La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water (2017)


Siamo negli Stati Uniti, in piena guerra fredda. Elisa, una donna di mezza età affetta da mutismo, vive in un angusto appartamento che ha arredato come una piccolo regno magico: ha un amico nel vicino di casa, un pittore gay con il quale condivide la passione per il Cinema muto. Elisa, inoltre, lavora come addetta alle pulizie all’interno di un centro di ricerca governativo: un giorno, nel laboratorio, fa la sua comparsa un essere incredibile, metà uomo e metà pesce, che attira subito l’attenzione della donna…

Guillermo Del Toro (soprannominato affettuosamente “CiccioMessico” dal sottoscritto) è sempre stato un favorito, qui in casa Cinemalato: nonostante lo sciatto Crimson Peak di qualche Stagione fa, mi è impossibile non volere bene (artisticamente parlando) all’ideatore de Il Labirinto Del Fauno, nonché colui che stava dietro alla maggior parte del primo Lo Hobbit (e che, se fosse stato libero di procedere, avrebbe reso la saga un altro cult del genere).

Quando, dunque, ho saputo che il suo ultimo lavoro aveva vinto il Leone D’Oro a Venezia, ho subito pensato che CiccioMessico avesse nuovamente tirato fuori il coniglio dal polveroso cilindro: quando, invece, il ragazzo si è portato a casa il Golden Globe per la Miglior Regia e ha ricevuto tredici nomination agli Oscar, ho iniziato a temere di trovarmi di fronte ad un prodotto corretto, ma “americano”.

Fortunatamente non è questo il caso, perlomeno non con la temuta gravità. La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water è una favola dall’impianto narrativo classico, dai tocchi registici talvolta lievemente derivativi da certo Cinema fantastico-surreale (Il Favoloso Mondo Di Amélie su tutti), ma con una sua forte identità DelToriana che mette in secondo piano gli echi stilistico-strutturali.

La realtà insudiciata e l’evasione monda si intrecciano costantemente, come in un valzer: alla polvere e alla vetustà dell’appartamento di Elisa, si contrappongono le surreali forme curvilinee del suo arredamento; alla leggerezza romantica della donna nel suo sognare un musicale tip-tap si contrappongono le sue deprimenti e meccaniche masturbazioni; alla delicatezza della storia d’amore, si contrappongono la violenza dell’omofobia e del razzismo, nonché il rosso carminio del sangue (che inonda lo schermo più volte). L’antinomia più forte, però, è quella tra parola e gesto: all’interno del film, le parole sono costantemente menzognere, deboli o violente, e creano ostacoli che complicano la vicenda; i gesti, al contrario, sono sinceri e risolutivi, capaci di generare amore o di salvare vite.

Il silenzioso sentimento che si instaura tra i due muti protagonisti della pellicola è costantemente segnato dalla presenza dell’acqua, fin da quella nella quale bollono le uova sode, primo motore dell’intera vicenda. Ed è un progressivo detergersi dell’acqua e nell’acqua: dallo squallore iniziale di una vasca sporca (di sangue e di solitudine), si passa all’inondazione di un’intera stanza che diventa pioggia d’amore per le persone circostanti, fino alla metamorfosi acquatica del lieto fine (dove le ferite dell’esclusione terrestre diventano branchia e lasciapassare per una nuova inclusione nell’acqua).

Al netto di alcuni momenti meno felici (la scena pre-finale del ballo in bianco e nero, un po’ leziosa e telefonata – anche se, rispetto ad un La La Land, molto meno tirata per le lunghe e dunque più facilmente digeribile; il finale, in generale un po’ affrettato nella sua rocambolesca risoluzione), la coerenza stilistico-tematica di La Forma Dell’Acqua – The Shape Of Water, nonché il suo cast eccellente (oltre ai soliti ottimi Shannon e Doug, si segnalano il delicato pittore di Richard Jenkins e la strepitosa Elisa di Sally Hawkins – di una delicatezza e risolutezza commoventi), ne fanno un titolo imperdibile per la Stagione in corso, un gioiellino di fiaba che riesce a far sognare ed emozionare senza zuccheri aggiunti né forzature: e riuscire, oggi, a concepire una favola (uno dei più antichi generi narrativi) che non sia piatta o scontata, non è impresa affatto facile.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Quando mi guarda, lui non vede quello che mi manca o quanto io sia incompleta.

