore nella mia modestissima opinione.
ROSSO: Nome che avrei selezionato per la cinquina.

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Barry Jenkins e Tarell McCraney (Moonlight)

Eric Heisserer (Arrival)

Luke Davies (Lion – La Strada Verso Casa)

August Wilson (Barriere)

Allison Schroeder e Theodore Melfi (Il Diritto Di Contare)

E si parte subito alla grandissima: Moonlight – con gran merito, vista la sua incredibile capacità di tessere dialoghi d’un realismo tanto poetico quanto semplice, tanto vitale quanto doloroso – si porta a casa il premio per la miglior sceneggiatura adattata: Barry Jenkins e Tarell McCraney riescono così nell’impresa di rassicurare il mio povero cuoricino che quel parto mancato di Arrival non possa intaccarmi l’albo d’oro di quello che io ritengo essere il premio principe dell’intera cerimonia (essendo aspirante sceneggiatore). Avevo tanto timore che volessero dare la statuetta ad Eric Heisserer a mo’ di contentino – visto che la pellicola di Villeneuve non aveva chance di vincere in alcuna delle altre categorie – ma così, per fortuna, non è stato.

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

Damien Chazelle (La La Land)

Kenneth Lonergan (Manchester By The Sea)

Taylor Sheridan (Hell Or High Water)

Efthymis Filippou e Yorgos Lanthimos (The Lobster)

Mike Mills (20th Century Women)

Seconda goduta di proporzioni bibliche. Il mio favorito assoluto sarebbe stato quel gioiellino grigio-apatia di The Lobster, ma già la sua nomination è stata un fatto a dir poco epocale. Manchester By The Sea, per quanto non sia riuscito a conquistarmi nel profondo, è effettivamente una pellicola di indubbio valore e sapienza narrativa (ma non solo): oltre a questo, la vittoria di Lonergan segna la prima, grande sconfitta del sopravvalutato Chazelle e del suo La La Land, quindi bisogna doppiamente celebrarla sulle pagine di questo piccolo blog.

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Viola Davis (Barriere)

Naomi Harris (Moonlight)

Nicole Kidman (Lion – La Strada Verso Casa)

Octavia Spencer (Il Diritto Di Contare)

Michelle Williams (Manchester By The Sea)

Premio meritatissimo per Viola Davis, ma che mi lascia lievemente insoddisfatto per un paio di motivi: 1) questa performance è nettamente inferiore alla bomba a mano che Viola tirò nel lontano 2008 ne Il Dubbio, dove in circa dieci minuti di recitazione toglieva letteralmente scena ad una Meryl Streep in grande spolvero; 2) la sua vittoria è sacrosanta più che altro per una carenza notevole nel reparto – analizzando le sue avversarie, le due migliori rivali erano la Harris di Moonlight  e la Williams di Manchester By The Sea, entrambe francamente penalizzate da personaggi troppo poco presenti nella pellicola come minutaggio.

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Mahershala Ali (Moonlight)

Jeff Bridges (Hell Or High Water)

Lucas Hedges (Manchester By The Sea)

Dev Patel (Lion – La Strada Verso Casa)

Michael Shannon (Animali Notturni)

Cinquina decisamente mutilata da una serie di nomine inspiegabili: in primis, lasciatemi arrogare il diritto di giudicare la performance di Dev Patel senza averla vista, e dire che in nessun universo post-parallelo la si possa considerare superiore a quella di Liam Neeson in Silence o a quella di Aaron Taylor-Johnson in Animali Notturni (il ragazzo ha vinto il Golden Globe corrispondente e poi non è stato nemmeno nominato: si sfiora il ridicolo, qui); inoltre il buon Mahershala è, a mio avviso, nettamente uno dei peggiori dell’intero cast di Moonlight, e bisognava semmai premiare le grandiose prove di Trevante Rhodes, André Holland e Ashton Sanders. Tra i candidati, infine, Lucas Hedges e Michael Shannon battono 10 a 0 il buon Juan: vittoria, dunque, incomprensibile.

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Isabelle Huppert (Elle)

Ruth Negga (Loving)

Natalie Portman (Jackie)

Emma Stone (La La Land)

Meryl Streep (Florence)

Categoria falsata dalla clamorosa assenza di Amy Adams – che andava nominata due volte, sia per l’ottima prova in Arrival che per l’eccellente performance di Animali Notturni (e non mi dite che non si può fare: Soderbergh venne nominato due volte come regista nel 2001) – vede la vittoria di Emma Stone, una delle mie attrici giovani preferite, in un ruolo moscio e stereotipato dove lei riesce al massimo a difendersi. Delle due avversarie che ho visionato (Meryl Streep in Florence e Isabelle Huppert in Elle) non sono rimasto particolarmente colpito: un’annata davvero fiacca per la categoria, dopo la rigogliosa abbondanza della scorsa edizione.

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

Casey Affleck (Manchester By The Sea)

Andrew Garfield (La Battaglia Di Hacksaw Ridge)

Ryan Gosling (La La Land)

Viggo Mortensen (Captain Fantastic)

Denzel Washington (Barriere)

Altra categoria con assenze importanti: Jake Gyllenhaal viene nuovamente sfanculato, dopo che due anni or sono non era stato considerato per la sua spettacolare performance in Lo Sciacallo, e la sua prova da applausi in Animali Notturni ignorata completamente; oltre a questo, viste le nomine insulse del bolsissimo Gosling di La La Land e del radical-chic di Mortensen, Garfield poteva essere benissimo considerato per una doppia nomina con Silence (annata straordinaria la sua). Vittoria strameritata, tuttavia, per l’eccezionale Casey Affleck, che in Manchester By The Sea ritrae il dolore silenzioso in incarnato umano.

MIGLIOR REGIA

Damien Chazelle (La La Land)

Mel Gibson (La Battaglia Di Hacksaw Ridge)

Barry Jenkins (Moonlight)

Kenneth Lonergan (Manchester By The Sea)

Denis Villeneuve (Arrival)

La più grande tristezza della serata: il pischelletto ammiccante di Damien Chazelle si porta a casa il premio per la regia con il suo laccatissimo e banale La La Land (che ha come unica forza parte dello script e la prova della Stone), rubando letteralmente la statuetta all’esagitatissimo e poderoso Gibson di La Battaglia Di Hacksaw Ridge (stessa  tipologia di rapina dell’anno scorso, con Miller truffato da Boriandro Inarritu). Le assenze di Tom Ford per Animali Notturni e di Martin Scorsese per Silence a vantaggio del Villeneuve di Arrival e del poco empatico Lonergan di Manchester By The Sea sarebbero da punire con sanzione UE immediata.

MIGLIOR FILM

Arrival

Barriere

La Battaglia Di Hacksaw Ridge

Hell Or High Water

Il Diritto Di Contare

La La Land

Lion – La Strada Verso Casa

Manchester By The Sea

Moonlight

Ma l’abnorme goduta finale mi ripaga di qualunque Chazelle o Stone vincitori: La La Land viene chiamato sul palco da Warren Beatty come trionfatore nella categoria assoluta, e mentre sono tutti lì che festeggiano… salta fuori che si sono sbagliati, e ha vinto davvero il migliore tra i film candidati, Moonlight! Il cortocircuito americano è alle stelle: per far rabbia a Trump (a quanto pare razzista ed omofobo, anche se non ho sentito parlare di decreti a danno delle suddette comunità) hanno fatto vincere il film “sui neri gay”, pellicola che se anche non avesse parlato di due neri gay non avrebbe perso alcunché del suo fantastico valore! Il politically correct è stato applicato malissimo, e nel farlo si è ottenuta la vittoria strameritata di una semplice, toccante e profondissima lezione sull’Amore e sulla maturità personale a discapito del roboante ed esagerato “capolavoro” di Chazelle. Grazie a tutti ragazzi, vi adoriamo così! Allucinanti le assenza di Animali NotturniSilence, ma di fronte ad un simile risultato passano quasi del tutto in secondo piano.

Questo è tutto: alla prossima edizione!