Foxcatcher (2014)

Mark Schultz, medaglia olimpica 1984 nella lotta greco-romana, viene contattato dal ricco milionario John E. Du Pont, proprietario della villa Foxcatcher. Il magnate è un grande patriota ed appassionato di lotta: egli non tollera che Mark sia stato dimenticato dalla sua nazione, dopo il grande servizio reso con la sua vittoria olimpica, e gli propone di entrare nel team Foxcatcher da lui sponsorizzato. Inizia così uno strano ed intenso rapporto di amicizia tra i due personaggi, minacciato tuttavia dalla droga e dagli affetti personali (la madre di Du Pont e il fratello di Mark, medaglia olimpica e fidato braccio destro).

Trovare di nuovo Bennett Miller dopo 3 stagioni cinematografiche è stato un grandissimo piacere. Il trionfatore della Stagione 2011/2012 con il meraviglioso L’Arte Di Vincere, è tornato a far parlare di sè già dallo scorso Cannes (dove ha portato a casa il premio per la miglior Regia): le cinque nomine agli Oscar (di cui finalmente la prima per Miller stesso) hanno solo fatto aumentare l’hype nei confronti di questo nuovo Foxcatcher.

L’ultima Opera del buon Bennett (sceneggiata dalla coppia Dan Futterman/E. Max Frye) sembra, in effetti, riprendere da dove Moneyball era rimasto: là un magnifico perdente, qui due perdenti e basta. Ma qui il paradosso è ancora più ampio, se possibile: Miller fa di un ricco milionario e di un campione olimpico (e mondiale) i suoi perdenti, i suoi secondi. È un’altra categoria di perdenti, molto più complessa: sono i sottomessi.

Du Pont è sottomesso alla madre e alla sua immagine di riccone altolocato, la lotta è una passione che può permettersi solo di finanziare, di guardare in silenzio dall’esterno: quando cerca di entrarvi dentro, tutto si fa squallido e fittizio (come il suo improvvisarsi allenatore davanti alla telecamere, o il suo match comprato a tavolino). Mark, al contrario, è sottomesso al fratello: il fratello, più tecnico e più razionale, capace di condurre quell’ammasso di muscoli senza cervello ad ottenere risultati importanti.

E come il Beane di Moneyball, anche Du Pont e Mark lottano contro la loro condizione: da qui scaturisce il loro rapporto, che inevitabilmente si rivelerà distruttivo proprio perchè non allineato con la propria natura. Du Pont cerca infatti di diventare dominatore tramite il team Foxcatcher e tramite l’addestramento di Mark: wrestling, cocaina, una sottile tensione omosessuale – la meravigliosa scena in veranda, dove Mark (ormai cucciolo dipendente, cambiato nell’aspetto e nello spirito) è letteralmente accucciato ai piedi del suo padrone. Ma Du Pont in realtà sta cercando di aiutare anche Mark a cambiare la sua natura: “uscire dall’ombra del fratello”, questa la missione originale (si veda la MOVIEQUOTE) – paradossalmente conclusasi nel cambio di padrone.

La sconfitta è doppia, però: la madre muore senza avere mai davvero accettato la passione del figlio, e Mark è troppo incontrollabile. Ecco tornare in campo Dave, chiamato proprio da Du Pont: riprende il controllo di Mark, che in una rabbiosa catarsi fa i conti con la propria natura, e tristemente l’accetta. Al contrario di Du Pont, che non riuscirà ad accettare il fatto di essere stato spodestato come padrone, e – in parte – nuovamente sottomesso da un nuovo padrone (Dave stesso): e compierà così l’ultimo disperato tentativo di evasione dalla propria condizione.