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Moonlight (2016)

In tre diverse fasi della sua vita, vediamo la continua lotta del giovane afroamericano Chiron per conoscere sé stesso e riuscire ad affermarsi in mezzo ad una società violenta come quella dei “ghetti” segnati dalla vita di strada e dallo spaccio di droga.

Omosessualità e neri d’America: Moonlight non partiva certo sotto le migliori premesse. Non fraintendetemi, non sono razzista né sessista, ma spesso queste tematiche tanto delicate sono rese in maniera così stereotipata, schematica e strabordante melassa da ogni fotogramma (l’esempio più recente che mi viene in mente, per quanto riguarda il lato “omosessualità”, è il superfluo Freeheld – Amore, Giustizia, Uguaglianza), che i miei coglioni vengono inevitabilmente rotti e cadono tapini sul pavimento sottostante.

Eppure il regista-sceneggiatore Barry Jenkins è riuscito nel miracolo: ha preso due tra le tematiche più scottanti, abusate e spesso maltrattate del Cinema e le ha mischiate insieme donando un’incredibile dignità e profondità emotiva ad entrambe. La cosa più interessante da notare, a mio avviso, è la scelta di utilizzare la storia d’amore come vicenda centrata maggiormente sul tema “trovare il proprio posto” che non sul tema “scoprire la propria sessualità”.

In Moonlight c’è sì amore omosessuale – con tutte le difficoltà e i dubbi del caso – ma questo aspetto è solo una parte del quadro più grande, che prevede riuscire anche a capire chi si è veramente e quale sia la nostra possibilità nel mondo e nel futuro, senza farsi influenzare dai dis-valori che caratterizzano l’ambiente e la società che ci accoglie. È emblematico, in tal senso, il personaggio di Juan, spacciatore che riesce minimamente a riscattarsi grazie all’inaspettato ingresso nella sua vita del piccolo ed insicuro Chiron. È proprio lui a pronunciare la MOVIEQUOTE del film, che funziona a due livelli: ad un primo livello, perché “blu” è il colore della tristezza, e di dolore ce n’è eccome nella vita di questi giovani ragazzi del ghetto; ad un secondo, perché Juan si ribella a questa imposizione del soprannome “blu”, facendo così capire che bisogna saper prendere in mano da soli la propria vita.

La bellezza di Moonlight, tuttavia, non sta solo nella saggezza dello script, quanto nel controllo registico e recitativo: tutta la vicenda, salvo rarissimi momenti, è giocata in sottrarre, imperniata su silenzi e sotto-testi, su un girare intorno ai concetti di ispirata delicatezza. Le due scene più emblematiche sono quella sulla spiaggia tra Chiron e Kevin adolescenti, e la meravigliosa sequenza interna al bar nella fase adulta: la questione spinosa del rapporto tra i due è affrontata direttamente solo nelle fasi appena precedenti la fine, mentre il grosso si nutre di imbarazzi, dubbi e profonda voglia di potersi toccare racchiusa in due anime tanto fragili. Merito, io credo, non solo della direzione di Jenkins, ma anche della grande prova di almeno tre attori del cast (Trevante Rhodes, André Holland e Ashton Sanders: non so bene perché sia stato nominato Mahershala Ali rispetto a qualunque di loro tre, sinceramente).

Moonlight è il Carol al maschile che fa bene al cuore e al cervello: al cuore, perché racconta efficacemente quella straordinaria e sempre nuova emozione che è il vivere ogni giorno con ogni sua imperfezione e bellezza; al cervello, perché riesce – come già detto – a toccare con raffinatezza e classe due tematiche tanto storpiate e inzuccherate, riuscendo a far sì che la storia di ragazzi neri ed omosessuali possa benissimo applicarsi anche ad una coppia bianca eterosessuale senza alcun problema. Che è poi ciò che dovremmo sempre poter pensare, nella vita.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Alla luce della luna i ragazzi neri sembrano blu: ti chiamerò blu.

Florence (2016)

Florence Foster Jenkins, ricca ereditiera ed amata mecenate artistica di New York, sogna di poter estasiare una grande folla grazie alle proprie doti canore: l’unico ostacolo a questo desiderio è l’assoluta mancanza di talento vocale della donna, incapace di sostenere una nota correttamente o di andare a tempo. Eppure Florence riuscirà, con il sostegno dell’amato “marito” St.Clair Bayfield, a tenere un concerto all’interno della prestigiosissima Carnegie Hall di New York.

Stephen Frears torna a raccontarci la storia di una donna avanti con l’età, dopo le buone/ottime prove nel campo della commedia o del dramma con le pellicole Lady Henderson PresentaThe Queen – La ReginaPhilomena. Ciò che ho sempre amato di questo regista – che raramente mi ha deluso, perfino con le sue pellicole meno convincenti (Tamara Drewe – Tradimenti All’Inglese) – è la capacità di raccontare una storia tramite una regia davvero poco invadente, eppure sempre presente – tenue mano che carezza l’intera vicenda: al contempo, Frears si è sempre avvalso di sceneggiatori in grado di creare empatia con i propri personaggi e di raccontare storie interessanti senza mai calcare la mano, senza mai eccedere in “americanismi” topici e un po’ datati. Purtroppo Florence, in tal senso, risulta un mezzo passo falso.

Chiaramente non risulta fuori fuoco Meryl Streep, che recita con un certo gusto e controllo – soprattutto nelle scene in cui confessa le più profonde preoccupazioni di un’anima comunque vicina alla morte – e ancor più a fuoco sembra il personaggio di Cosmé McMoon, ben interpretato da Simon Helberg, in un ruolo a metà tra una spalla comica di ascendente alleniano e un supporto drammatico per le patetiche ambizioni di Florence. Hugh Grant, sinceramente, mi ha lasciato un po’ interdetto: il suo ruolo è sicuramente il più sfaccettato, e mi sembra l’abbia affrontato con impegno; al contempo – carriera canaglia! – non riesco a non vedere in lui quel sornione playboy di Pretty Woman, e il contrasto con il personaggio di St.Clair mi lascia un retrogusto lievemente grottesco.

Cioè che non sembra perfettamente a fuoco è il senso della vicenda in generale: Florence ha tanti diversi piccoli “handicap” (la sifilide, l’eccesso di ingenua generosità, la mancanza di un figlio, la mancanza di talento) che, nonostante un tentativo neanche troppo superficiale di approfondimento, non risultano davvero fondamentali per lo sviluppo della storia. Probabilmente gran parte del problema sta nel fatto che il vero protagonista – in termini di analisi e tempo sullo schermo – è proprio St.Clair/Hugh Grant: anche qui, tuttavia, sembra un po’ esagerato l’attaccamento del personaggio a Florence, soprattutto in virtù della giovanissima alternativa che si trova al proprio fianco (Kathleen/Rebecca Ferguson – un personaggio un po’ di sfondo, anche lievemente isterico nei propri atteggiamenti).

Quello che rimane in fondo, dunque, è il resoconto di una duplice storia d’amore (per la musica da parte di Florence, e reciprocamente tra quest’ultima e St.Clair) trattata con una leggerezza che – purtroppo – non è stavolta sinonimo di delicatezza, ma più che altro di vanità (in senso materiale). Mi ritrovo dunque, per la prima volta (a mia memoria), ad essere non completamente convinto in seguito alla visione di una pellicola targata Frears: ultima scivolata in extremis, il finale che scivola (seppur solo lievemente) nel sentimentalismo “americano” più puro. Peccato davvero.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

La gente può anche dire che non so cantare, ma nessuno potrà dire che non abbia mai cantato.

Cogan – Killing Them Softly (2012)

Tre uomini mettono su un piano per rapinare una partita di poker. Hanno fatto in modo che la colpa venga scaricata sull’organizzatore, che tempo addietro aveva già fatto la furbata di farsi rapinare per poi spartire il bottino: sperano in questo modo di farla franca. Ma uno dei tre si lascerà scappare qualche parola di troppo, e la mafia metterà sulle loro tracce il freddo ed implacabile Jackie Cogan, killer ineludibile.