Ingabbiato in atmosfere grige e pesanti, in ritmi dilatati capaci di contrarsi all’occorrenza in rabbiosi e violenti ritorni di fiamma, Foxcatcher cattura poco alla volta, senza cercare la scena ad effetto o la citazione da Storia del Cinema. Miller indugia a lungo sui personaggi, sulle loro espressioni monocordi: e il cast (perfetto: Tatum bestione senza cervello, Carell bloccato anche simbolicamente dal cerone, Ruffalo come sempre impegnato in una prova di sottrazione) accompagna quasi in silenzio la vicenda, il perfetto seguito della pellicola del 2011 (lento e desolante, là dove Moneyball era decisamente più ritmato e “romantico”). E conferma Miller come uno dei migliore registi USA degli ultimi anni.

“LOCANDIMETRO”

MOVIEQUOTE

Spring Breakers – Una Vacanza Da Sballo (2012)

Brit, Candy, Cotty e Faith sono quattro studentesse del college, che (come tutti quelli della loro età) desiderano da pazze andare allo “Sping Break” in Florida. Per potersi permettere lo sballo di questa costosa vacanza, sono “costrette” a rapinare un fast food: non sarà l’unica disavventura illegale delle 4, che finiranno anche arrestate per consumo di sostanza illegali. È in quel momento, però, che arriva in loro soccorso Alien, rap amatoriale e gangster professionista, che paga loro la cauzione per uscire di prigione…

Quando una persona guarda la locandina di Spring Breakers – Una Vacanza Da Sballo  non può non pensare di trovarsi davanti alla classica Commedia adolescenzial-sessuale-trash (sulla scia di American Pie e affini): un titolo penoso ma apparentemente “cool”, una locandina colorata e tamarra, James Franco conciato peggio che in Strafumati, Selena Gomez (direttamente da I Maghi Di Waverly) e Vanessa Hudgens (High School Musical), Skrillex e Britney Spears nella colonna sonora. Però c’è una cosa che i “sublimi” distributori Italiani (o comunque i responsabili della locandina) si sono scordati di inserire (quasi fosse una colpa, invece di un motivo di vanto): Spring Breakers ha partecipato (in concorso) alla 69esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica Di Venezia. E così, dopo lo scempio (in sede di “presentazione) di Se Mi Lasci Ti Cancello (fatto passare per la solita Commedia da famiglia con Jim Carrey, invece del filmone con i controcazzi che è), un’altra zampata dei nostri magnifici traduttori/distributori ha tentato di rovinare in partenza la reputazione di un altro film.

Il passaggio a Venezia della nuova opera del regista Harmony Korine mi permette anche di istituire una coincidenza che non ritengo essere tale: la vittoria, 3 edizioni or sono, di quello che il sottoscritto (e io solo, credo) ritiene il Capolavoro di Sofia Coppola, ovvero Somewhere. Perchè come la figlia di Francis Ford parlava del vuoto esistenziale di un attore hollywoodiano, incredibile a pensarsi (ma ben presente, e potenzialmente distruttivo), qua il vuoto che viene esplicitato è quello di un’intera generazione, di una gioventù che non sembra avere altro scopo che quello dello “sballo”, sia esso raggiunto tramite una folle vacanza (tutta alcool, droga e sesso) o grazie al fatto di “possedere roba” (“my shit”, in lingua originale: che ci sia un doppio senso in questo “shit”?).

E proprio come Somewhere anche Spring Breakers è un film lento, la cui lentezza deriva (paradossalmente) da un continuo succedersi di vicende “da sballo”, che si ripetono, e si ripetono, e si ripetono, eterno loop che si avvita intorno al vuoto pneumatico più totale: emblematica, in tal senso, la conversazione tra Franco e le sue “Spring Breakers” prima dell’attentato all’ex-amico Archie, composta di tre/quattro frasi ripetute cinque/sei volte alla stessa identica maniera. È un film lento, Spring Breakers, anche quando l’azione si velocizza (paragone pregnante in queste caso è Drive), anche quando le ragazze si improvvisano rapinatrici (o quando partecipano alla sparatoria finale, tanto cruenta quanto vacua), anche quando impazza lo “Spring Break” e le “musiche” House di Skrillex pompano impazzite fuori dallo schermo.