Era da tanto che non vedevo un film così, un film apparentemente vuoto ma in realtà fatto di vuoto: forse era dai tempi di Somewhere, anche se siamo ben lungi da quel risultato (per informazione, sappiate che sono uno dei pochissimi a ritenerlo il migliore della Coppola), quindi si parla di ben due anni or sono. Ora Cogan, come già detto, è indubbiamente meno compatto ed intenso del Leone D’Oro 2010, eppure presenta una simile intenzione narrativa: è un film che sembra non dire niente, e quando dice non brilla certo per originalità, ma…

Partiamo da un presupposto: Cogan è un film che ha indubbiamente dei debiti verso il primissimo Tarantino, quello de Le Iene, pieno di logorroici dialoghi che portano spesso al nulla, ma che “riempiono” il tempo e lo spazio filmici (si veda, in particolare, il pestaggio di Markie, durante il quale i due assalitori continueranno a parlare ininterrottamente, che ricorda la tortura perpetrata da Mr.Blonde al povero poliziotto). Qua i momenti di dialogo inconcludente sono alternati a lunghissime, lente sequenze (supportate da un uso artistico della slow-mo), che hanno un forte potere ammiccante (per dirla in altri termini, sembrano dirti quasi “Ehi, ma come sarà figo questo film?”): in tal senso è esemplare il dialogo fra i due rapinatori, dove il punto di vista è quello del tizio fatto, che vede tutto rallentato e coglie una frase ogni tre.

Eppure il dinamismo della pellicola Tarantiniana è qui assente, e prevalgono atmosfere lente, grigie, quasi paralizzate. Troppo: fino a circa dieci minuti dalla fine si rimane abbastanza basiti dalla sensazione di noia che Cogan finisce immancabilmente per trasmetterci. Però nel finale è proprio Cogan/Pitt a darci una chiave di lettura per l’intero film, con la frase che posto in MOVIEQUOTE. Non è certo una risoluzione originale, né tantomeno basta a far rivalutare tutta la precedente “vuotezza”, ma al contempo ci regala quello che sembrava mancare all’intera vicenda: un senso.

Cogan è un killer impersonale, che non si lascia coinvolgere, non permette ai sentimenti di interferire con il suo “mestiere”. La novità, forse, è che il nostro protagonista non si sente appagato da questo, non si compiace della sua professionalità, ma anzi si lamenta dell’impossibilità di un mondo in cui non contino solo gli affari  e i quattrini, e in cui ci sia posto anche per fratellanza, compassione, amore (soprattutto in quest’ultimo senso acquista una ragione d’essere il personaggio di Mickey, killer divorziato e puttaniere, in preda però ad una depressione che potrebbe derivare proprio dall’impossibilità di sentimento). E’ una critica politico/sociale, quella che in ultima analisi vuole fare Dominik con il suo 3° lungometraggio, critica che emerge confusa e frammentaria dalle “pillole” prese dai discorsi di Bush e Obama, e che viene poi servita in maniera diretta e precisa allo spettatore nell’intensa conclusione: e non ci dispiace, per una volta, avere una chiave di lettura ben dichiarata.

Registicamente freddo ed impeccabile, con un buon cast di attori (dove nessuno però emerge, dal momento che la forza della pellicola è nelle atmosfere, non nella vicenda o nei characters) ed un certo gusto nella selezione delle tracce per la colonna sonora (qualche esempio: oltre alla main-track, The Man Comes Around di Johnny Cash, è azzeccata la versione strumentale di Heroin dei Velvet Underground all’inizio del dialogo fra i rapinatori), Cogan è un film che sicuramente spiazza le aspettative del pubblico (io, onestamente, pensavo di trovarmi di fronte ad un noir classico) e probabilmente lo annoia un po’, ma che dà da pensare e su cui c’è da pensare. Tutto sta nel seguirlo fino alla fine, e lasciarsi catturare da quell’aria di “decadenza” che permea l’intera pellicola.

VOTO: 3/5

MOVIEQUOTE

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PUBBLICATO SU www.storiadeifilm.it

LEGENDA VOTI

5/5=10  4,5/5=9  4/5= 8  3,5/5=7,5  3/5=7  2,5/5=6  2/5=5  1,5/5=4  1/5=3  0,5/5=2  0/5=0