E proprio la musica è il veicolo tramite cui la pellicola tocca vette di vuoto “vertiginoso”. Prendete la sequenza che posto in MOVIEQUOTE: le ragazze e Alien cantano attorno ad un pianoforte, pestano persone, le rapinano, fumano, e tutto è una sorta di gioco, fine a sè stesso e assolutamente insignificante. Prova ne è la lentezza asfissiante delle immagini, e l’assoluta vuotezza della canzone in sottofondo, Everytime di Britney Spears (il brano che  nella storia del Pop tenta più di ogni altro di sembrare reale, vero, pur essendo composto di pura plastica, tra l’altro scritto e interpretato dalla prima, grande star “costruita” dall’Industria, i cui continui paragoni con Madonna sono a dir poco ridicoli e fuori luogo): è privo di senso questo binomio, manca una motivazione per cui mettere una ballata melensa sotto certe immagini. E proprio per questo l’intera sequenza diventa un’inno al Nulla, un’ode all’Assenza.

Limite e potenza al contempo di Spring Breakers è questa mancanza, questo non sapere cosa fare (la vita dei personaggi e la trama del film vanno di pari passo, in tal senso): anche il ritorno a casa di due delle quattro ragazze non è assolutamente un “aprire gli occhi”, quanto un accettare il fatto che quella tanto agognata Vacanza è vuota e superflua proprio come loro. E purtroppo anche la pellicola appare così, per buona parte: ridondante, eccessivamente forzata, noiosamente avviluppante. Croce e delizia, la scelta del tema non ha permesso a Korine di centrare in continuazione l’obiettivo, di essere sempre mordente e convincente, ma ha (al contempo) donato spessore alla vicenda delle quattro amiche, riuscendo a descrivere quella che è la vera generazione “X” di oggi. E farlo partendo da coloro che (grazie anche alla Disney: non quella dei Capolavori d’Animazione, ma quella commerciale e senz’anima della TV e del Cinema “adolescenziale”) hanno contribuito al trionfo della cultura e dell’umorismo bimbominkia nel genere (le succitate Gomez e Hudgens) è la ciliegina sulla torta.

“LOCANDIMETRO”

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Espiazione (2002) (2007)

A casa Tallis, in una noiosa giornata estiva, avviene un inaspettato e radicale cambiamento nella vita delle due giovani sorelle: il fallimento della commedia che aveva scritto porta la tredicenne Briony a maturare nuove consapevolezze dentro di sè; la visita del fratello maggiore ed uno scambio di lettere, fanno sì che la giovane Cecilia prenda atto della sua nuova fisicità e dell’infatuazione profonda che nutre per il figlio della sua domestica, Robbie. Una tremenda bugia di Briony porterà alla separazione della giovane coppia appena formatasi; negli anni l’amore di Robbie e Cecilia e la coscienza della sorella minore saranno messi a dura prova.

I problemi di questa seconda accoppiata di Cinelettere (dopo la mia positiva recensione di Quel Che Resta Del Giorno) sono da ricondursi anzitutto al soggetto. McEwan, rispetto al suo classico per ragazzi L’Inventore Di Sogni, costruisce una storia decisamente più matura, che se vogliamo parte però da premesse similari; Briony, come Peter, attraverso la fantasia, si rende costruttrice di realtà diverse da quella ordinaria. Se da una parte però i sogni di Peter sono la cornice fantastica di racconti simil-fiabeschi (ma dall’elevato fascino letterario), l’immaginazione di Briony interviene su una vicenda realistica e ben più “seria”; già risulta difficile pensare che qualcuno possa essere arrestato a causa di una deposizione di minore (e in una situazione tanto confusa), e questo fa crollare l’espediente narrativo che causa l’allontanamento della giovane coppia. La restante vicenda è decisamente banale, con un colpo di scena finale molto poco sorprendente.

Le migliorie del film rispetto al libro sono evidenziabili in ben due punti.
1) Maggiore essenzialità rispetto al cartaceo: sia perchè la scrittura di McEwan è ridondante, caotica, concettosa, e rende davvero difficile digerire la già (fin troppo) psicotica vicenda (pensate che io mi sono accorto del colpo di scena finale grazie alla pellicola, perchè i paroloni del libro mi avevano a tal punto incrociato gli occhi da non farmi proprio capire il contenuto della conclusione); sia perchè ci sono delle digressioni inutili, che introducono personaggi totalmente (o quasi) insignificanti per la vicenda (vedi la madre di Cecilia e Briony).
2) Modifica del finale: improponibile a dir poco nel libro (alla festa di compleanno della vecchia Briony, i suoi pronipoti mettono in scena la commedia da lei scritta ad inizio libro, sciocca ed inutile chiusura di un ipotetico cerchio narrativo), diventa molto più intensa  ed efficace nell’intervista “espiatrice” di Briony durante un talk-show televisivo.

Proprio per la sua volontà “semplificatrice”, però, il film perde sostanza rispetto al libro: la storia d’amore fra i due giovani è troppo intensa (e gli attori troppo carichi), e paradossalmente possiede quindi meno appeal rispetto alla narrazione di McEwan; inoltre la volontà di Briony di testimoniare contro Robbie viene ricondotta ad un semplice atto di gelosia nei confronti della sorella maggiore, mentre nel libro c’era una motivazione ben più interessante ed originale, relativa all’evoluzione di Briony da “commediante” a “scrittrice” in grado di generare vita e realtà alternative con la sua fantasia.

Ci pensa la regia di Wright a dare lustro alla pellicola; elegante, nevrotico, suadente, il buon Joe (già regista di Orgoglio E Pregiudizio, e  dell’eclettico Hanna in questa stagione cinematografica) si conferma un ottimo manovratore di cinepresa, in grado di regalare momenti di arte pura (come il magnifico piano-sequenza sulle spiagge di Dunkerque, postato in MOVIEQUOTE). La sezione centrale del film (quella appunto relativa all’esperienza di Robbie come soldato) è in generale ben realizzata, e dona all’abusatissimo tema una doppia valenza: quella “descrittiva”, relativa ad un clima di costante paura, tensione, morte imminente, qui reso con sapiente mestiere senza scadute retoriche; e quella “narrativa” di insormontabile ostacolo all’amore fra i due giovani. Duplicità già presente nel libro di McEwan (di cui, fra l’altro, rappresenta indubbiamente la sezione meglio riuscita) che non perde di efficacia nella sua trasposizione cinematografica, pur se incredibilmente ridotta e sintetizzata nei tempi (anzi migliorata, nell’espunzione delle solite digressioni fuori tema).

Per quanto riguarda il cast, la Knightley è brava, ma a volte troppo sopra le righe, e McAvoy è efficace nel rendere il dolore represso del suo personaggio, ma è un po’ penalizzato da alcune scelte di sceneggiatura. Intensa la Ronan nel suo esordio cinematografico (trovala una bimbetta che a 13 anni regga così la scena), molto efficace nella sua contenutezza monoespressiva anche Romola Garai, senza dubbio la meno conosciuta fra i personaggi principali, ma non da meno degli altri attori. Ma lo chapeu va alla straordinaria Redgrave, che in cinque minuti neanche fa quasi dimenticare il resto del film con una maschera facciale di sorprendente intensità.

Su una storia poco avvincente, banalotta nell’insieme, McEwan ha intessuto un “vertiginoso labirinto” (La Repubblica), che nella sua eleganza formale salva il libro dal baratro (soprattutto per l’ottima sezione centrale) ma lo rende al contempo indigesto nel lungo periodo (e nella lunga distanza delle sue 381 pagine). L’adattamento di Wright migliora e peggiora la trama del cartaceo, e nonostante l’ottima regia ed un cast di tutto rispetto non si distacca troppo dalla sua base narrativa, risultando a tratti troppo eccessivo ed eccedente, e non riuscendo ad elevare la trita vicenda sentimentale. Senza sapore; per riassumere il tutto non mi viene in mente niente di meglio.

VOTO LIBRO: 2,5/5 VOTO FILM: 2,5/5

CITALIBRO

Ti amo. Ti aspetterò. Torna da me.

MOVIEQUOTE

LEGENDA VOTI

5/5=10  4,5/5=9  4/5= 8  3,5/5=7,5  3/5=7  2,5/5=6  2/5=5  1,5/5=4  1/5=3  0,5/5=2  0/5=0